Ciò che colpisce di questo romanzo non è tanto
la storia in sé, la trama di cui è intessuto per farne – come si annuncia di
solito prima della narrazione –un’opera di fantasia, dove nomi, personaggi,
luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore. La
sorpresa non è tanto la criminalità organizzata raccontata al femminile, quanto
il modo di raccontarla. Storie di donne, sorelle così diverse ma accomunate da
un solo giuramento che quasi non le distingui più le une dalle altre, in un turbinio
di parole dove hai come l’impressione che il verbo s’è fatto carne di una città
intera.
Sin dalle prime pagine mi è venuto in mente La Pelle di Curzio Malaparte, cui ho
subito affiancato il ricordo di Napoli
milionaria che il grande Eduardo scrive nel ’45, quando l’Italia del nord è
ancora nelle mani dei tedeschi e nei vicoli napoletani tutti si arrangiano per
sopravvivere.
Annota Grazia Fresu in un articolo di tre anni fa:
«Quella
stessa città durante la lotta contro il Nazifascismo si
era trovata compatta e eroica di fronte al nemico, quel nemico da cui
si era liberata, prima dell’arrivo degli Alleati, con una ribellione strenua e coraggiosa in
cui persino i bambini avevano fatto la loro parte. Ma ora al contatto col
liberatore si degrada, per salvare a tutti i costi, non più dalla morte ma
dalla miseria, quella pelle di cui si parla nel titolo del romanzo […] Tutto
è feroce
scambio in
questa Napoli
stordita dal bisogno, dove l’unica legge è quella
della sopravvivenza e
dove per salvare la pelle bisogna modellarsi sull’immagine del liberatore, ma
solo per recita, per il gioco crudele che
la Storia ha
imposto a vincitori e vinti» [CinquecolonneMagazine, “La Napoli di Curzio
Malaparte”, Grazia Fresu, docente di letteratura italiana nell'Università
Nazionale di Cuyo a Mendoza (Argentina) 08/11/2016].
Il romanzo di Maria Pia Selvaggio si scompone e si ricompone di due
parti: l’una scritta in corsivo, cronaca ma anche confessione, sfogo e pensieri
riposti di protagonisti, l’altra che più che di letteratura sa di pittura alla
maniera di Bosch, dei suoi epigoni ed eredi, come Pieter van der Heyden e le
riproduzioni del grande maestro, come Bruegel il vecchio, con “I pesci grossi
che mangiano i pesci piccoli”, o come Füssli con il suo “Incubo”.
«Altro che fantasie, altro che incubi […] la realtà nuda e
cruda che gli stava davanti […] Io dissi: “Capisco […] Tornerà sempre a suo
merito, di Bosch, l’aver dato una forma completa a quei fantasmi… Però lei non
mi dirà che quegli esseri orrendi, rettili antropomorfi, osceni meccanismi,
utensili trasformati in membra, gnomi e insetti abominevoli, lui li vedesse
veramente […] “Non li vedeva?” fece lui arrogante: “Non giravano per le nostre
strade? Oh, non mi faccia parlare!” […] Confessò che pure lui, non tutti i
giorni ma abbastanza spesso, ‘vedeva’ il mondo come Bosch: quel pomeriggio, per
esempio. Parecchie di quelle amorevoli mammine venute con la carrozzella del
neonato non erano – mi garantì – che laidi uccelli dal becco adunco,
lucertoloni neri gonfi d’odio, avidi cercopitechi sdentati, vesciche infami con
gambe di ragno. Tra i bambini stessi aveva visto qualche ributtante esemplare
di ornitorinco e di gnomo, armato di uncini sanguinolenti» [L’opera completa di Bosch,
presentazione di Dino Buzzati, Rizzoli, 1966, pp.6-7].
Né mancano nelle
pagine del romanzo lampi di poesia, lumi che di tanto in tanto si accendono
nella notte delle anime e dei corpi. Siamo sullo scorcio del XX Secolo e le
donne di Maria Pia Selvaggio, eroine al negativo di un mondo “altro”,
raccontano la propria storia dove tutto è scandito dalla ricerca del potere,
del denaro e del piacere, senza i veli,
gli infingimenti e le ipocrisie degli altri, di tutti quelli che hanno
gli stessi desideri ma hanno imparato a nasconderli perché hanno perso la forza
e la capacità di realizzarli. Un mondo dove il contratto sociale è stracciato
perché ha fallito miseramente e la gente comune è impotente a pretenderne un
altro. Così, patto e regole devono essere riscritti ma in un codice diverso.
Maria, la prima a parlare, si annuncia con
un’innocenza che non le appartiene ma che sa ancora riconoscere, perché anche
se il suo universo è altrove, è pur vero che tutti i mondi alla fine sono
contigui:
«Napoli non sa
nulla di me e forse se ne infischia. Se sapesse avrebbe paura! La città è
splendida e fiorita e si diverte. Sulle spiagge di Santa Lucia, Chiaia e
Mergellina gruppi di scugnizzi e ragazzine s’arrostiscono beati, avvolti dagli
odori di salsedine e cipolla provenienti dai banchetti ambulanti. Ostricari
veloci spaccano conchiglie con i coltellacci ricurvi e strizzano gocce di limone
su cozze, fasolari e cannolicchi, che arrivano fino ai miei occhi, pungendomi.
Seduta ai tavolini dei bar, molta gente: leccano gelati monumentali e sughi
alla panna. Sugo di pesca, menta,ciliegio e caffè mischiato all’anice: un
sogno! Dietro Castel dell’Ovo i primi sbuffi di un grecale gentile. I gabbiani
impennano nel cielo azzurro, girano in cerchio, sorvolano la rotonda. È come
se, camminando, perdessi la strada, mi confondessi. Forse avrei voluto vivere
qui, e non nel lusso statico e preciso, nella continua voglia di essere
“meglio” degli altri» [p.34]
D’altra parte, come dirà Maria
Luisa, tra le donne della nuova generazione, quei mondi che sembrano così
distanti tra di loro si avvicinano sempre più che quasi ormai si confondono:
«Si sono spente delle lampade della violenza
suggestiva, ma altre si sono accese, e nessuno se ne è reso conto. Il problema:
le mafie? No, non più, o almeno non solo. Potenti gruppi economico-finanziari e
aggregati politico-amministrativi, con a capo “donne di potere”, hanno affinato
la competenza tecnica, trasformando i problemi in emergenze e le emergenze in
affari»
[p.97]
L’autrice mostra una rara abilità nel far parlare tutte le “sue”
donne, come immedesimata in loro, come se indossasse la loro pelle, quasi realizzando
l’ideale conoscitivo dei filosofi antichi: la perfetta identità tra soggetto e
oggetto. E la cosa riesce perché avviene senza la prospettiva di un distacco,
di un giudizio morale persino superfluo, perché non avrebbe altro esito che
allentare la presa di una narrazione che ti prende alla gola e s’insinua nei
meandri del corpo e ti immalinconisce l’anima. Salvo che in Elisa, la donna che
parla per ultima.
sergio magaldi
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