sabato 12 luglio 2014

PREMIATA DITTA SORELLE FICCADENTI

          Andrea Vitali, Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti, Rizzoli, Milano, marzo 2014, pp.447

 Un nuovo romanzo di Andrea Vitali, già medico di base di Bellano e cantore instancabile della provincia italiana – o meglio dei tanti paesi che si affacciano sul lago di Como –, nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e l’era fascista. Un mondo contadino oggi difficile da riconoscere e che tuttavia mantiene inalterato il rapporto con il passato. Mutano le forme del vivere, sembra voler dire l’autore, ma la condizione degli esseri umani permane identica a se stessa. Con l’avidità, l’inganno, il delitto, la bestialità e la fede malintesa o bigotta che agita il cuore e il cervello dei viventi. 

 Il pregio di Vitali non è solo saper raccontare, avere “la felicità del racconto”, come ha detto di lui Andrea Camilleri, ma l’ironia con cui descrive personaggi e situazioni per un pubblico che si diverte e che è chiamato a riflettere liberamente sul destino individuale – in parte determinato dalla natura di ciascuno, in parte da una volontà imperscrutabile – senza per questo dover subire lezioni di metafisica o, ancor peggio, noiose prediche di morale.

 Il teatro in cui si svolge l’azione, con qualche sconfinamento nella vicina Svizzera e nei comuni limitrofi, è quello di Bellano degli anni della prima guerra mondiale, visto con gli occhi di Esebele, personaggio minore di questa storia, eppure quasi deus ex machina dell’intero racconto:

 “Paese grosso, importante, popoloso, denso di traffici. Negozi da perderci il conto, osterie pure. Un porto che, gli avevano raccontato, non avrebbe sfigurato sulle rive di qualche mare e che era un andirivieni continuo di comballi che andavano su da Como o di bacarozzi che venivano giù dall’alto scaricando merci che poi di lì partivano alla volta delle valli che stavano alle spalle del paese. C’era tutto. Una pretura, dalla quale era meglio stare alla larga, e un ospedale che avrebbe servito la popolazione di mezzo lago e dei paesi di montagna. Alberghi di lusso, in uno dei quali gli avevano raccontato che avesse dormito Garibaldi, e locande per il popolino. E non era mica finita lì, perché oltre a tutto quel movimento, c’era anche un santuario sulla montagna, dedicato alla Madonna che aveva pianto lacrime di sangue ai tempi di carlo codega, che richiamava frotte di pellegrini anche dai Grigioni. Insomma un posto vivace dove la moneta circolava e la gente però non aveva in testa il solo lavoro.” [p. 345].   

 Il romanzo inizia con la Stampina, madre di Geremia, – un giovane robusto di 32 anni tutto “chiesa, casa e bottega” del quale in paese si dice che manchi di qualche giovedì  – che in una notte d’inverno della fine del 1915 bussa alla porta di Don Primo Pastore, prevosto del paese per chiedere aiuto: il figlio minaccia di buttarsi nel lago ancora prima del Natale se non gli riuscirà di sposare Giovenca Ficcadenti, la nuova merciaia, alta, bella e bionda, di cui si è innamorato per averla vista una sola volta. L’altra sorella della “Premiata ditta sorelle Ficcadenti” è Zemia, così brutta da sembrare uno zombi. Da questo momento tutta la vicenda ruoterà attorno alle due sorelle e alla miriade di personaggi che, per una ragione o per l’altra, entrerà in contatto con loro.

 Tra i tanti attori si cercherà inutilmente nella vicenda il cosiddetto “eroe positivo” e, a conti fatti, l’unica figura da “salvare” è forse quella di Don Primo Pastore che, a suo modo e dal suo limitato orizzonte, farà di tutto per risolvere i problemi delle sue pecorelle ma che alla fine dovrà darsi per vinto. Quanto più forte è l’ironia dell’autore, tanto più s’intravede il giudizio inappellabile sulla natura umana e l’impossibilità del riscatto. E dietro le morti accidentali – chi scivolando su una lastra di ghiaccio, chi per aver inghiottito un bottone o aver ricevuto sulla testa una persiana pericolante – si può cogliere la trama sottile di un disegno karmico, beffardo quanto inesorabile.

 Molti invece gli “eroi negativi” che popolano il romanzo. A cominciare da quel Gerlando, “uno dei più facinorosi interventisti del paese” che non fa altro che “concionare contro la ‘canaglia neutralista’ e la ‘pavida conigliera’ e che allo scoppio del conflitto mondiale si dà alla macchia per non andare in guerra. Per finire con l’intrigante e avido Editto Giovio, “Notaro in Como”, che nel corso di un intervista lo stesso Andrea Vitali ammette essere il peggiore di tutti e che nel romanzo è così descritto:

 “[…] era un essere grasso al limite della ripugnanza, sempre sudato, dalla dubbia igiene personale, soprannominato “vonciòn” dai proprietari delle trattorie dove quotidianamente consumava pantagruelici pranzi e cene.
 Cinquantenne, era ricco, e non certo grazie ai favori dei maggiorenti comaschi che, ricambiati, lo disprezzavano, ma in virtù di un intuito, seguendo il quale Editto Giovio aveva rivolto sin dall’inizio le sue attenzioni alle classi meno agiate, le più facili da turlupinare. I suoi clienti abitavano a quote variabili sulle montagne che contornano la città di Como e in genere mai sotto i cinquecento metri sopra il livello del mare. Raramente il notaio li riceveva presso il suo studio: era lui che li andava a trovare e quelli erano ben felici di pagare un sovrapprezzo […]. Avvisato che c’era bisogno di lui per una divisione, un passaggio di proprietà, una compravendita, un matrimonio di cui bisognava calcolare il valore e la contropartita in dote della sposa, partiva senza indugi […]. Il suo metodo era semplice, si basava sulla candida ignoranza di quella gente che si lasciava intronare dai suoi paroloni e spaventare quando affermava che senza la documentazione necessaria, spesso latitante, la transazione in atto si faceva complicata quando non impossibile. Una volta cotto a fuoco lento il cliente, il Giovio assicurava che con un poco di pazienza, il suo imprescindibile intervento presso uffici demaniali, giudiziari e finanziari, il necessario esborso di moneta sonante per ungere qualche ingranaggio e pagare improbabili tasse arretrate, bolli, permessi e autorizzazioni al fine di dare corpus tangibilis a una res nullius per le leggi vigenti, fosse una stalla, un appezzamento, una vigna, un bosco eccetera, l’affare si poteva concludere con piena soddisfazione delle parti: la sua, prima di ogni altra, visto che il Notaro intascava, oltre all’onorario, tutti i soldi che riusciva a pelare al malcapitato con l’aggiunta di eterna gratitudine, spesso tradotta con l’invio in quel di Como di prodotti tra i più vari in occasione delle principali festività.” [pp.191-192].

 “L’incursione nel giallo”, come è stato definito l’approccio di Andrea Vitali alla narrativa del genere – secondo un costume ormai di moda da qualche anno tra gli scrittori, anche grandi – se raggiunge il fine di semplificare una materia, altrimenti complessa e di difficile risoluzione, nulla aggiunge alla genuinità del romanzo, e lascia persino perplesso il lettore nel comprendere certe motivazioni che, nel bene e nel male, guidano le azioni dei protagonisti. Resta la considerazione di avere tra le mani e sotto gli occhi il libro di un autore che, per quanto premiatissimo, non sembra aver ottenuto dalla critica il riconoscimento che merita.

sergio magaldi       

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