domenica 17 novembre 2019

LE PADRONE DI CASA





 Ciò che colpisce di questo romanzo non è tanto la storia in sé, la trama di cui è intessuto per farne – come si annuncia di solito prima della narrazione –un’opera di fantasia, dove nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore. La sorpresa non è tanto la criminalità organizzata raccontata al femminile, quanto il modo di raccontarla. Storie di donne, sorelle così diverse ma accomunate da un solo giuramento che quasi non le distingui più le une dalle altre, in un turbinio di parole dove hai come l’impressione che il verbo s’è fatto carne di una città intera.

 Sin dalle prime pagine mi è venuto in mente La Pelle di Curzio Malaparte, cui ho subito affiancato il ricordo di Napoli milionaria che il grande Eduardo scrive nel ’45, quando l’Italia del nord è ancora nelle mani dei tedeschi e nei vicoli napoletani tutti si arrangiano per sopravvivere.

Annota Grazia Fresu in un articolo di tre anni fa:
«Quella stessa città durante la lotta contro il Nazifascismo si era trovata compatta e eroica di fronte  al nemico, quel nemico da cui  si era  liberata, prima dell’arrivo degli Alleati, con una ribellione strenua e coraggiosa in cui persino i bambini avevano fatto la loro parte. Ma ora al contatto col liberatore si degrada, per salvare a tutti i costi, non più dalla morte ma dalla miseria, quella pelle di cui si parla nel titolo del romanzo […] Tutto è feroce scambio in questa Napoli stordita dal bisogno, dove l’unica legge è quella della sopravvivenza e dove per salvare la pelle bisogna modellarsi sull’immagine del liberatore, ma solo per recita, per il gioco crudele che la Storia ha imposto a vincitori e vinti» [CinquecolonneMagazine, “La Napoli di Curzio Malaparte”, Grazia Fresu, docente di letteratura italiana nell'Università Nazionale di Cuyo a Mendoza (Argentina) 08/11/2016].

 Il romanzo di Maria Pia Selvaggio si scompone e si ricompone di due parti: l’una scritta in corsivo, cronaca ma anche confessione, sfogo e pensieri riposti di protagonisti, l’altra che più che di letteratura sa di pittura alla maniera di Bosch, dei suoi epigoni ed eredi, come Pieter van der Heyden e le riproduzioni del grande maestro, come Bruegel il vecchio, con “I pesci grossi che mangiano i pesci piccoli”, o come Füssli con il suo “Incubo”.

«Altro che fantasie, altro che incubi […] la realtà nuda e cruda che gli stava davanti […] Io dissi: “Capisco […] Tornerà sempre a suo merito, di Bosch, l’aver dato una forma completa a quei fantasmi… Però lei non mi dirà che quegli esseri orrendi, rettili antropomorfi, osceni meccanismi, utensili trasformati in membra, gnomi e insetti abominevoli, lui li vedesse veramente […] “Non li vedeva?” fece lui arrogante: “Non giravano per le nostre strade? Oh, non mi faccia parlare!” […] Confessò che pure lui, non tutti i giorni ma abbastanza spesso, ‘vedeva’ il mondo come Bosch: quel pomeriggio, per esempio. Parecchie di quelle amorevoli mammine venute con la carrozzella del neonato non erano – mi garantì – che laidi uccelli dal becco adunco, lucertoloni neri gonfi d’odio, avidi cercopitechi sdentati, vesciche infami con gambe di ragno. Tra i bambini stessi aveva visto qualche ributtante esemplare di ornitorinco e di gnomo, armato di uncini sanguinolenti» [L’opera completa di Bosch, presentazione di Dino Buzzati, Rizzoli, 1966, pp.6-7].




                 




 Né mancano nelle pagine del romanzo lampi di poesia, lumi che di tanto in tanto si accendono nella notte delle anime e dei corpi. Siamo sullo scorcio del XX Secolo e le donne di Maria Pia Selvaggio, eroine al negativo di un mondo “altro”, raccontano la propria storia dove tutto è scandito dalla ricerca del potere, del denaro e del piacere, senza i veli,  gli infingimenti e le ipocrisie degli altri, di tutti quelli che hanno gli stessi desideri ma hanno imparato a nasconderli perché hanno perso la forza e la capacità di realizzarli. Un mondo dove il contratto sociale è stracciato perché ha fallito miseramente e la gente comune è impotente a pretenderne un altro. Così, patto e regole devono essere riscritti ma in un codice diverso.

 Maria, la prima a parlare, si annuncia con un’innocenza che non le appartiene ma che sa ancora riconoscere, perché anche se il suo universo è altrove, è pur vero che tutti i mondi alla fine sono contigui:

«Napoli non sa nulla di me e forse se ne infischia. Se sapesse avrebbe paura! La città è splendida e fiorita e si diverte. Sulle spiagge di Santa Lucia, Chiaia e Mergellina gruppi di scugnizzi e ragazzine s’arrostiscono beati, avvolti dagli odori di salsedine e cipolla provenienti dai banchetti ambulanti. Ostricari veloci spaccano conchiglie con i coltellacci ricurvi e strizzano gocce di limone su cozze, fasolari e cannolicchi, che arrivano fino ai miei occhi, pungendomi. Seduta ai tavolini dei bar, molta gente: leccano gelati monumentali e sughi alla panna. Sugo di pesca, menta,ciliegio e caffè mischiato all’anice: un sogno! Dietro Castel dell’Ovo i primi sbuffi di un grecale gentile. I gabbiani impennano nel cielo azzurro, girano in cerchio, sorvolano la rotonda. È come se, camminando, perdessi la strada, mi confondessi. Forse avrei voluto vivere qui, e non nel lusso statico e preciso, nella continua voglia di essere “meglio” degli altri» [p.34]

 D’altra parte, come dirà Maria Luisa, tra le donne della nuova generazione, quei mondi che sembrano così distanti tra di loro si avvicinano sempre più che quasi ormai si confondono:

 «Si sono spente delle lampade della violenza suggestiva, ma altre si sono accese, e nessuno se ne è reso conto. Il problema: le mafie? No, non più, o almeno non solo. Potenti gruppi economico-finanziari e aggregati politico-amministrativi, con a capo “donne di potere”, hanno affinato la competenza tecnica, trasformando i problemi in emergenze e le emergenze in affari» [p.97]

 L’autrice mostra una rara abilità nel far parlare tutte le “sue” donne, come immedesimata in loro, come se indossasse la loro pelle, quasi realizzando l’ideale conoscitivo dei filosofi antichi: la perfetta identità tra soggetto e oggetto. E la cosa riesce perché avviene senza la prospettiva di un distacco, di un giudizio morale persino superfluo, perché non avrebbe altro esito che allentare la presa di una narrazione che ti prende alla gola e s’insinua nei meandri del corpo e ti immalinconisce l’anima. Salvo che in Elisa, la donna che parla per ultima.


sergio magaldi

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