giovedì 19 dicembre 2024



 

                                          



Sergio Magaldi, INTERVISTA  SULLA  QABBALAH. 32 domande sulla mistica ebraica, MR edizioni, dicembre 2024, pp.246

 

 

Introduzione

 

 L’idea di scrivere qualcosa di immediatamente didascalico sui contenuti della mistica ebraica mi lasciava perplesso. Forse ricordando la lettera che Isacco il Cieco in pieno Medioevo aveva inviato ai rabbini di Girona, lamen­tando la responsabilità dei propri scolari nel divulgare «nelle strade e nei mercati» argomenti di studio e di meditazione che avrebbero dovuto man­tenere il naturale riserbo per non essere «profanati».

 

  A distanza di tanti secoli, riflettevo sul fatto che, proprio ciò su cui si ri­vendica segretezza e silenzio, diventa spesso l’oggetto di cui si finisce col par­lare di più. È il caso della Qabbalah e della sua diffusione soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso. Questa fortuna sembra mantenersi intatta, se non addirittura accrescersi, anche nel XXI Secolo, ma in realtà cosa si diffonde e si accresce?

 

 Nella vita di relazione gli esseri umani si scambiano di continuo idee, infor­mazioni e affermazioni spesso fondate sul “si dice” (oggi lo si chiama “passa­parola”). A questa realtà non sfugge la Qabbalah, neppure quando –come or­mai d’uso comune – la si riduce genericamente a “mistica ebraica” (moda alla quale neppure noi ci siamo sottratti); dovendo opportunamente ricordare che la dimensione mistica appartiene più che altro all’apologetica giudaica, al Tal­mud e, per molti versi, al Chassidismo; laddove misticismo e messianismo sono solo aspetti minoritari della tradizione ebraico-cabbalistica, ancorché tra i loro rappresentanti siano annoverati, rispettivamente, personaggi come Abulafia e Sabbatai Zevi.

 

 Da questo punto di vista, si può comprendere la preoccupazione di Isacco che la Qabbalah non divenisse oggetto di chiacchiera e di curiosità1. Doven­do cercare le fondamenta del sapere nella tradizione e, più che altro, nell’in­telligenza di ciò che si riceve dal passato, Isacco ritenne che questa particolare forma di conoscenza avesse bisogno di silenzio, studio, ricerca e meditazione. Del resto, il pensiero sapienziale – e la Qabbalah non fa eccezione al riguar­do – si colloca in una prospettiva che lo porta a confrontarsi costantemente con il pensiero religioso da un lato e con il pensiero scientifico dall’altro. Del primo accoglie la dimensione del divino, del secondo condivide l’infinita lontananza che c’è tra l’uomo e Dio, nonché il punto di vista sulla ricerca e sul metodo; senza che questo significhi tralasciare quanto in precedenza ac­quisito e che costituisce il patrimonio sapienziale dell’umanità.

 

 Questo libro non è e non vuole essere un saggio tra i tanti che sulla Qab­balah si trovano in rete e nelle librerie. La sua pretesa è più modesta ma an­che più puntuale. Si rivolge innanzi tutto a chi, pur sapendo poco o nulla sull’argomento, manifesti un sincero interesse di apprendere. A cominciare dalle lettere dell’alfabeto ebraico, dalla loro grafia, dal loro valore numerico. Chi, per contro, abbia già “dissodato il terreno” può trovare, in questa lunga “chiacchierata” con la preziosa collaborazione di Massimo (si spera non nel senso che Heidegger dà alla chiacchiera), qualche utile elemento di riflessio­ne e la possibilità di misurarsi con l’Albero della vita, nel tentativo ambizioso ma benefico di iniziarne l’ascesa. Sempre in umiltà, e ricordando la lezione di Kafka quando parla di quel tale che si stupiva della facilità con cui riusciva ad avanzare lungo il cammino iniziatico, senza accorgersi che quella strada in realtà la stava percorrendo all’inverso.

 

Sergio Magaldi

 

(1) Chiacchiera e curiosità sono per Martin Heidegger le “categorie” della quoti­dianità. «La totale infondatezza della chiacchiera – annota il filosofo tedesco (Es­sere e Tempo, Utet, Torino, 1969, prg. 35, p.271) – non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma un fattore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da compren­dere». Non diversamente, egli osserva (prg. 36, p. 275) a proposito della curiosità: «La curiosità, ormai predominante, non si prende cura di vedere […] La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta […] rifugge dalla contemplazione serena, dominata com’è dall’irrequietezza e dall’ec­citazione che la spingono verso la novità e il cambiamento […]. La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente piena di meraviglia, col "Thaumazein"; non le interessa lo stupore di fronte a ciò che non si comprende, perché essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver saputo».

 

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