Il teatro in cui si
svolge l’azione, con qualche sconfinamento nella vicina Svizzera e nei comuni
limitrofi, è quello di Bellano degli anni della prima guerra mondiale, visto
con gli occhi di Esebele, personaggio minore di questa storia, eppure quasi deus ex machina dell’intero racconto:
“Paese
grosso, importante, popoloso, denso di traffici. Negozi da perderci il conto,
osterie pure. Un porto che, gli avevano raccontato, non avrebbe sfigurato sulle
rive di qualche mare e che era un andirivieni continuo di comballi che andavano
su da Como o di bacarozzi che venivano giù dall’alto scaricando merci che poi
di lì partivano alla volta delle valli che stavano alle spalle del paese. C’era
tutto. Una pretura, dalla quale era meglio stare alla larga, e un ospedale che
avrebbe servito la popolazione di mezzo lago e dei paesi di montagna. Alberghi
di lusso, in uno dei quali gli avevano raccontato che avesse dormito Garibaldi,
e locande per il popolino. E non era mica finita lì, perché oltre a tutto quel
movimento, c’era anche un santuario sulla montagna, dedicato alla Madonna che
aveva pianto lacrime di sangue ai tempi di carlo codega, che richiamava frotte
di pellegrini anche dai Grigioni. Insomma un posto vivace dove la moneta
circolava e la gente però non aveva in testa il solo lavoro.” [p. 345].
Il romanzo inizia
con la Stampina, madre di Geremia, – un giovane robusto di 32 anni tutto
“chiesa, casa e bottega” del quale in paese si dice che manchi di qualche
giovedì – che in una notte d’inverno della
fine del 1915 bussa alla porta di Don Primo Pastore, prevosto del paese per
chiedere aiuto: il figlio minaccia di buttarsi nel lago ancora prima del Natale
se non gli riuscirà di sposare Giovenca Ficcadenti, la nuova merciaia, alta,
bella e bionda, di cui si è innamorato per averla vista una sola volta. L’altra
sorella della “Premiata ditta sorelle Ficcadenti” è Zemia, così brutta da
sembrare uno zombi. Da questo momento tutta la vicenda ruoterà attorno alle due
sorelle e alla miriade di personaggi che, per una ragione o per l’altra,
entrerà in contatto con loro.
Tra i tanti attori
si cercherà inutilmente nella vicenda il cosiddetto “eroe positivo” e, a conti
fatti, l’unica figura da “salvare” è forse quella di Don Primo Pastore che, a
suo modo e dal suo limitato orizzonte, farà di tutto per risolvere i problemi
delle sue pecorelle ma che alla fine dovrà darsi per vinto. Quanto più forte è
l’ironia dell’autore, tanto più s’intravede il giudizio inappellabile sulla
natura umana e l’impossibilità del riscatto. E dietro le morti accidentali –
chi scivolando su una lastra di ghiaccio, chi per aver inghiottito un bottone o
aver ricevuto sulla testa una persiana pericolante – si può cogliere la trama
sottile di un disegno karmico, beffardo quanto inesorabile.
Molti invece gli
“eroi negativi” che popolano il romanzo. A cominciare da quel Gerlando, “uno
dei più facinorosi interventisti del paese” che non fa altro che “concionare
contro la ‘canaglia neutralista’ e la ‘pavida conigliera’ " e che allo scoppio
del conflitto mondiale si dà alla macchia per non andare in guerra. Per finire
con l’intrigante e avido Editto Giovio, “Notaro in Como”, che nel corso di un
intervista lo stesso Andrea Vitali ammette essere il peggiore di tutti e che
nel romanzo è così descritto:
“[…] era un
essere grasso al limite della ripugnanza, sempre sudato, dalla dubbia igiene
personale, soprannominato “vonciòn” dai proprietari delle trattorie dove
quotidianamente consumava pantagruelici pranzi e cene.
Cinquantenne,
era ricco, e non certo grazie ai favori dei maggiorenti comaschi che,
ricambiati, lo disprezzavano, ma in virtù di un intuito, seguendo il quale
Editto Giovio aveva rivolto sin dall’inizio le sue attenzioni alle classi meno
agiate, le più facili da turlupinare. I suoi clienti abitavano a quote
variabili sulle montagne che contornano la città di Como e in genere mai sotto
i cinquecento metri sopra il livello del mare. Raramente il notaio li riceveva
presso il suo studio: era lui che li andava a trovare e quelli erano ben felici
di pagare un sovrapprezzo […]. Avvisato che c’era bisogno di lui per una
divisione, un passaggio di proprietà, una compravendita, un matrimonio di cui
bisognava calcolare il valore e la contropartita in dote della sposa, partiva
senza indugi […]. Il suo metodo era semplice, si basava sulla candida ignoranza
di quella gente che si lasciava intronare dai suoi paroloni e spaventare quando
affermava che senza la documentazione necessaria, spesso latitante, la
transazione in atto si faceva complicata quando non impossibile. Una volta
cotto a fuoco lento il cliente, il Giovio assicurava che con un poco di
pazienza, il suo imprescindibile intervento presso uffici demaniali, giudiziari
e finanziari, il necessario esborso di moneta sonante per ungere qualche
ingranaggio e pagare improbabili tasse arretrate, bolli, permessi e
autorizzazioni al fine di dare corpus
tangibilis a una res nullius per
le leggi vigenti, fosse una stalla, un appezzamento, una vigna, un bosco
eccetera, l’affare si poteva concludere con piena soddisfazione delle parti: la
sua, prima di ogni altra, visto che il Notaro intascava, oltre all’onorario,
tutti i soldi che riusciva a pelare al malcapitato con l’aggiunta di eterna
gratitudine, spesso tradotta con l’invio in quel di Como di prodotti tra i più
vari in occasione delle principali festività.” [pp.191-192].
“L’incursione nel
giallo”, come è stato definito l’approccio di Andrea Vitali alla narrativa del
genere – secondo un costume ormai di moda da qualche anno tra gli scrittori,
anche grandi – se raggiunge il fine di semplificare una materia, altrimenti
complessa e di difficile risoluzione, nulla aggiunge alla genuinità del
romanzo, e lascia persino perplesso il lettore nel comprendere certe
motivazioni che, nel bene e nel male, guidano le azioni dei protagonisti. Resta
la considerazione di avere tra le mani e sotto gli occhi il libro di un autore
che, per quanto premiatissimo, non sembra aver ottenuto dalla critica il
riconoscimento che merita.
sergio magaldi
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