Leggendo Il gioco dell’angelo (EL JUEGO DEL ÁNGEL, 2008) ho avuto l’impressione, almeno per circa una buona metà delle oltre 600 pagine, che l’abilità narrativa di Carlos Ruiz Zafón fosse venuta maturando rispetto al romanzo di sette anni prima, L’ombra del vento (LA SOMBRA DEL VIENTO) che pure gli era valso un ampio consenso di critica e di pubblico, con la vendita di più di 8 milioni di copie.
Mi è sembrato che il “guazzabuglio” di successo, come ho definito il romanzo del 2001, avesse lasciato il posto ad un lavoro più maturo e raffinato, senza la velleità di ricreare l’atmosfera dei grandi classici della letteratura e mescolare tra loro alla rinfusa una pluralità di generi letterari.
La ricostruzione della Barcellona anni ’20 funziona abbastanza, come pure appare convincente il dialogo interiore del giovane scrittore David Martin, lacerato e diviso da una duplice esigenza: quella della propria sopravvivenza che lo induce a scrivere sotto pseudonimo libelli per la serie intitolata “La città dei maledetti” di un piccolo editore senza scrupoli, e l’altra, cui aspira con tutte le sue forze, di scrivere finalmente un libro degno di questo nome. Probabile effetto di questa personale scissione della mente e dell’anima è la malattia mortale che lo colpisce e che lo porterebbe alla tomba senza l’intervento dell’ “angelo”, alias l’editore Andreas Corelli che, in cambio di una grossa somma di denaro e della guarigione, gli propone di scrivere un libro in grado di proporsi come il testo sacro di una nuova religione.
Di quale religione si tratti, Zafón non dice, non tanto per permettere al lettore di liberare la propria fantasia, quanto perché questa cosiddetta nuova religione in realtà c’è già nota sin dai tempi biblici. E cosa se ne fa il diavolo di un testo sacro, visto che le pagine sulle quali egli scrive più volentieri sono quelle del mondo? Una volta almeno stipulava contratti di eterna giovinezza e successo in cambio dell’anima, mentre ora pare si accontenti di un libro…
L’eterno “patto col diavolo” (come si sa il diavolo è un angelo decaduto) è comunque trattato abilmente da Zafón in una prospettiva seducente e singolare. Ciò che alimenta un clima di suspense e induce a proseguire nella lettura del romanzo. Come pure, la descrizione della spettrale “casa della torre”, in cui Martin finisce col ritirarsi, è gestita con abilità narrativa ancorché né nuova né originale per questo genere letterario.
Poi, ad un certo punto, ecco riapparire “il guazzabuglio” nel quale Zafón s’era già mosso in L’ombra del vento, con figure improbabili e stereotipi che fanno “molto rumore per nulla”. Insomma, ancora una volta si ha l’impressione che i personaggi dello scrittore catalano non sappiano vivere di vita propria ma abbiano bisogno del filo doppio del burattinaio per muoversi in un labirinto di situazioni e di intrighi. Tutti, per la verità, con l’eccezione di David Martin e di Isabella, la ragazza che gli fa da assistente, la cui figura è tratteggiata con sufficiente perizia da farla apparire di carne e sangue e non semplice marionetta. Sposata ad un amico di Martin, Isabella concepirà un figlio di nome Daniel Sempere, lo stesso nome, cioè, del protagonista di L’ombra del vento. Bizzarrìa gratuita, introdotta probabilmente per incrementare il “passa parola” sul nuovo romanzo, giacché non esiste alcun motivo plausibile per la duplice attribuzione dello stesso nome. Esiste invece più di un collegamento nell’intreccio narrativo dei due romanzi, entrambi dalla trama esile e pretestuosa, entrambi zavorrati di improbabili quanto noiose avventure.
sergio magaldi
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