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Potendo contare, almeno sulla carta, della sola
maggioranza del suo partito, stimata in circa il 20%, contro tutti gli altri
partiti, compresa la minoranza del suo, Matteo Renzi il 4 dicembre 2016 andava
a sbattere contro la volontà maggioritaria
degli italiani che – ubbidiente come sempre ai richiami della propria fazione –
bocciava il Referendum Costituzionale con il 60% dei no e il 40% dei sì e lo
disarcionava dal potere, un cavallo sul quale sino a quel momento l’ex sindaco
di Firenze aveva viaggiato velocissimo. Inutile era stato l’appello dei
radicali a “spacchettare” il Referendum per salvaguardare alcune riforme senza
accollarsi la responsabilità di una sconfitta annunciata. Ingenuità e
presunzione, secondo la narrativa comune, furono alla base della sua caduta e
della sua “resistibile ascesa”.
Neanche tre anni dopo, tuttavia, Renzi è di nuovo
protagonista della scena politica, prima spingendo il PD al varo del II governo
Conte insieme ai Cinquestelle, poi provocando una scissione all’interno del suo
partito con la formazione di Italia Viva.
Si disse allora per avere quella visibilità politica che all’interno del PD non
avrebbe avuto, ma più probabilmente per essere determinante nelle scelte
politiche, come poi in effetti accadrà. Ingenui, questa volta, i maggiorenti
del PD a non averlo capito sin dall’inizio o, più semplicemente, troppo avidi
di tornare al potere, nonostante la sconfitta elettorale, e con la
speranza nemmeno tanto segreta di
lucrare sull’elettorato grillino in evidente calo di consensi, almeno a
giudicare dai sondaggi.
Nemmeno un anno e mezzo dopo, e siamo ormai all'attualità, Renzi
si rende conto di come sia impossibile, con quel Presidente del Consiglio e
quei ministri, governare un Paese ormai sull’orlo dell’abisso per la crisi
pandemica, economica, sociale e non solo. Fa delle proposte, anche se sa bene
che – nonostante le tante promesse di mediazione – gli verranno respinte
dall’intransigenza inerziale dei grillini e dalla viscosità curiale dei suoi ex
compagni di partito. Ciò che puntualmente avviene e che offre a Renzi il destro
per separarsi definitivamente dalla maggioranza che sostiene il governo. Le
manovre del solito trasformismo parlamentare – che pure vanta solide radici
nazionali – questa volta non riescono, o meglio, nasce una nuova formazione e
un nuovo gruppo al Senato, ma i numeri non sono sufficienti e saggiamente
Mattarella convoca al Quirinale Mario
Draghi per la formazione di un governo di unità nazionale. Media e opinione pubblica, a questo punto si dividono tra i
sostenitori del “Renzi che mirava soltanto a liberarsi di Conte” (un pensiero più semplice delle nostre
possibilità di pensiero, direbbe Immanuel Kant) e quanti lasciano intendere
che Renzi sia stato la longa manus
dei cosiddetti poteri forti (un pensiero
più grande delle nostre capacità di verfica, direbbe ancora Kant), tant’è
che, a differenza di altre volte, non è stato trovato un numero sufficiente di
“responsabili” o “costruttori”per puntellare il Conte bis e/o per varare il
Conte ter.
Sia come sia, occorre prendere atto che Matteo Renzi,
nonostante il masochismo che ne ha determinato la caduta postreferendaria,
continua a dettare l’agenda della politica italiana. Si ha come la sensazione
che non riuscendo a cambiare questo Paese a propria immagine e somiglianza, per
le molte resistenze di notabili, burocrati, mafie e corporazioni, egli abbia
voluto di proposito forzare la situazione, prima con il Referendum, ora con
l’astuzia della ragione. Mutatis Mutandis,
c’è più di un’affinità con quanto occorso al leader della Lega. Nell’estate del
2019, mentre viaggiava su un treno in corsa, Matteo Salvini improvvisamente tirava
il freno a mano. Era allora al massimo della popolarità e dei consensi (proprio
come Renzi di prima del Referendum), per quale motivo lasciò un governo in cui
lui e la Lega avevano, almeno formalmente, un ruolo determinante?
Anche in questo caso si parlò di ingenuità e di presunzione. Allora Salvini
confessò che con quei compagni di viaggio non si riusciva a combinare niente e
che preferiva scendere dal treno. Oggi Renzi ha detto più o meno la stessa cosa
e ha permesso l’avvento non dell’uomo della provvidenza, ma dell’italiano che,
per la stima di cui gode in Europa, sembra il più titolato a spendere gli oltre
200 miliardi del Recovery Fund e non solo.
La prima reazione di Salvini è stata quella ingenua e
inutile di circa un anno e mezzo fa, quando decise di scendere dal treno,
chiedendo elezioni. Poi, dopo graduali tappe di avvicinamento, ha fatto quella
che è stata definita “la mossa del cavallo”: sì incondizionato al governo Draghi anche con la partecipazione di
ministri della Lega, dicendo di aver constatato nel colloquio con il Presidente
incaricato numerosi punti di convergenza con lui. Le parole più belle tuttavia
Salvini le ha pronunciate, affermando (unico tra i capi delegazione) che in un governo di unità nazionale non si può
stare a guardare se con il tuo partito entrano a farne parte anche forze
avversarie. Non lo fecero De Gasperi e Togliatti all’indomani della
liberazione, salvo poi a dividersi quando ce ne furono le condizioni. L’Italia
viene prima del partito ha detto ancora Salvini, dando una lezione ai tanti
“distinguo” degli altri, a cominciare dal PD, all’interno del quale sono circolate
voci – poi smentite ufficialmente – di “appoggio esterno” o addirittura di
astensione, motivate dalla contemporanea presenza della Lega nella maggioranza
di governo, per continuare con i Cinquestelle e le loro tante titubanze, forse spazzate
via almeno per la maggior parte dei quadri, dalla opportuna presenza di Grillo
al tavolo delle trattative, per finire con Leu e le sue pregiudiziali di pseudosinistra, e soprattutto con la Meloni che, autoescludendosi e rievocando inconsciamente
per la propria fazione le vecchie formule del cosiddetto arco costituzionale,
pensa in cuor suo di lucrare sull’opposizione e che invece rischia di tornare a
quel 4% che aveva prima che i nuovi sondaggi le attribuissero un 17% progressivamente
maturato per la delusione di parte del ceto medio nei confronti, prima di Forza Italia,
poi di Salvini.
sergio
magaldi
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