Sergio Magaldi, INTERVISTA SULLA
QABBALAH. 32 domande sulla mistica ebraica, MR edizioni, dicembre 2024, pp.246
Introduzione
L’idea di
scrivere qualcosa di immediatamente didascalico sui contenuti della mistica
ebraica mi lasciava perplesso. Forse ricordando la lettera che Isacco il Cieco
in pieno Medioevo aveva inviato ai rabbini di Girona, lamentando la
responsabilità dei propri scolari nel divulgare «nelle strade e nei mercati»
argomenti di studio e di meditazione che avrebbero dovuto mantenere il
naturale riserbo per non essere «profanati».
A distanza
di tanti secoli, riflettevo sul fatto che, proprio ciò su cui si rivendica
segretezza e silenzio, diventa spesso l’oggetto di cui si finisce col parlare
di più. È il caso della Qabbalah e della sua diffusione soprattutto negli
ultimi decenni del secolo scorso. Questa fortuna sembra mantenersi intatta, se
non addirittura accrescersi, anche nel XXI Secolo, ma in realtà cosa si
diffonde e si accresce?
Nella vita
di relazione gli esseri umani si scambiano di continuo idee, informazioni e
affermazioni spesso fondate sul “si dice” (oggi lo si chiama “passaparola”). A
questa realtà non sfugge la Qabbalah, neppure quando –come ormai d’uso comune
– la si riduce genericamente a “mistica ebraica” (moda alla quale neppure noi
ci siamo sottratti); dovendo opportunamente ricordare che la dimensione mistica
appartiene più che altro all’apologetica giudaica, al Talmud e, per molti
versi, al Chassidismo; laddove misticismo e messianismo sono solo aspetti minoritari
della tradizione ebraico-cabbalistica, ancorché tra i loro rappresentanti siano
annoverati, rispettivamente, personaggi come Abulafia e Sabbatai Zevi.
Da questo
punto di vista, si può comprendere la preoccupazione di Isacco che la Qabbalah
non divenisse oggetto di chiacchiera e di curiosità1. Dovendo cercare le fondamenta
del sapere nella tradizione e, più che altro, nell’intelligenza di ciò che si
riceve dal passato, Isacco ritenne che questa particolare forma di conoscenza
avesse bisogno di silenzio, studio, ricerca e meditazione. Del resto, il
pensiero sapienziale – e la Qabbalah non fa eccezione al riguardo – si colloca
in una prospettiva che lo porta a confrontarsi costantemente con il pensiero
religioso da un lato e con il pensiero scientifico dall’altro. Del primo
accoglie la dimensione del divino, del secondo condivide l’infinita lontananza
che c’è tra l’uomo e Dio, nonché il punto di vista sulla ricerca e sul metodo;
senza che questo significhi tralasciare quanto in precedenza acquisito e che
costituisce il patrimonio sapienziale dell’umanità.
Questo
libro non è e non vuole essere un saggio tra i tanti che sulla Qabbalah si
trovano in rete e nelle librerie. La sua pretesa è più modesta ma anche più
puntuale. Si rivolge innanzi tutto a chi, pur sapendo poco o nulla
sull’argomento, manifesti un sincero interesse di apprendere. A cominciare
dalle lettere dell’alfabeto ebraico, dalla loro grafia, dal loro valore
numerico. Chi, per contro, abbia già “dissodato il terreno” può trovare, in
questa lunga “chiacchierata” con la preziosa collaborazione di Massimo (si
spera non nel senso che Heidegger dà alla chiacchiera), qualche utile elemento
di riflessione e la possibilità di misurarsi con l’Albero della vita, nel
tentativo ambizioso ma benefico di iniziarne l’ascesa. Sempre in umiltà, e
ricordando la lezione di Kafka quando parla di quel tale che si stupiva della
facilità con cui riusciva ad avanzare lungo il cammino iniziatico, senza
accorgersi che quella strada in realtà la stava percorrendo all’inverso.
Sergio Magaldi
(1) Chiacchiera e curiosità sono per Martin Heidegger le “categorie”
della quotidianità. «La totale infondatezza della chiacchiera – annota il
filosofo tedesco (Essere e Tempo, Utet, Torino, 1969, prg. 35, p.271) –
non è un impedimento per la sua diffusione pubblica ma un fattore determinante.
La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna
appropriazione preliminare della cosa da comprendere». Non diversamente, egli
osserva (prg. 36, p. 275) a proposito della curiosità: «La curiosità, ormai
predominante, non si prende cura di vedere […] La curiosità è perciò
caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta
[…] rifugge dalla contemplazione serena, dominata com’è dall’irrequietezza e
dall’eccitazione che la spingono verso la novità e il cambiamento […]. La
curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente piena di
meraviglia, col "Thaumazein"; non le interessa lo stupore di fronte a ciò che non si
comprende, perché essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver
saputo».
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