domenica 26 aprile 2015

AVRO' CURA DI TE

Massimo Gramellini-Chiara Gamberale, Avrò cura di te, Longanesi, Milano, 2014, pp.189


 Sorprende, ma fino a un certo punto, che questa specie di romanzo epistolare di 189 pagine, compresi l’epilogo gioioso e gli indecifrabili ringraziamenti, abbia resistito per diversi mesi in testa alla classifica dei libri più venduti in Italia. A cosa si deve? Al tema dell’amore deluso e poi trionfante? All’ambiguità di una narrazione che strizza l’occhio a credenti e non credenti? All’ingenuità e al passaparola di lettori conformisti? Alla pubblicità e al potere della televisione? Alla fama dei due autori che insieme ne hanno architettato la risibile trama: Chiara Gamberale, scrivendo per conto di Giò, la sposa delusa e poco sincera di 35 anni, e Massimo Gramellini, prestando la penna a Filèmone?

 Non sono lettere d’amore quelle che, dalla prima all’ultima pagina del libro, si scambiano Gioconda e Filèmone, perché lei è di carne e sangue, mentre lui è uno spirito puro che però conosce bene la vita per essersi incarnato più volte. La fonte di ispirazione del romanzo è onestamente dichiarata nella seconda lettera che l’angelo fa trovare alla donna: “Mi chiamo Filèmone, come l’angelo di Jung e come il marito della favola di Ovidio che realizzò il tuo sogno di un amore senza limiti. Giunti al termine della vita, Filèmone e Bauci, la sua sposa, chiesero a Giove di morire come avevano vissuto: insieme. Il dio li esaudì, trasformando la loro capanna di fango in un santuario e gli anziani coniugi in due alberi posti a guardia del tempio. Accomunati dalla stessa ombra e dalla stessa luce.” [p.17] 

 Il mito di Filèmone e Bauci è narrato nei versi 620-724 del libro VIII delle Metamorfosi di Ovidio [43 a.C. – 18 d.C.]. Il merito della coppia di anziani coniugi non è solo quello di continuare ad amarsi anche in tarda età e in condizioni miserabili, ma di aver mostrato umana pietà e timore verso gli dei. Sui colli di Frigia – racconta Ovidio – un tiglio e una quercia, posti l’uno accanto all’altra, metamorfosi di Filèmone e Bauci, sono a testimoniare il favore divino:

 Iuppiter huc specie mortali cumque parente
venit Atlantiades positis caducifer alis;
mille domos adiere locum requiemque petentes,
mille domos clausere serae; tamen una recepit,
parva quidem, stipulis et canna tecta palustri.
Sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon
illa sunt annis iuncti iuvenalibus, illa
consenuere casa paupertatemque fatendo
effecere levem nec iniqua mente ferendo.” [op.cit., vv.626-634]

 “Qui venne Giove in aspetto mortale e con lui
Mercurio, signore del cadúceo, senza le ali;
a mille case si apprestarono chiedendo rifugio,
mille spranghe chiusero le porte; solo una li accolse,
piccola invero, e coperta di paglia e di canne palustri.
Ma la pia Bauci e Filèmone di pari età,
qui dimorano da quando erano nel fiore degli anni,
qui invecchiarono, sopportando la miseria
con cuore leggero e mente serena.”[trad. mia ]  

 Filèmone è anche il nome dell’angelo di cui Jung parla nel suo Libro Rosso o Liber Novus, corredato di schizzi e disegni e pubblicato postumo [Das Rote Buch, Patmos, Düsseldorf, 2009; Il Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2010]. Filèmone, benché concepito nelle modalità di una figura reale, come si vede nell’immagine che segue, è la rappresentazione simbolica della saggezza interiore che appartiene all’anima di ognuno o, per restare nella terminologia della psicanalisi, la voce stessa dell’inconscio.







   Il suo primo compito è di ammonire Jung sulla relatività dei pensieri: “Ti comporti  con i pensieri – gli dice – come fossi tu a produrli, invece i pensieri sono dotati di vita propria, come animali nella foresta, o uomini in una stanza o uccelli nell’aria”. L’angelo ha per lui la funzione di guida spirituale, come un vero e proprio maestro che poco a poco abbia il potere di illuminarlo.

 In questa stessa veste, ma con maggiore ambiguità e banalità, Filèmone svolge nel romanzo la sua funzione più importante, come avverte anche la citazione premessa alla narrazione: “In ognuno di noi c’è un altro che non conosciamo, Carl Gustav Jung”. Forse la nostra psiche è anche più affollata, ma qui Filèmone ha il compito di fare incontrare a Gioconda il suo vero :

 “Non posso impedirti di inciampare. Però posso medicare il tuo piede ferito. E prenderti in braccio, fino a quando non sarai in grado di camminare sulle tue gambe.
Buona festa dell’amore, solitaria anima mia.
Avrò cura di te.” [p.15].

 E, in effetti, tutto comincia nel giorno di San Valentino, quando Gioconda sola e disperata per il suo amore abbandonato e tradito, rinviene nella casa avita una lettera di sua nonna - di cui porta il nome - all’angelo custode. Con un certo scetticismo, anche lei prova a fare la stessa cosa e avrà da Filèmone una risposta che non si attende. È l’inizio di una fitta corrispondenza, fatta di luoghi comuni e “lezioni angeliche” che il lettore è costretto a sopportare, se vuole arrivare a scoprire che “la speranza dell’amore assoluto” non è un’illusione, come a un certo punto arriva a pensare Gioconda, ma una realtà concreta in grado di darci la felicità terrena se, mutando il nostro atteggiamento, sapremo renderci degni di Filèmone e Bauci. E non basta, perché dal racconto della sua ultima reincarnazione, l’angelo di Giò, ci fa partecipi che “l’amore per sempre” è alla portata di tutti.

 Nel romanzo non manca qualche perla di comune buon senso, come nelle parole che Filèmone rivolge a Gioconda nella lettera del 6 marzo: “Ti rivelerò un segreto: la vita, per chiunque abbia l’ardire di credere in lei, è un ingegnoso gioco di specchi. La realtà esterna riflette il nostro stato d’animo e quella interna lo stato d’animo di chi ci circonda.” [p.45]. O come nelle ricette angeliche del 20 aprile: “Come debellare il virus dell’autocommiserazione” e “Come vaccinarsi contro l’epidemia dei sensi di colpa” [pp.64-67].

 Decisamente troppo poco per dare spessore a una trama epistolare, monotematica e di sapore trascendente. È vero che la prosa di Gramellini resta garbata come quella di Fai bei sogni, ma il daimon che dava senso ed efficacia a quella narrazione [leggi la recensione del romanzo del 2012, cliccando di seguito sul titolo: IL ROMANZO E’ MORTO? MASSIMO GRAMELLINI AUTOBIOGRAFIA DI UN GIORNALISTA], si è qui bruscamente mutato in una figura angelica moraleggiante e poco interiorizzata.

sergio magaldi    





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