La critica ufficiale di A serious man (L’uomo serio), regia e sceneggiatura dei fratelli Coen, è incline a vedere nel prologo del film – un racconto Yiddish d’altri tempi – uno strumento utile ad introdurre una “storia ebraica”, senza tuttavia attinenza con la successiva narrazione.
In un villaggio innevato dell’Europa centrale, sul finire dell’Ottocento, una coppia di contadini riceve nella propria dimora la visita di un anziano personaggio che il contadino ha invitato a cena ma che sua moglie ha visto morire di tifo tre anni prima. La donna è convinta che si tratti di un Dybbuk e che la maledizione di Dio (Ha Shem, “Il Nome”, come per lo più è chiamato Dio durante tutto il film) stia per abbattersi sulla loro casa di ebrei devoti.
Il Dybbuk è nella tradizione religiosa degli ebrei, lo spirito di un defunto proveniente dalla Gehenna (l’inferno ebraico) che “ritorna” per “attaccarsi” a un vivente al fine di riscattare dal peccato la propria vita o, secondo una versione parallela, è comunque uno spiritello che cerca d’insinuarsi nella mente dei vivi.
Non a caso nella Qabbalah la parola Dybbuk vale 122 (somma che si ricava addizionando il valore numerico delle singole lettere dell’alfabeto ebraico che compongono la parola: Daleth 4+Yud 10+Beth 2+Waw 6+Qof 100 = 122) e per Ghematria (parole o frasi con lo stesso valore numerico) si associa tra l’altro a Egel Ha Zahav, “vitello d’oro” e a Koach Ha Medameh, “potenza dell’immaginazione”.
Il prologo termina senza che il dilemma sia sciolto, lasciando libero lo spettatore di credere alle parole dell’ospite, che invoca un’interpretazione razionale della fede, dichiarando di essere guarito dal tifo, oppure a quelle della donna che continua a ritenerlo un Dybbuk e reagisce impulsivamente, spinta da motivazioni irrazionali.
L’utilità del prologo, nell’economia del film, si rivelerà allo spettatore solo alla fine, col concludersi delle vicende di Larry Gopnik (interpretato da un ottimo Michael StuhlBarg), novello Giobbe “americano” del Minnesota.
Siamo nel 1967 e sulle spalle di Larry, uomo serio e timorato di Dio, si abbatte tutta una serie di iatture (la moglie lo tradisce con un amico di famiglia e chiede il “divorzio rituale”, il figlio si droga, il fratello è arrestato per gioco d’azzardo e adescamento da sodomia, lettere anonime per denigrare la sua reputazione giungono all’Università dove insegna Fisica, uno studente coreano tenta di corromperlo, perde la casa, è oppresso da debiti non imputabili a lui, ha un incidente automobilistico ecc…) che non si giustificano sul piano della fede razionale, giacché, proprio come il Giobbe biblico della terra di Uz, egli di nulla si è reso colpevole di fronte a Dio.
Nel disperato tentativo di “uscire dall’angolo”, Larry si rivolge ai rabbini della Comunità. Il primo, il più giovane, gli consiglia di provare a vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto a come le ha sempre viste. D’altronde, Ha Shem lo aiuterà se lui si aiuterà! Il secondo gli racconta la storiella di un dentista che sui denti di un paziente lesse la parola “aiutami”. Il terzo, il rabbino Marshak, che è il più anziano ed è considerato il più saggio di tutti, si rifiuta d’incontrarlo.
La morale che se ne trae è che religione e fede non sono in grado di dare consigli su questioni di coscienza, né di risolvere il mistero del perché un uomo serio e timorato di Ha Shem venga così duramente provato. Ciascuno deve trovare in se stesso la risposta. D’altronde, neppure Dio accetta di rispondere al Giobbe biblico: “Chi sei tu? – gli chiede il Signore (Giobbe, 38, 2ss.) – Perché rendi oscure le mie decisioni con ragionamenti da ignorante? Rispondi tu piuttosto alle mie domande: Dov’eri quando gettavo le fondamenta della Terra? […]”
Il senso delle numerose domande che Ha Shem rivolge a Giobbe è duplice. Per un verso, Dio rimprovera Giobbe di pretendere una risposta, mentre non è in grado né sembra preoccuparsi di rispondere ad una qualsiasi delle tante domande che Lui gli rivolge. Per altro verso, Dio sembra voler dire a Giobbe: Tu che hai sotto gli occhi la sapienza e la grandezza delle mie opere, perché hai smesso d’aver fiducia in me?
Il merito dei fratelli Coen è di aver dato al proprio racconto, nonostante la serietà dell’argomento, una struttura leggera e arricchita di gags che, in piena comicità Yiddish, inducono lo spettatore a sorridere quasi di continuo. Ciascun personaggio è al posto giusto: Judith (Sari Lennick) moglie di Larry, aggressiva donna americana fine anni Sessanta e al tempo stesso madre ebrea che si commuove al Bar Mitzvah del figlio, e ancora: il vicino di casa razzista o la vicina provocante, per non parlare dei tre rabbini o di altri personaggi della comunità ebraica.
Restano alla fine del film, esattamente come nel prologo, almeno tre interrogativi: “Può la fede preservarci dalle sventure o, almeno, è in grado di soccorrerci?” E ancora: “L’approccio alla fede cancella il ruolo della ragione?” E infine: “Quando l’irrazionale bussa alla nostra porta, siamo in grado di riceverlo e d’intrattenerci con lui?”.
Come per Giobbe, anche per Larry tutto infine si ricompone e sembra risolversi passabilmente. Il “Giobbe americano”, tuttavia, reso edotto dall’esperienza, è propenso a riconsiderare in modo originale (è l’ultima sottolineatura ironica dei fratelli Coen) la nota massima di senso comune dell’aiutati che Dio ti aiuta… mentre, proprio nell’ultima inquadratura del film, il cielo si fa nero all’orizzonte e si annuncia un uragano.
sergio magaldi
Interessanti questi spunti, ne azzardo un altro: il povero vecchietto del preambolo, trafitto da un punteruolo, non vi ricorda nessuno? (razionalità di cui parla Sergio = logos di cui parla Giovanni)
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