Massimo Gramellini-Chiara Gamberale, Avrò cura di te, Longanesi, Milano, 2014, pp.189 |
Sorprende, ma fino a un certo punto, che questa
specie di romanzo epistolare di 189 pagine, compresi l’epilogo gioioso e gli
indecifrabili ringraziamenti, abbia resistito per diversi mesi in testa alla
classifica dei libri più venduti in Italia. A cosa si deve? Al tema dell’amore
deluso e poi trionfante? All’ambiguità di una narrazione che strizza l’occhio a
credenti e non credenti? All’ingenuità e al passaparola di lettori conformisti?
Alla pubblicità e al potere della televisione? Alla fama dei due autori che
insieme ne hanno architettato la risibile trama: Chiara Gamberale, scrivendo
per conto di Giò, la sposa delusa e poco sincera di 35 anni, e Massimo
Gramellini, prestando la penna a Filèmone?
Non sono lettere d’amore quelle che, dalla
prima all’ultima pagina del libro, si scambiano Gioconda e Filèmone, perché lei
è di carne e sangue, mentre lui è uno spirito puro che però conosce bene la
vita per essersi incarnato più volte. La fonte di ispirazione del romanzo è
onestamente dichiarata nella seconda lettera che l’angelo fa trovare alla
donna: “Mi chiamo Filèmone, come l’angelo di Jung e come il marito della
favola di Ovidio che realizzò il tuo sogno di un amore senza limiti. Giunti al
termine della vita, Filèmone e Bauci, la sua sposa, chiesero a Giove di morire
come avevano vissuto: insieme. Il dio li esaudì, trasformando la loro capanna
di fango in un santuario e gli anziani coniugi in due alberi posti a guardia
del tempio. Accomunati dalla stessa ombra e dalla stessa luce.” [p.17]
Il mito di Filèmone e Bauci è narrato nei
versi 620-724 del libro VIII delle Metamorfosi di Ovidio [43 a.C. – 18 d.C.].
Il merito della coppia di anziani coniugi non è solo quello di continuare ad
amarsi anche in tarda età e in condizioni miserabili, ma di aver mostrato umana
pietà e timore verso gli dei. Sui colli di Frigia – racconta Ovidio – un tiglio
e una quercia, posti l’uno accanto all’altra, metamorfosi di Filèmone e Bauci,
sono a testimoniare il favore divino:
“Iuppiter
huc specie mortali cumque parente
venit Atlantiades
positis caducifer alis;
mille domos adiere locum
requiemque petentes,
mille domos clausere
serae; tamen una recepit,
parva quidem, stipulis
et canna tecta palustri.
Sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon
illa
sunt annis iuncti iuvenalibus, illa
consenuere
casa paupertatemque fatendo
effecere
levem nec iniqua mente ferendo.”
[op.cit., vv.626-634]
“Qui venne Giove in aspetto mortale e con lui
Mercurio,
signore del cadúceo, senza le ali;
a
mille case si apprestarono chiedendo rifugio,
mille
spranghe chiusero le porte; solo una li accolse,
piccola
invero, e coperta di paglia e di canne palustri.
Ma
la pia Bauci e Filèmone di pari età,
qui
dimorano da quando erano nel fiore degli anni,
qui
invecchiarono, sopportando la miseria
con
cuore leggero e mente serena.”[trad.
mia ]
Filèmone è
anche il nome dell’angelo di cui Jung parla nel suo Libro Rosso o Liber
Novus, corredato di schizzi e disegni e pubblicato postumo [Das Rote
Buch, Patmos, Düsseldorf, 2009; Il Libro Rosso, Bollati Boringhieri,
2010]. Filèmone, benché concepito nelle modalità di una figura reale, come si
vede nell’immagine che segue, è la rappresentazione simbolica della saggezza
interiore che appartiene all’anima di ognuno o, per restare nella terminologia
della psicanalisi, la voce stessa dell’inconscio.
In questa stessa veste, ma con maggiore
ambiguità e banalità, Filèmone svolge nel romanzo la sua funzione più
importante, come avverte anche la citazione premessa alla narrazione: “In
ognuno di noi c’è un altro che non conosciamo, Carl Gustav Jung”. Forse
la nostra psiche è anche più affollata, ma qui Filèmone ha il compito di fare
incontrare a Gioconda il suo vero sé:
“Non posso impedirti di inciampare. Però posso
medicare il tuo piede ferito. E prenderti in braccio, fino a quando non sarai
in grado di camminare sulle tue gambe.
Buona
festa dell’amore, solitaria anima mia.
Avrò
cura di te.” [p.15].
E, in effetti, tutto comincia nel giorno di
San Valentino, quando Gioconda sola e disperata per il suo amore abbandonato e
tradito, rinviene nella casa avita una lettera di sua nonna - di cui porta il
nome - all’angelo custode. Con un certo scetticismo, anche lei prova a fare la
stessa cosa e avrà da Filèmone una risposta che non si attende. È l’inizio di
una fitta corrispondenza, fatta di luoghi comuni e “lezioni angeliche” che il
lettore è costretto a sopportare, se vuole arrivare a scoprire che “la speranza
dell’amore assoluto” non è un’illusione, come a un certo punto arriva a pensare
Gioconda, ma una realtà concreta in grado di darci la felicità terrena se,
mutando il nostro atteggiamento, sapremo renderci degni di Filèmone e Bauci. E
non basta, perché dal racconto della sua ultima reincarnazione, l’angelo di
Giò, ci fa partecipi che “l’amore per sempre” è alla portata di tutti.
Nel romanzo non manca qualche perla di comune
buon senso, come nelle parole che Filèmone rivolge a Gioconda nella lettera del
6 marzo: “Ti rivelerò un segreto: la vita, per chiunque abbia l’ardire di
credere in lei, è un ingegnoso gioco di specchi. La realtà esterna riflette il
nostro stato d’animo e quella interna lo stato d’animo di chi ci circonda.” [p.45].
O come nelle ricette angeliche del 20 aprile: “Come debellare il virus
dell’autocommiserazione” e “Come vaccinarsi contro l’epidemia dei sensi di
colpa” [pp.64-67].
Decisamente troppo poco per dare spessore a
una trama epistolare, monotematica e di sapore trascendente. È vero che la
prosa di Gramellini resta garbata come quella di Fai bei sogni, ma il daimon
che dava senso ed efficacia a quella narrazione [leggi la recensione del
romanzo del 2012, cliccando di seguito sul titolo: IL ROMANZO E’ MORTO? MASSIMO GRAMELLINI AUTOBIOGRAFIA DI UN GIORNALISTA], si è qui bruscamente mutato in una
figura angelica moraleggiante e poco interiorizzata.
sergio
magaldi
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