venerdì 1 luglio 2011

PENSIERO SAPIENZIALE E PENSIERO RELIGIOSO









  Le due tradizioni, la sapienziale e la religiosa sono, quanto ai contenuti, tutt’altro che irriducibili e rigidamente distinte, permane invece tra di loro una sostanziale differenza che si riflette sulla struttura stessa del pensiero, determinandone atteggiamento e modalità sicuramente divergenti. E se ad entrambe queste forme di pensiero è comune la ricerca di una chiave di comprensione della realtà, una necessità logica di ordinare e unificare ciò che è sparso e diviso, il pensiero religioso sembra incline a sviluppare e ad approfondire il proprio patrimonio sapienziale unicamente in funzione di una fede e di una verità rivelata.

 Il pensiero religioso procede per identificazioni e riconoscimenti, adeguando costantemente il proprio sapere ad una Rivelazione originaria, ad una Aletheia, una e altra dal pensiero che la pone in essere. Il pensiero sapienziale, al contrario, non si preoccupa del confronto con la Cosa, non conosce, per così dire, l’angoscia dell’adaequatio rei et intellectus, giacché il vero di cui va in cerca è suscettibile ogni volta di essere variamente interpretato in funzione della consapevolezza acquisita.

 Nei Discorsi sulla religione della fine del ‘700, il filosofo romantico Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, rivolgendosi agli spiriti colti e illuminati del suo tempo, taccia di peccato di ubrij di tracotanza e di presuntuosa inimicizia verso gli dei, chiunque pretenda di detenere un sapere e praticare un’etica senza osservare una religione. E’ la colpa antica di Prometeo che riconosciuto di vitale importanza per l’uomo il fuoco degli dei, lo ruba anziché domandarlo con la necessaria umiltà. Ma nel pensiero di Schleiermacher c’è una fondamentale esigenza: arte e intuizione senza che le accompagni il sentimento dell’Infinito sono inadeguate ad esprimere tutta la complessa potenzialità del sapere umano. E’ questo il senso dell’appello che, proprio ad apertura di libro, egli rivolge agli uomini colti dell’epoca sua:
 “… Oggi particolarmente la vita degli uomini colti è lontana da tutto ciò che potrebbe essere sia pure semplicemente simile alla religione. Io so che voi tanto meno adorate in sacro segreto la divinità quanto più frequentate gli abbandonati templi; so che nelle vostre eleganti dimore non ci sono altri dei domestici se non i detti dei savi e i canti dei poeti; so che l’umanità e la patria, l’arte e la scienza, poiché credete di poter abbracciare interamente tutte queste cose, hanno preso sì pieno possesso del vostro animo che non vi resta nulla per l’Essere santo ed eterno, il quale, per voi, è di là dal mondo, e che non avete nessun sentimento per lui e in comune con lui. Siete riusciti a far sì ricca e sì varia la vita terrena che non sentite più alcun bisogno dell’eternità; e dopoché avete creato a voi stessi un universo, vi sentite dispensati dal pensare a colui che vi ha creato. Voi siete d’accordo, lo so, che nulla di nuovo e nulla di convincente si può più dire di questo argomento che è stato trattato abbastanza da tutti i lati, da filosofi e da profeti e, potessi soltanto non aggiungere, anche da dileggiatori e da preti. Soprattutto dai preti voi non siete minimamente disposti – ciò non può sfuggire a nessuno – ad ascoltare qualcosa su questo argomento, perché essi si sono resi, già da gran tempo indegni della vostra fiducia, in quanto dimorano più volentieri solo nelle rovine del Santuario, devastate dal tempo e dalle intemperie, e non possono vivere neanche lì senza deturparle e senza corromperle maggiormente. So tutto questo, e, tuttavia, sono spinto a parlarvi da una necessità interna ed irresistibile che mi domina divinamente…” (F.D.E. Schleiermacher, Discorsi sulla religione e monologhi, trad.it., Sansoni, Firenze, 1947, pp.5-6)

 E questa “necessità interna” è certamente per Schleiermacher quel sentimento dell’Infinito che in lui sembra inspirato da un dio e in cui, a suo giudizio, principalmente risiede il senso stesso della religione. Ma il sentimento dell’infinito, accompagnato o meno dalla consapevolezza di un divino ispiratore, bene appartiene al pensiero sapienziale come al pensiero religioso, entrambi infatti fanno parte della sfera del sacro come esperienza fondamentale e strutturale della mente umana. Giacché il sacro non è degli dei piuttosto che degli uomini, perché – come osserva Heidegger interprete di Holderlin – “è piuttosto il sacro a decidere inizialmente intorno agli uomini e agli dei, se siano, chi siano e quando siano” (M. Heidegger, Erlauterungen zu Holderlin, 1943, pp. 73-74)

 Sentimento dell’Infinito, senso del sacro: non è su questo terreno che si decide propriamente la differenza tra pensiero sapienziale e pensiero religioso. Il sapiente è come Socrate, egli sa di non sapere o di non sapere abbastanza e questa consapevolezza lo spinge con fede alla ricerca e al dialogo con gli altri. In questo percorso egli non disdegna di utilizzare la tradizione degli antichi, il patrimonio acquisito dell’umanità cui aggiunge la consapevolezza che gli deriva dal continuo confronto con gli altri, da quell’arte sottile che consiste nel domandare e rispondere nel tentativo improbabile di conoscere il ti esti il Che cos’è di cui si parla. E se con queste procedure egli si colloca sempre di là della verità, questa nondimeno gli si offre in infiniti adombramenti ed egli prende coscienza che la Verità una e indefettibile è per principio fuori portata della mente umana e che l‘ ‘unico vero’ che gli riuscirà di scoprire sarà quello che faticosamente sarà riuscito a costruire e a condividere con gli altri che, come lui, siano guidati dallo stesso intendimento e che come lui siano disposti, mutando per così dire il quadro di riferimento in cui quel ‘vero’ era nato, a riconsiderare nuovamente la questione… Ma questa, si dirà, non è altro che la verità della scienza che si trasforma col mutare del tempo, delle risorse, del metodo, delle intuizioni e in funzione delle regole dell’arte.

 C’è di più e di diverso: il pensiero sapienziale funziona alla stregua del pensiero scientifico ma se ne discosta perché il suo intento non è meramente strumentale e innovativo e il suo procedere nella ricerca di nuove verità e di nuove conoscenze non lo porta a tralasciare quanto ha già acquisito e che costituisce il patrimonio di conoscenze dell’intera umanità. Insomma, il pensiero sapienziale se non disdegna per così dire di andare avanti, non rifiuta neppure di rivisitare e di approfondire ciò che appartiene al passato, giungendo talora a considerarlo un sapere privilegiato anche rispetto alle consapevolezze della modernità e della post-modernità.

 E il pensiero religioso? La struttura che lo anima sembra piuttosto incline a un rovesciamento di prospettiva: non la fede nella ricerca ma la ricerca di una fede il cui fondamento si sostanzi di una verità rivelata. E c’è da augurarsi che in questa prospettiva si mantenga tollerante evitando guerre e persecuzioni che troppo spesso hanno caratterizzato la sua storia.

 Ma il rapporto tra queste due modalità del pensiero, così distanti tra loro eppure così convergenti, dovrà essere studiato nella concretezza storica dei loro rapporti. Limiteremo l’osservazione, per ragioni di tempo, alle radici della civiltà occidentale: la greca e l’ebraica.

 L’Eutifrone di Platone ci presenta un confronto esemplare tra pensiero sapienziale e pensiero religioso. Esaminiamo in sintesi il contenuto del dialogo.

 Eutifrone e Socrate s’incontrano davanti al tribunale della polis e subito Eutifrone esprime a Socrate la sua meraviglia nel vederlo lontano dal Liceo e dalle sue abituali conversazioni e più ancora manifesta la sua incredulità di fronte all’idea che Socrate possa essere l’accusatore di qualcuno. E infatti Socrate subito gli rivela di essere l’accusato, non l’accusatore. Di quale accusa si tratta? Si tratta di empietà, un’accusa nella quale incorreranno altri intellettuali ateniesi di questo periodo. Socrate è cioè accusato di non credere negli dei della città-stato, di volerli sostituire nel culto con altre divinità e di insegnare queste cose ai giovani, corrompendoli. Apprendiamo così che nell’Atene del 400 avanti Cristo non esiste tolleranza religiosa anche se siamo bene a conoscenza che dietro l’accusa di empietà si celano precisi motivi politici.

 Eutifrone, dal canto suo, chiarisce a Socrate di recarsi presso l’arconte-re, il sommo magistrato ateniese, in qualità di accusatore. Egli ha deciso di trascinare suo padre in giudizio e di chi lo critica per questa scelta dice che è ignorante della ‘legge divina in rapporto all’empietà e all’azione pia e santa’.

 “Ma allora, Eutifrone, – gli oppone Socrate – hai davvero la convinzione di conoscere con tanta perfezione le leggi divine? Di conoscere insomma ciò ch’è santo e pio e ciò ch’è empio?… Non hai timore di procedere contro tuo padre? Non potrebbe forse avvenire che a sua volta anche la tua fosse un’empietà?”

 Naturalmente, Eutifrone risponde subito di conoscere perfettamente le leggi divine, ciò ch’è santo e ciò che non lo è. Da questo momento il dialogo si fa serrato. Socrate dichiara di volersi fare discepolo di Eutifrone, anche per meglio difendersi in tribunale e subito propone al suo interlocutore di rivelargli in cosa consista l’empietà e la santità. Eutifrone risponde che è santo fare ciò che lui sta facendo, cioè denunciare un colpevole anche se si tratta di suo padre e a mo’ di esempio cita Zeus che, per punirlo delle sue colpe, mise in catene il padre Saturno-Crono che, a sua volta e sempre per questione di giustizia, aveva evirato il padre Urano. La citazione consente a Socrate di tornare per un attimo sull’accusa che gli era stata rivolta e di osservare che proprio questo comportamento degli dei aveva generato la sua critica e dato spunto alla denuncia contro di lui.

 Ma, insomma, chiede Socrate a Eutifrone, ammesso che sia giusto quel che stai facendo contro tuo padre, dammi una definizione di santità che possa adattarsi per infiniti altri casi. E subito Eutifrone dichiara che è santo ciò che è caro agli dei, empio ciò che non lo è. Definizione che Socrate non tarderà a smontare: gli dei per primi si accordano forse tra di loro su ciò che è giusto e ingiusto? Noi – continua Socrate – possiamo facilmente accordarci sul peso di un certo oggetto, basterà procurarci una bilancia… ma, quando si tratta del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo, del bello e del brutto non troveremo facilmente l’accordo e, sotto questo riguardo, gli dei non si comportano diversamente dagli uomini. Eutifrone ne conviene e al termine di una serie di ulteriori argomentazioni propone una nuova definizione di santità: è santo – egli dice – ciò che è gradito a tutti gli dei, empio ciò che a tutti è sgradito. Ma subito Socrate propone ad Eutifrone una nuova questione: il santo è amato dagli dei perché santo o è santo perché amato dagli dei?

 Man mano che il dialogo si dipana appare con sempre maggiore evidenza il fine di Socrate. Il suo interlocutore si dichiara in possesso della verità, ma, non potendo dire cosa santità e giustizia siano in sé, propone via via diverse definizioni, accorgendosi che nessuna di loro è la verità, e che ognuna dipende dal punto di vista di chi giudica. Così, da ultimo, ad Eutifrone non resta che rifugiarsi nella religione, troncando per ciò stesso ogni ulteriore indagine:

 “…la pietà e la santità – egli dirà – sono quella parte del giusto avente la sua esplicazione nel culto e nella cura degli dei. La parte invece rivolta agli uomini è la restante.”

 Avrà un bel daffare Socrate nello smontare – come sempre accade, col consenso del suo stesso interlocutore – anche questa definizione e quando infine gli riuscirà e proporrà di riesaminare la questione da capo, vedrà Eutifrone sfuggirgli con un pretesto.

 “Che peccato, amico mio! – ha appena il tempo di osservare Socrate con ironia – Avevo concepito una grande speranza; tu vai lontano e mi lasci deluso. Pensavo che da te avrei appreso ciò ch’è santo e ciò che non è santo. Così, mi sarei liberato dall’accusa di Meleto, poiché gli avrei mostrato che alla scuola di Eutifrone son divenuto un sapiente di problemi religiosi…” (Platone, I Dialoghi, vol.1, Rizzoli, Milano, 1953, p.598)

 Insomma, alla presunzione di sapere della mente religiosa, Socrate oppone la sapiente temperanza di chi innanzi tutto si propone di conoscere se stesso. L’argomento si ritrova in un altro dei dialoghi di Platone, il Càrmide, insieme all’affermazione che la verità non si manifesta né in virtù del semplice assenso – come vorrebbe la mente sofistica – né per mezzo di argomenti aprioristici, come sostiene la mente religiosa.

 “O Crizia – dice Socrate – ti rivolgi a me, credendo ch’io conosca gli argomenti sui quali ti rivolgo la domanda. E tu pensi che dipenda dalla mia volontà il darti l’assenso. Al contrario, la cosa non sta affatto così: io vado saggiando col tuo aiuto le varie definizioni propostemi; appunto perché comincio io stesso a non sapere. Farò dunque opportuna ricerca e poi intendo significarti se sono d’accordo o no. Aspetta dunque che finisca prima la mia indagine” (Ibid., p.222)

Pure, in questa ricerca che nulla concede al ‘sapere saputo’ si accompagna sempre un barlume di religiosità. Che si tratti del Socrate storico o dell’iniziato Platone ha poca importanza. Nulla o poco c’è dato sapere sine deo concedente, come Socrate dice a Teage nel dialogo omonimo:

 “Eccoti dunque, Teage mio caro, questa la mia scuola: qualora il mio insegnamento riesca gradito a Dio, grandi e rapidi saranno i tuoi progressi, piccoli e tardi in caso contrario…”

 Ma questo contatto tra l’umano e il divino si realizza con modalità tutt’affatto differenti da quel che avviene nel pensiero religioso. Non si tratta di sostituirsi al dio parlando per la sua bocca e spargendo ovunque il seme di una verità rivelata che dovrà essere accettata anche con la forza, il dio non si mescola con l’uomo ma può lasciar cadere in lui una scintilla di sé, una luce in grado di illuminare la sua ricerca e di guidarlo alla comprensione del Cosmo, cioè dell’Ordine imposto alla natura da un Grande Architetto.

 Del resto, Socrate – ci racconta Platone nel Simposio – è anch’esso un iniziato. Egli ha ricevuto l’iniziazione dei fedeli d’Amore da Diotima, una sacerdotessa esperta nei sacri misteri dell’eros:

 “Proverò a esporvi – dice Socrate ai convitati – il discorso su Amore che ho sentito fare una volta da una donna di Mantinea, Diotima, che era sapiente in queste e in molte altre cose (…) E’ stata appunto Diotima che m’ha iniziato alla scienza d’Amore (…) Quando parlavo con lei, io pure sostenevo, pressappoco, le stesse cose che ora diceva con me Agatone: Eros è un grande dio; Eros è amore di bellezza. E lei confutava il mio dire (…) E allora, dissi, che cosa sarebbe Eros? Un mortale?”

 “Per nulla”
“Ma che cosa allora?”
“Come i casi precedenti, rispose, qualcosa di intermedio tra il mortale e l’immortale”
“Che cosa, dunque, Diotima?”
“Un gran Daimon, Socrate, perché tutto ciò che è daimonico è intermedio tra dio e mortale”
“E che potere ha?”
“Di interpretare e trasmettere agli dei ciò che viene dagli uomini e agli uomini ciò che viene dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri invece gli ordini e le ricompense per i sacrifici: essendo in mezzo a entrambi, riempie lo spazio sicché il tutto risulta in se stesso connesso. Attraverso di lui passa tutta la divinazione e la tecnica sacerdotale concernente i sacrifici, le iniziazioni, gli incantamenti e la predizione tutta e la magia. Un dio non si mescola con l’uomo, ma per mezzo di Eros ha luogo ogni rapporto e colloquio degli dei con gli uomini, sia nella veglia che nel sonno.[…] E per natura non è né immortale né mortale […] né povero né ricco. D’altronde è anche in mezzo tra sapienza e ignoranza […].
“Chi sono allora, Diotima, quelli che filosofano, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti?”
“E chiaro anche ad un bambino ormai, disse, che sono quelli a metà tra questi due e che di essi fa parte anche Eros. La sapienza, infatti, fa parte delle cose più belle e Eros è amore del bello, sicché è necessario che Eros sia filosofo e, in quanto filosofo, sia in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.”

 E’ dunque questo fuoco interiore – che in Socrate assume le sembianze di un Daimon, di uno spirito buono, il nel linguaggio della psicologia – a gettare un ponte tra pensiero sapienziale e pensiero religioso.

 Difficile, tuttavia e talora persino inutile separare rigidamente nell’universo dei Greci il pensiero sapienziale da quello religioso. E non perché non esista differenza, come abbiamo visto nel confronto tra Socrate ed Eutifrone, bensì perché nella stessa tradizione confluiscono religiosità e religione, mito e simbolismo, iniziazione misterica e norme etiche e civili. Gli uomini vivono a continuo contatto con gli dei e benché questi ultimi si rivelino, per così dire, solo ai predestinati, i loro consigli, le loro leggi s’impongono a tutti, perché appartengono alle regole non scritte del coraggio, della pietà, dell’onore e della comune convivenza, al dominio della saggia prudenza. Accostarsi ai poemi omerici, alle opere di Platone e dei grandi filosofi, all’arte, alla tragedia, come del resto alla lirica o alla commedia, significa entrare nell’immenso patrimonio sapienziale dei Greci, attingere al ricco simbolismo dei miti e delle leggende. E se è vero che nella mitologia greca, di gran lunga la più illuminante nella storia della civiltà, s’intrecciano senza soluzione di continuità le vicende degli dei, degli eroi e degli uomini, resta pur vero che il pensiero mito-poietico dei Greci può tranquillamente rinunciare alla divinità senza che il significato esoterico del mito, l’insegnamento che dietro vi si cela, vada perduto.

 Così è nel mito della caverna del X Libro della Repubblica di Platone, dove i prigionieri scambiano per realtà le ombre degli oggetti che si proiettano sulla parete per l’azione di un fuoco, così è nel mito del Fedro, dove Socrate e Platone, velata appena nel simbolo, espongono la dottrina tradizionale e di carattere esoterico dell’anima umana che ricade pesantemente a terra. Così è, ancora, nel mito di Prométeo e di Epiméteo che nel Protagora di Platone il grande sofista racconta a Socrate. L’uno rappresenta l’umana saggezza, l’altro, suo fratello Epiméteo, come dice il suo nome, è colui che ha ‘il senno di poi’, l’umana stoltezza che non si fa da parte, perché non si riconosce come tale e anzi pretende di decidere e s’impone e compie gesti frettolosi e inconsulti che si risolvono in dramma.

 Non diversamente accade nel teatro greco. Il motivo ricorrente del peccato di ubris contro gli dei non deve trarci in inganno. Nelle tre tragedie della trilogia di Oreste, l’Agamennone, le Coefore, le Eumenidi, Eschilo svolge il tema della maledizione che si abbatte sulla stirpe degli Atridi: a cuor leggero Agamennone ha mosso guerra ai Troiani, per ingraziarsi gli dei egli ha compiuto l’empio sacrificio della figlia Ifigenia, lui stesso e i suoi soldati hanno sterminato i nemici senza pietà, hanno profanato e distrutto i templi degli dei troiani. Tornato finalmente in patria egli è ucciso per mano di sua moglie Clitennestra. E’ vendicato dal figlio Oreste che si macchia del peccato di matricidio, su di lui si abbatte la furia delle Erinni e neppure il dio Apollo può sottrarlo alla vendetta.

 La soluzione della vicenda è infine affidata al verdetto di un tribunale, i cui giudici, avendo tante ragioni per assolvere quanto per condannare, accettano il principio universale che l’accusato sia assolto quando gli uomini riscontrino in lui eguali ragioni per l’assoluzione e per la condanna.

Non diversamente Sofocle, nell’Antigone, risolve il problema della sepoltura di Polinice. Contro il divieto di Creonte, re di Tebe, e contro la legge scritta della città che vieta la sepoltura dei traditori, Antigone rivendica per il fratello Polinice il diritto alla sepoltura. Per quanto la donna sembri ispirata dalla pietà e dalla coscienza religiosa, ciò che decide è la norma panellenica di giustizia che impone il seppellimento anche dei cadaveri dei nemici.

 Il tema del seppellimento è ripreso da Sofocle nell’Aiace, dove l’eroe greco è punito con la follia e con la morte per il suo peccato di ubris contro gli dei. Ma è veramente così? Sono gli dei i responsabili o non è piuttosto l’uomo stesso a tessere la trama del proprio destino? Come la dea Atena dice ad Ulisse nel prologo della tragedia:

 “…Tali cose vedendo, nessuna parola orgogliosa tu non dire mai contro gli dei e non aver mai superbia, se superi qualcuno per forza di braccio e per quantità di ricchezze: ché un giorno solo innalza ed abbatte tutte le cose umane; gli dei amano gli uomini moderati ed odiano gli empi” (vv. 127-133)

 Ma la sorte di Aiace, prima che punizione divina, è frutto dell’umano isolamento che lo porta a ripudiare finanche il figlio e la moglie, è il risultato della tracotanza che gli fa affermare: “o gloriosamente vivere o gloriosamente morire è il dovere di ogni valoroso”. (vv. 479-80).

 Più inquietante è la sorte di Edipo nel notissimo dramma di Edipo Re. Qui l’eroe è innocente e pio né alcun dio ha da rimproverargli qualcosa. Ma il suo destino tragico, di chi inconsapevolmente uccide il padre e si accoppia con la madre, si spiega con la stessa maledizione della stirpe che colpisce Agamennone, lui sì, consapevole. Della maledizione sono responsabili gli dei o non è piuttosto vero che la colpa chiama colpa e il sangue chiama sangue, ricadendo anche sugli innocenti?

 Si accennava prima ad Ulisse, così diverso da Aiace eppure anche lui colpevole di ubris, nonostante gli ammonimenti della dea Atena. Vediamolo dunque all’opera, per un attimo, nel secondo dei poemi omerici: l’Odissea. Ci riuscirà così di comprendere meglio il rapporto tra gli uomini e gli dei nell’universo greco e di cogliere l’intreccio talora solo apparente del pensiero sapienziale e del pensiero religioso.

 Gli dei greci sono a casa tra gli uomini e non hanno bisogno di incarnarsi, come il Dio cristiano, per colmare l’insondabile lontananza. Non si incarnano, si trasformano e in forme sempre varie e sempre diverse sono continuamente accanto a noi anche se noi non ce ne accorgiamo. Sono lì ad ammonirci, a perderci o a salvarci, sono gli amici e i fratelli che ci consigliano, i nemici che ci tendono trappole, i familiari che si preoccupano per noi, le donne che ci amano o quelle che vogliono la nostra rovina. Ma, a guardar bene, chi decide la sorte è l’uomo stesso e poco importa che questa coincida con la moira, la ‘parte’, che gli dei hanno stabilito per lui. Violarla significa esporsi all’inevitabile contraccolpo, necessario a ricostituire l’ordine cosmico e la forza che lo mantiene in essere. Ognuno conosce il proprio dovere con o senza il messaggero alato che si rechi ad avvertirlo. Non è un caso che l’Odissea abbia inizio con la parola àndra (andra) uomo e che Ulisse – prototipo stesso dell’uomo civilizzato – sia definito polùtropon (polutropon), multiforme o dal multiforme ingegno, non è un caso che Zeus ricordi La Legge al concilio degli dei, proprio ad apertura di poema:

 “Ahimè, come i mortali dàn sempre le colpe agli dei!
Dicono che da noi provengono i mali, ma invece
sono gli uomini, con le loro azioni, ad attirarseli in spregio al destino.
Guardate Egisto: sedusse la sposa del figlio d’Atreo,
violando la moira, e lo sposo sgozzò che tornava,
benché conoscesse la sorte. Perché noi l’avvertimmo,
a lui mandando Ermete occhio acuto, argheifonte,
che non uccidesse l’eroe e neppure agognasse la donna:
vendetta Oreste farebbe del padre Agamennone,
quando, cresciuto, avesse nostalgia della patria.”
( Omero, Odissea, I, 32-41)

 Perché Ulisse impiegherà vent’anni, dalla fine delle guerra, a tornarsene in patria? Perché così hanno deciso gli dei, parrebbe la risposta, in un universo in cui la mente umana s’intreccia di continuo con quella divina e da questa appare costantemente guidata.

 Così non è: la sapienza dei Greci si serve liberamente degli dei e non sono gli dei a servirsi della libertà umana. Ulisse sa di dover tornare ad Itaca, ma c’è nel suo comportamento la volontà di attardarsi, quasi avesse bisogno di completare un ciclo. Ulisse è l’iniziato che si sottopone a prove sempre più ardue nel tentativo di superarle e di conoscere se stesso. In questo proposito non del tutto consapevole, egli è soccorso da alcuni dei e danneggiato da altri, ma questi dei sono innanzi tutto le sue stesse qualità: le sue virtù e i suoi difetti. Anche lui, come altri eroi greci è colpevole di ubris, ma si ravvede sempre e soprattutto egli è polìtropos e poikilométes, possiede cioè una mente e un cuore dalle molte e variegate fome che gli consente la pietà e l’immedesimazione autentica con gli altri e con le loro sofferenze.

 E quando infine raggiunge l’isola dei Feaci, Ulisse è pronto per il ritorno. L’isola appartiene al dio Posidone, il suo peggior nemico, ma chi vi governa veramente è Ermete, il dio che insieme ad Atena sembra guidare i suoi passi, il dio dal quale Ulisse discende, secondo Esiodo, per parte di Autolico il nonno materno. Non solo i Feaci prima di addormentarsi libano a Ermete ma tutto, in quest’isola – come acutamente osserva Pietro Citati – è ermetico: “il viaggio, i colori, i piaceri, il gioco, la leggerezza, la magia, la sottile comicità, i percorsi della notte, il segreto.” (P. Citati, La mente colorata, Mondadori, Milano, 2002, p.141)

 Ulisse scopre finalmente che il mondo ostile e profano può essere superato con la sapienza ermetica. E sarà proprio questo sapere, camuffato della benevolenza di Atena, a condurlo ad Itaca per affrontare l’ultima prova. E una volta qui, comprendiamo meglio il significato della protezione di Atena: Ulisse possiede la sapienza degli alberi, insegnatagli dal padre Laerte, il re-contadino. In particolare, conosce l’ulivo, la pianta sacra alla dea e sulla cui radice Ulisse ha costruito il letto nuziale che, dunque, non può essere spostato. Da questo e da numerosi episodi del finale del poema, apprendiamo così che l’eroe greco condivide con Penelope e pochi altri anche una terza sapienza: egli conosce l’arte dei segni simbolici e segreti (Ibid., cap.V).

 La felice apparente commistione tra pensiero sapienziale e pensiero religioso che traspare dal genio dei Greci, non deve trarci in inganno. In realtà, abbiamo già visto, a proposito di Socrate e dei sofisti, la scarsa tolleranza religiosa della società ateniese. La città antica è “totalitaria” nel senso che non distingue tra l’obbedienza che si deve alle leggi e quella dovuta agli dei. Unica eccezione fu forse Roma, tollerante e persino rispettosa del pantheon finché una religione non pretese di imporsi su tutte e addirittura di sostituirsi allo stato.

 Tuttavia la religione dei Greci non conosce né dogma né libro sacro, risolvendosi dunque in una formale adesione agli dei della città, nei sacrifici, nei riti e nelle feste, peraltro assai frequenti, che si devono celebrare per ingraziarsi la divinità e assicurare il benessere di tutti.

 Accanto a questa religione per così dire, conformista, superstiziosa e popolare, che peraltro è il tratto caratteristico ed esteriore delle religioni di ogni età, si sviluppano in Grecia, in perfetta concordia con la religione ufficiale, le cosiddette religioni misteriche che non chiedono di sostituire una divinità con l’altra, e bensì promettono agli adepti una individuale salvezza, cosa alquanto impensabile e rara nella società antica.

 Così, per esempio, l’iniziato dei piccoli come dei grandi Misteri Eleusini possiede un sapere indicibile e segreto che non deve essere rivelato ai profani. E per quanto questo sapere sia legato al culto di Demetra e di Persefone e dunque si avvalga di un pensiero sostanzialmente religioso, nondimeno occorre riconoscere che da queste due divinità, collegate al ciclo del grano e della vegetazione, si levi una sapienza antica e custode di tradizioni più arcaiche, di certo andate perdute. A dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che la distinzione tra pensiero sapienziale e pensiero religioso non consiste tanto in quel che si sa, ma del modo in cui lo si sa e più ancora nella spiegazione che si dà del pretendere di saperlo…

 Più arduo ancora distinguere, almeno a prima vista, tra pensiero sapienziale e pensiero religioso all’interno di quella che ho definito la seconda radice della civiltà occidentale: l’ebraica. La specificità della dottrina sapienziale degli Ebrei, infatti, è di presentarsi e di svilupparsi in stretta relazione con il Dio della Rivelazione. Ma vi sono al suo interno almeno tre aspetti che possono facilitarci il compito.

 Il primo e il più importante è costituito dall’infinita ‘lontananza’ che corre tra l’uomo e Dio, sebbene il Dio del Vecchio Testamento si annunci straordinariamente talora ai sapienti d’Israele. A differenza del Dio cristiano, Egli non s’incarna, a differenza del dio pagano egli non si trasforma assumendo ogni sembianza. Pure, questo insondabile vuoto che dimora tra l’uomo e Dio deve essere colmato. E per quanto l’ebreo viva costantemente nel pensiero e nel timore di Dio, egli sa che, per ridurre la distanza incolmabile che separa l’umano e il divino, deve contare unicamente sulle proprie forze, sperando solo che la Shekinah sia su di lui.

 In tale prospettiva, si delinea anche il secondo aspetto: l’importanza che riveste per l’ebreo l’elaborazione di una dottrina sapienziale, lo studio e l’approfondimento della Legge o Torah, il ruolo carismatico della tradizione.

 Il terzo aspetto è appunto costituito dalla Qabbalah o Tradizione nella quale confluiscono speculazioni di pensiero talora estranee se non addirittura ostili alla dottrina rabbinica, e per la quale si è persino parlato di ‘pensiero laico’ e di ‘esoterismo’ degli Ebrei.

Insomma, contro quel che comunemente si pensa, l’ebreo è costretto a vivere ‘come se Dio non ci fosse’, pur sapendo in cuor suo che Egli c’è.

 Sotto questo riguardo, il più significativo tra i libri sapienziali del Vecchio Testamento, è certamente Qoeleth. 'Tutto è vanità' vi si legge all'inizio e 'tutto è vanità' si ripete quasi alla fine del libro. Nulla di nuovo sotto il sole: una generazione va e l'altra viene, il sole sorge e tramonta sempre allo stesso modo, infinito è il numero degli stolti e i malvagi mai si correggono; inutilmente ci si applica nello studio o ad acquistar ricchezze perché dove aumentano la conoscenza e il denaro si moltiplicano le inquietudini e gli affanni. In questo deserto descritto nel I Capitolo di Qoeleth, dove non c'è traccia del nome di Dio e dove tutto si ripete con regolarità sconcertante, nulla sfugge alla vanità e all'afflizione dello spirito. Il tema è ripreso con forza nei capitoli successivi e per quanto si faccia menzione di Dio, si commenta amaramente:

 "... la morte dell'uomo e delle bestie è la stessa, è uguale la condizione di ambedue: come muore l'uomo così muoiono le bestie; uguale è il soffio di vita per tutti, e l'uomo non ha nulla di più della bestia.Tutto è soggetto alla vanità." (III, 19)

 Una incolmabile lontananza dimora tra l'uomo e Dio, perché 'Dio è nel cielo e tu sei sulla terra' è detto all'inizio del V Capitolo e l'uomo, benché sapiente, non troverà nessuna spiegazione dell'operare di Dio, è detto alla fine dell'ottavo. Così, "vi sono dei giusti cui toccano i mali, come se avessero operato da empi, e vi sono degli empi, tanto tranquilli, come se avessero operato da giusti"(VIII, 14). Lo stesso concetto si ripete e si completa nel IX Capitolo(2-3):

 "Tutto è incerto nel futuro, perché tutto avviene ugualmente al giusto e all'empio, al buono e al cattivo, al puro e all'impuro (...) L'onesto e il peccatore, lo spergiuro e chi giura il vero sono trattati allo stesso modo. Questa è la cosa peggiore di quelle che avvengono sotto il sole: l'accadere a tutti le medesime cose..."

 Dunque, il tema della retribuzione, così altrimenti caro al pensiero sapienziale ebraico non preoccupa minimamente l'autore o gli autori di Qoeleth. L'intento sembra essere piuttosto quello di descrivere l'infelice condizione umana, prescindendo da Dio e dai suoi imprescutabili disegni. Il legame tra l'uomo e Dio, se proprio lo si vuole rintracciare, si sostanzia unicamente nel concetto di prova alla quale Dio chiama, chiamando alla vita. Ma, diversamente che nel libro di Giobbe, dove il rapporto uomo-Dio, tra ragione e sragione, assurdo e paradosso si colora infine di senso, qui il mistero permane rigidamente sigillato e la lontananza diviene assoluta. Tant'è che l'ultimo consiglio di Qoeleth sembra ispirarsi al Carpe diem di Orazio e dei filosofi greci:

 "Va' dunque e mangia allegramente il tuo pane, e bevi con allegria il tuo vino (...)
 In ogni tempo siano candide le tue vesti e non manchi l'unguento al tuo capo. Godi la vita con la moglie diletta, per tutto il tempo della tua vita fugace, per quei giorni che ti sono dati sotto il sole, per tutto il tempo della tua vanità; questa è la tua sorte nella vita e nelle tue fatiche che ti affannano sotto il sole. Tutto quello che puoi fare con i tuoi mezzi, fallo presto, perché né attività né pensiero, né sapienza, né scienza hanno luogo nella regione dei morti dove tu corri." (IX, 7 - 10).

 E non v'è dubbio che il pensiero sapienziale dei Greci aleggi qui e finanche la concezione dell'aldilà rammenti in modo ancora più radicale quella descritta da Omero nell'Odissea dove, almeno, le ombre dei morti hanno rimpianti…

 L'intreccio tra pensiero sapienziale e pensiero religioso, inesistente quasi in Qoeleth, problematico in Giobbe, si fa invece serrato in Sapienza e in tutti gli altri trattati della letteratura sapienziale vetero-testamentaria. Emerge, tuttavia, un'osservazione fondamentale. Per quanto nei Proverbi, lo pseudo-Salomone affermi che la sapienza si fondi sul timore di Dio, i detti, i consigli, le sentenze ricche di saggezza e di umana esperienza contenuti nel libro sono norma a se stessi e il loro valore prescinde dal riferimento alla trascendenza perché si iscrivono innanzi tutto nel libro della vita e prospettano per chiunque voglia appropriarsene un ideale di crescita, un progressivo distacco dalle passioni e dai pregiudizi, una iniziazione dello spirito nel crescente dominio di se stessi.

 Le massime morali contenute in Sapienza, nei Proverbi, in Siracide o nei Salmi prima di essere norme dettate dal timor di Dio, sono regole sapienziali e sono altresì testimonianza di una tradizione, l'unica forse, giunta ininterrotta e vivente sino a noi. Sono massime di rispetto o di pietà familiare come: "Lo stolto deride le correzioni del padre, ma chi fa tesoro delle correzioni diventerà più saggio"(Proverbi, XV,5), "Figlio, assisti la vecchiaia di tuo padre e non lo contristare nella sua vita; ed anche se diverrà debole di mente, compatiscilo, non lo disprezzare nella tua vigoria..."(Siracide, III, 14-15). Sono ammonimenti contro l'ira, nella tradizione ebraica la più funesta tra le passioni, insieme alla lussuria: "E' onorevole per l'uomo stare lontano dalle contese, ma tutti gli stolti si immischiano nei litigi"(Proverbi, XX,3) oppure: "Grave è la pietra, pesante la sabbia, ma più pesante dell'una e dell'altra è l'ira dello stolto"(XXVII,3). Sono regole di prudenza e di saggezza:"Come una città aperta e senza mura è l'uomo che non sa frenare il suo spirito nel parlare"(XXV, 28), "Quanto più sei grande, tanto più umiliati in tutte le cose" (Siracide,III,2O), "Non cercare quello che è al di sopra di te, e quello che è al di sopra delle tue forze non lo indagare"(III,22) "Come acque profonde sono i disegni nel cuore dell'uomo e solo all'uomo sapiente è dato trarli a galla"(Proverbi XX, 5-6)

 Massime tutte queste per orientare il cammino del giusto, lo zaddiq cui la tradizione ebraica assegna un ruolo fondamentale. Noè – scrive Dante Lattes – è il primo tipo dello zaddiq, del giusto che passa incontaminato fra le tristizie dei contemporanei. La figura dell’uomo giusto, che assumerà poi tanto significato etico e una così vasta funzione redentrice nell’ideologia ebraica, dalla Bibbia al Chassidismo, ha in Noè il suo primo modello (…) Noè è l’uomo; l’uomo senza alcun altro aggettivo; non misurato secondo criteri di razza, di lingua, di nazionalità, di religione (…) e quindi posto ad esempio alle generazioni, per quanto remote e diverse dal suo tempo, o, se si vuole, in modo relativo, secondo il grado di perversione del suo secolo. (Nel solco della Bibbia, Laterza, Bari, 1953, p.39).

 Noè è dunque ‘l’uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e che camminava con Dio’ com’è detto in Genesi, 6,9. Noè salvato dal diluvio perché ‘speranza del mondo’ come lo definisce il libro della Sapienza (14,16) e perché fosse il prototipo di una umanità nuova insostituzione della precedente che si era macchiata di ogni violenza. Violenza contro Dio e soprattutto violenza degli uomini tra di loro che la tradizione ebraica considera ancora più grave dell’altra giacché le colpe commesse dall’uomo contro Dio possono essere rimesse nel giorno di Kippur, mentre le colpe dell’uomo contro l’uomo possono essere rimosse solo mediante il perdono da parte dell’offeso.

 Com’è noto, Dio stringe un patto con Noè, lo benedice insieme ai suoi figli e dà loro alcuni precetti (i cosiddetti precetti noàchidi) con valore universale, rivolti cioè non solo agli Ebrei, in quanto già compresi nelle 613 Mitzvoth, ma ai giusti di tutte le nazioni. Il precetti noàchidi sono 7 di cui 1 positivo (Obbligo della giustizia e dell’istituzione di giudici e tribunali) e 6 negativi (Divieto di idolatria, bestemmia, relazioni sessuali illecite, omicidio, furto e di cibarsi di animali vivi).

 Più ancora che nei libri sapienziali del Vecchio Testamento, è nel Pirqè Avòt - "Insegnamenti dei padri" che il pensiero sapienziale degli Ebrei si identifica strettamente con il pensiero religioso. Pirqè Avòt raccoglie in sei capitoli le riflessioni di autori vissuti tra il V secolo av. C. e il II secolo d. C. e si può a buon diritto considerarlo un trattato sapienziale di morale ebraica o, ciò che è lo stesso, di morale religiosa. Osserva in proposito Yoseph Colombo:

 "E' morale religiosa, come religiose per eccellenza sono tutte le manifestazioni culturali, politiche, spirituali del popolo ebraico. Non bisogna dimenticare che il popolo ebraico è e si ritiene in possesso, fin dai suoi primordi, dell'idea monoteistica e che la tradizione ebraica ritiene di essere venuta in contatto con tale idea per rivelazione divina. Ora, un popolo che ha come cardini del proprio pensiero questi elementi, Dio e rivelazione, è un popolo che, qualunque cosa faccia, dovunque vada, qualunque destino gli sia assegnato, porterà sempre con sé per informarne ogni sua azione un carattere eminentemente religioso. Per cui, pur ammettendo (...) che ci sia stata una speculazione ebraica, anch'essa sarà stata di carattere religioso. Non già che la dottrina morale che può essere rintracciata in questi Pirqè Avòt sia religiosa nel senso che sia eteronoma; essa sostiene non tanto la provenienza divina della legge morale, quanto il carattere divino della legge morale; è religiosa perché è ebraica, e gli Ebrei, anche quando sentono ed esprimono l'autonomia del principio morale e l'universalità ed assolutezza della legge del dovere, questa esprimono in termini religiosi, inserendo la loro concezione morale nella più vasta visione religiosa del mondo e della vita." (Pirque Aboth, Morale di maestri ebrei, trad.it., introd. e commento di Y.Colombo, Carucci, Roma, 1986, pp.XVII-XVIII)

 Sorprende allora, pur nell'annunciata identificazione di pensiero sapienziale e di pensiero religioso, trovare in questa sorta di rassegna del pensiero rabbinico attraverso i secoli, accenti di una laicità sconcertante dove, per esempio, gli elementi della trascendenza divina e della sopravvivenza dell'anima dopo la morte sembrano volutamente accantonati e dove in luogo del consueto encomio dell'ignoranza, così caro alla maggior parte delle religioni positive, perché disporrebbe alla purezza di spirito, troviamo l'invito allo studio e alla frequentazione dei dotti:

 "Sia la tua casa - scrive il rabbi Jòçé figlio di Jo'èzér di Zeredà - un luogo di convegno per i dotti; impòlverati della polvere dei loro piedi; e bevi con sete le loro parole" (I,4) e il rabbi Hillel ammonisce:

 "Chi cerca fama, perde quel po' che ne ha; ma chi non accresce il proprio sapere, finisce col non saper più nulla; ché se poi uno non ha mai studiato, allora è degno di morte" (I,13) e altrove: " ...non dire che studierai quando ne avrai la possibilità, perché potresti non averla... l'uomo rozzo non si cura del peccato e l'ignorante non può essere pio..." (II, 5-6)

 Lo studio, dunque, e i maestri, ma anche il giusto atteggiamento perché, come avverte anonimo il V Capitolo del Pirqè Avòt, "...quattro tipi di persone stanno davanti ai Maestri: v'è la spugna, l'imbuto, il colatoio, lo staccio. La spugna assorbe tutto, l'imbuto da una parte si riempie e dall'altra tutto si svuota, il colatoio fa passare il vino trattenendo le feccie, lo staccio fa passare la farina trattenendo la semola." (V,16)

 D'altra parte, per appropriarsi veramente della Torah, della Legge, occorrono all'ebreo 48 requisiti (VI, 5) di cui, circa la metà riguardano lo studio e l'altra metà vanno divisi tra la comprensione del cuore, l'umiltà, il buon carattere, il rispetto dei maestri, l'amore della giustizia e di tutte le creature, l'osservanza della vita sobria. Il primo dei 48 requisiti è naturalmente lo studio e l'ultimo è sorprendentemente la corretta e necessaria citazione delle fonti. Dire una cosa, citando il nome di chi l'ha detta, riportare sempre il nome dell'autore è causa di redenzione per il mondo secondo l'insegnamento contenuto nel libro di Ester: "E disse Ester al Re, a nome di Mardocheo..." (Ester, II, 22). La frase che Ester dice al re Assuero si riferisce alla congiura ordita contro di lui e di cui la ragazza era stata informata da Mardocheo, suo padre adottivo. Aver citato fedelmente l'autore della preziosa notizia valse a Mardocheo la salvezza e fu motivo di un editto di Assuero a favore degli Ebrei.

 Va da sé, d'altra parte, che questa morale rabbinica si ispiri ai libri sapienziali del Vecchio Testamento, come appare in tutta evidenza nelle parole di rabbi Ben Zòma':

"Chi è veramente sapiente? Chi impara da ogni uomo; secondo quanto è stato detto (Salmi,114, 99): 'da tutti coloro che mi insegnarono io mi sono istruito'. Chi è veramente prode? Chi vince le sue tentazioni, secondo quanto è stato detto (Proverbi, 16, 32): "E' meglio il longanime del prode e chi domina il suo carattere di chi espugna una città". Chi è veramente ricco? Chi si contenta della sua parte, secondo quanto è stato detto: (Salmi, 128, 2): "Beato te e felice te, quando potrai mangiare della fatica delle tue mani"..."(IV,1)

 In alcuni aforismi echeggia persino la lezione di Qoeleth: "Sii molto umile davanti a chicchessia, perché, tanto, l'unica speranza umana sono i vermi", osserva rabbi Levitàç (IV, 4) e 'Aqàbjàh ben Mahalal'él risponde a suo modo alla triplice e fatidica domanda della tradizione esoterica: "Rifletti a tre cose e tu non avrai mai a commetter peccato: Sappi donde tu sei venuto, verso dove tu vada e dinanzi a Chi tu sarai per render conto completamente delle tue azioni. Donde sei venuto? Da una goccia putrida. Dove vai? Verso un luogo di polvere, vermi e lombrichi. Dinanzi a chi sarai tu per render conto delle tue azioni? Davanti al Re dei Re, il Santo, benedetto Egli sia" (III, 1)

 Pur tenendo presente l'osservazione di Yosef Colombo, circa la natura sostanzialmente religiosa di ogni manifestazione ebraica, non si può disconoscere alla Qabbalah, quale dottrina esoterica degli Ebrei, un'autonomia di indagine, un approccio concettuale e simbolico ai temi della tradizione che ne fanno una forma originale e unica di pensiero sapienziale.

 Non è mia intenzione, peraltro, entrare nel merito della questione riguardante l'origine mitica della Qabbalah, se sia cioè, per così dire, una 'rivelazione primordiale' concessa ad Adamo o magari 'la parte esoterica' della Legge che Mosè ricevette sul Sinai, come suggerisce Gershom Scholem. La Qabbalah nasce storicamente nel XII secolo, sulla sponda occidentale del Mediterraneo, tra le comunità ebraiche di Linguadoca, una terra tanto fiorente nel commercio quanto progredita nel viver civile e nella tolleranza da essere, per quei tempi, certamente esemplare. E' vero, d'altra parte, che 'la nascita medievale' della Qabbalah non esclude una nascita sua più antica, derivando i suoi contenuti dalla riflessione e dall'approfondimento della religione biblica e della tradizione rabbinica, sia attraverso la parola scritta, sia più diffusamente attraverso la comunicazione bocca-orecchio, sicuramente non esclusiva dell'esoterismo ebraico.

 Quel che è certo è che, nel suo esordio storico, sia in Provenza, sia soprattutto in Catalogna, nella celebre scuola di Girona, Isacco il cieco insegni che occorre tralasciare ogni speculazione con riguardo tanto all'Uno quanto al Nulla. Non è a caso che la ricerca dei perushim - gli studiosi di Qabbalah - si limiti per un verso all'Opera della Creazione o Ma’asè Bereshit e per altro verso all'Opera del Carro o Ma’asè Mercavah. Con la prima intendendo il libero commento del Genesi o Bereshit per il quale è noto a tutti che la lettera Beit, con cui ha inizio la narrazione, è una lettera aperta solo da un lato a significare che unicamente gli eventi accaduti dopo il Bereshit o Principio sono accessibili all’indagine umana. Con la seconda, mediante la cosiddetta discesa nella Mercavah, facendo riferimento al viaggio nella propria interiorità, alla ricerca di quei centri 'sottili' di consapevolezza detti Hekalot o Palazzi, assai simili, peraltro ai Chakras dell'induismo e ai 'soffi vitali' descritti nelle Upanisad. Sono centri 'sottili' e tuttavia hanno una corrispondenza nel corpo umano. Se si permette all’energia spirituale di scorrere e di soffermarsi su ciascuno di loro, non solo se ne trarrà motivo di benessere fisico e di purificazione ma sarà anche possibile accedere a visioni di esperienza non ordinaria.

 Tutto ha inizio con il primo Palazzo. In lui è racchiuso, secondo il Sepher ha Zohar (41a) - il libro più complesso e più famoso della letteratura cabbalistica - 'il mistero dei misteri'. Luz, con riferimento biblico è detto il suo luogo, 7 il suo valore numerico (Lamed 30 +Waw 6 +Zain 7 =43=7) ad indicare che sette sono i centri di consapevolezza; nel corpo dell' uomo corrisponde al coccige, dove la colonna vertebrale termina nel punto più lontano dalla testa o dove inizia nel punto più vicino alla terra. Livnat ha Sapir, Mattone di zaffiro, è il suo nome. Dove il mattone è appunto simbolo della materia, cioè della densità della costruzione di luce e di energia che viene dall'alto. L' opera della Merkavà o opera del Carro non può che iniziare di qui, dove la prima manifestazione di luce e il principio stesso della luce si trovano insieme racchiusi nella densità della materia. Non a caso il suo nome in sanscrito, Muladhara, significa radice. Una concentrazione su questo centro produce immediatamente calore. Un suo funzionamento squilibrato produce eccesso di cibo e di sesso, avidità, diffidenza, aggressività, paura e insicurezza, debolezza fisica e disturbi della circolazione sanguigna periferica.

 Se la scuola di Isacco il cieco prima e l'apparizione dello Zohar alla fine del XIII secolo, al di là degli antecedenti metastorici della Qabbalah, rappresentano i momenti di maggiore originalità e di più intensa affermazione del pensiero sapienziale e simbolico degli Ebrei sefarditi, occorre ricordare che fu soprattutto con Yizhaq Luria, nel XVI secolo, che la Qabbalah venne progressivamente affrancandosi dal testo biblico e dalla lezione rabbinica, reclamando sempre più un'autonoma e peculiare capacità di rielaborazione e di approfondimento. E fu principalmente merito del movimento chassidico, sviluppatosi nella prima metà del Settecento tra gli ebrei aschenaziti dell'Europa centrale e orientale, se la Qabbalah da movimento prevalentemente speculativo, magico e devozionale venne via via privilegiando la dimensione psicologica e la finalità iniziatica, nel senso cioè di rappresentare un cammino interiore di rettificazione e di progressivo perfezionamento da realizzarsi sia privatamente sia in seno alla comunità (devoti, chasidim) guidata da un giusto o zaddiq.

 Emerge tuttavia una continuità tra la Qabbalah di Isacco il cieco e quella del Chassidismo. In entrambe si direbbe quasi che il pensiero oscilli di continuo tra devozione religiosa e nihilismo, tra ricerca impossibile di giungere sino all'Uno nel tentativo almeno di cogliere il significato più autentico dell'azione divina e la consapevolezza di chi conosce in anticipo l'inutilità e la nullificazione di ogni azione umana votata in tal senso.

 L'esemplificazione di tale tragico paradosso insito nel pensiero sapienziale della Qabbalah ebraica si trova forse - come è stato messo in evidenza da Gershom Scholem, Martin Buber, Karl Grozinger e tanti altri - nell'universo letterario di Kafka. Addirittura G.Scholem soleva dire che per capire veramente la Qabbalah bisognerebbe prima aver letto i libri di Franz Kafka. Nei romanzi dello scrittore praghese si disegna infatti, contemporaneamente, la speranza teurgica propria della Qabbalah storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del Castello, come l’impossibilità di ottenere il giudizio nel Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio Testamento, neppure il ‘silenzio’ di Dio dipende dalla Sua ‘morte’ e la condanna nell’apparente innocenza, così come per Giobbe, non dipende dall’esistenza di un Demiurgo malvagio che Kafka avrebbe in comune con Marcione e i marcioniti secondo il fortunato ma per me errato giudizio di Remo Cantoni. La Qabbalah nell'accennare al progetto divino del mondo, individua nella teurgia lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia e questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e l’agrimensore K. nel Castello; il loro fallimento è il fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice, né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal Chassidismo dove è il Rebbe, lo Zaddik ad intercedere per la comunità. L’aiuto nel tribunale del Processo come nel villaggio del Castello si rivela illusorio quando non addirittura fuorviante. Eppure, questo pensare l’inadeguatezza della teurgia non si colloca fuori dell’ebraismo e della Qabbalah, né è vissuto da Kafka con angoscia. 'L’angoscia intollerabile' di cui parlò André Gide s’impadronisce piuttosto dei lettori e deve servire ad allontanarli dall’agire frenetico. Il fatto è che lo scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin su…, bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang: “Nella misura in cui si può considerare il castello come sede della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano appunto -in termini teologici- che la grazia divina non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino”. (Cfr.in W.Benjamin, Angelus Novus, tr.it., Milano,1965,p.292). A sostegno di tale interpretazione basterebbero alcuni pochi aforismi di Kafka contenuti negli Otto quaderni in ottavo, a cominciare dal più breve di tutti: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato

 L’En Soph, il Nulla che fa disperare i discepoli di Isacco il Cieco perché a Lui si deve guardare ma senza parlarne, diventa in Kafka il Dio che quando pensa a noi è perché in lui affiorano pensieri nichilistici, pensieri di suicidio. C’è di più: chi prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto Il nuovo avvocato (il dottor Bucefalo) per la trasposizione romanzesca del Libro della trasmigrazione delle anime della scuola di Luria, chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della dottrina del ghilghul? Ecco allora la grande comicità di Kafka, messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che il grottesco finisce per essere, fatalmente, la modalità umana, inconsapevole e sapienziale, di vivere il sacro. Ma ci sono altri esempi: la fisiognomica o arte di leggere i segni del viso e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come il Sefer Chokhmat ha-Parzuf ) e costituisce una importante sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il commerciante Block a Josef K., nel romanzo di Kafka, può spesso dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle sue labbra. Il lettore, anche quello meno distratto, non si sognerebbe mai di pensare che si stia parlando di Qabbalah, egli è piuttosto attratto dalla garbata comicità che traspare dal colloquio e dal fondo quasi surreale della narrazione su cui si staglia prepotente e improvvisa una verità di cui il lettore è certamente a conoscenza: la lunghezza dei processi. Ma, per l’ennesimo paradosso, tale lunghezza è un bene più che un male per l’imputato, visto che nei tribunali del Processo i giudizi definitivi e favorevoli sono rari o addirittura inesistenti, a prescindere, naturalmente, dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato. Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del ‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto Davanti alla legge, ripreso anche nelle ultime pagine del Processo, rivive la leggenda del guardiano della soglia: “ Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni. Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno, stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte, tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo, ‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di entrare?’. Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso: ‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te. Ora me ne vado e la chiudo.’ (F.Kafka, Racconti, tr.it., Feltrinelli, VI Ed., Milano, 1965, pp.137-139)

 Il cabbalista fa di tutto per attrarre la Shekinah nel mondo. Lo Zohar assegna simbolicamente alla Shekinah la figura femminile. Al contrario, la donna nella tradizione ebraica è talora vista come immagine di Lilith. La stessa ambivalenza c'è nelle donne dei romanzi di Kafka, egli, tuttavia, non può fare a meno di notare che da loro deriva spesso un grande aiuto.

 Il primo ‘aiuto’ di Leni, la segretaria dell'avvocato Huld nel Processo, è il gran fracasso con cui attira l’attenzione di Josef K. per sottrarlo alla noia dei discorsi tra lo zio, l’avvocato e il cancelliere capo del tribunale. E’ lei che lo introduce nello studio dell’avvocato ed è ancora lei a suggerirgli la giusta strategia da adottare durante il processo: ‘Non stia a domandare nomi, ma guarisca di questo suo errore, non sia più così ostinato, contro questo tribunale non si può difendersi, bisogna finire per confessare. Alla prossima occasione confessi tutto. Solo quando si è confessata la colpa si ha la possibilità di sfuggire, solo allora. Ma anche questo non è possibile senza aiuto di altri, però non deve preoccuparsi per questo aiuto, penserò io stessa ad aiutarlo.’ (Ibid., p104). Seguirà poi la scena della seduzione, quando K. è trascinato sul tappeto e Leni gli sussurra: ‘Ora sei mio’. Poco prima, tuttavia, Kafka, che non smette mai di divertirsi, non perde occasione per alludere al ghilghul e al molteplice ‘scambio’ che intercede tra vita animale e vita umana: tra i due si parla di difetti fisici e Leni dice: “ ‘io per esempio ne ho uno, guardi qua’ e stese il medio e l’indice della destra che erano congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange. Nel buio K. non capì subito quello che gli voleva far vedere, ed essa perciò gli guidò la mano perché sentisse la sua. ‘Che scherzo di natura!’ esclamò K., E quando ebbe esaminata tutta la mano aggiunse: ‘Che bella zampetta!’ ” (Ibid. pp.105-106)

 Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’invisibile signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è qualcosa di allegro, di libero’ egli ha come l’impressione di smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze di ascesa vadano in fumo. La verità è che nessun aiuto è efficace né per giungere sino al Signore del Castello né per mitigare la sentenza del Giudice del Tribunale. Ne sa qualcosa il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare subito a morte. Ne sa qualcosa Giobbe nel gridare a Dio il suo dolore: "Signore perché dai importanza all'uomo? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova ? (Giobbe,7, 18)

 In conclusione, dunque, vorrei dire che il pensiero sapienziale della tradizione occidentale, pur nelle continue interferenze col pensiero religioso, appare in grado di rivendicare una propria peculiare elaborazione anche e nonostante la presenza del divino, la cui imperscrutabile lontananza, come nel monoteismo ebraico e la cui costante presenza, come nel politeismo greco, nulla possono sulla libertà umana e sull'umano sapere.


sergio magaldi


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