venerdì 20 luglio 2012

L'IMPERMANENZA ALLA MANIERA DI SARAMAGO

La prima edizione italiana di J.Saramago, Tutti i nomi, Einaudi,Torino


 Leggere o rileggere José Saramago sulla spiaggia può apparire faticoso, ma è certamente stimolante per chi voglia riflettere sulla condizione umana. Si prendano, per esempio, romanzi come Tutti i nomi o Le intermittenze della morte [di recente pubblicati per la Universale Economica Feltrinelli]: il lettore si troverà, quasi senza accorgersene, coinvolto nel concetto fondamentale del Buddhismo filosofico e religioso: l’impermanenza. Naturalmente, il lettore balneare non ha di che preoccuparsi, perché il tema è affrontato alla maniera di Saramago, con quel tanto di ironia che il grande scrittore portoghese mette nei suoi romanzi.

 Tutti i nomi [dell’altro romanzo, Le intermittenze della morte, parlerò in un altro post] sono quelli dei vivi e dei morti che riempiono le schede della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Nomi rigorosamente separati fra loro, ma contigui e comunicanti per il flusso continuo ed irreversibile che fa affluire le schede dei vivi nell’archivio dei morti.

 Uno dei sacerdoti del rituale di passaggio è José [il solo personaggio ad avere un nome nel romanzo], scritturale ausiliario di cinquant’anni, e unico impiegato rimasto a vivere per puro caso nell’ultima casetta a due porte [l’una che dà sulla strada, l’altra che dall’interno comunica con la Conservatoria], “aggrappata” al corpo dell’edificio e lasciata dal Comune a testimonianza di un modello architettonico che prevedeva altrettante casette per tutti gli impiegati.


L'edizione dell'Universale Economica Feltrinelli (U.E.F)



  Il solo piacere che il solitario José si concede è quello di collezionare “ritagli di giornali e riviste con notizie e immagini di gente celebre”[p.20 U.E.F]. Ciò che sorprende – osserva il narratore – è che egli tenga segreta questa sua passione, giacché “Persone così, come questo Signor José, le incontriamo dovunque, occupano il proprio tempo o il tempo che credono gli avanzi della vita a raccogliere francobolli, monete, medaglie, vasi, cartoline, scatole di fiammiferi, libri, orologi, magliette sportive, autografi, pietre, pupazzetti di terracotta, lattine vuote, angioletti, cactus, libretti d’opera, accendisigari, penne, gufi, cassette di musica, bottiglie, bonsai, dipinti, boccali, pipe, obelischi di cristallo, papere di porcellana, giocattoli antichi, maschere di carnevale, probabilmente lo fanno per qualcosa che potremmo definire angoscia metafisica, forse perché non riescono a sopportare l’idea del caos come principio unico che regge l’universo, e perciò,con le loro deboli forze e senza l’aiuto divino, tentano di mettere un certo ordine nel mondo, e per un po’ di tempo ci riescono pure, ma solo finché possono difendere la propria collezione, perché quando arriva il giorno in cui questa si disperde, e quel giorno arriva sempre, o per morte o per stanchezza del collezionista, tutto ritorna all’inizio, tutto ritorna a confondersi.”[pp.19-20].

 Già, questo è forse il peccato originale del collezionismo: credere che qualcosa sia per sempre! Nell'illusione cade il collezionista, ma anche l’uomo d’affari intento a far denaro, l’uomo comune che accumula per avidità, chi si ritiene in possesso di grande sensibilità, senza accorgersi di essere sensibile solo verso se stesso, colui che giura di mantenere una promessa, l’amante che più o meno sinceramente dichiara all’altro che lo amerà per sempre: “Tutte le formazioni fisiche e mentali sono impermanenti – dichiara il Buddha – soggette alla sofferenza e prive di sostanza”. 

 Per poco che osserviamo noi stessi, siamo in grado di comprendere che l’impermanenza è costitutiva del nostro essere. La conseguenza è l’inconsistenza, l’assoluta incapacità di essere niente altro che un  essere per la morte, come sostiene Heidegger. Spesso, un grande amore o l’idea di lottare per una causa giusta può far dimenticare tutto questo, ma il disamore e la disillusione che giungono puntuali ci aiutano a comprendere che l’unica cosa che resta è soffermarci a pensare il fenomeno del sorgere  e del passare, consapevoli – come osserva ancora il Buddha – che tutte le sensazioni sono “impermanenti e composte, che sorgono per una causa e sono destinate a non durare, e per natura a passare, scomparire, cessare”.

 Compito in apparenza facile, perché tutti nella vita fanno  esperienza del cambiamento e della morte degli altri. Più difficile è accettarne le conseguenze e farne la cifra della propria esistenza. Scrive Nichiren Daishonin nel Gosho Conversazione tra un saggio e un uomo non illuminato

 “Quando improvvisamente ci troviamo di fronte all’impermanenza della vita [possiamo spaventarci al pensiero dell’ignoto e disperarci per la brevità del mondo a noi familiare], consideriamo sfortunati coloro che ci hanno preceduto nella morte, e superiori noi che siamo rimasti in vita. Presi da un impegno ieri e da un altro oggi, siamo vincolati senza scampo dai cinque desideri della nostra natura terrena. Inconsapevoli del fatto che il tempo passa veloce come un puledro bianco visto attraverso la fessura di un muro, ignari come una pecora condotta al macello, irrimediabilmente prigionieri del cibo e del vestiario, cadiamo senza accorgercene nella trappola della fama e del guadagno.”.

 Così, l’unico modo per esorcizzare il timore della morte fisica è abituarsi a cogliere l’impermanenza nei piccoli e grandi fatti della vita, nella consapevolezza che ogni sensazione, ogni sentimento, ogni volontà si trasforma costantemente e che noi sperimentiamo di continuo il passaggio dalla vita alla morte. Non è un caso che, nel romanzo, il Cimitero Generale sia adiacente alla Conservatoria e che: “Si entra nel cimitero passando per un antico edificio la cui facciata è sorella gemella di quella della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Presenta gli stessi tre gradini di pietra nera, la stessa vecchia porta nel mezzo, le stesse cinque finestre oblunghe sopra. Se non fosse per il grande portone a due battenti contiguo alla facciata principale, l’unica differenza visibile sarebbe la targhetta sopra la porta d’ingresso, anch’essa a lettere smaltate che dice Cimitero Generale.”[p.171]  

 Il motivo della segretezza della collezione di José si spiega forse con l’illusione che una notte, mentre lavora tranquillamente a casa sull’aggiornamento degli incartamenti di un vescovo, “gli avrebbe cambiato la vita”. Si tratta dell’idea per lui luminosa  di creare un archivio personale e privato con le schede dei 100 personaggi più illustri, copiandole dagli archivi grazie alla chiave, di cui non gli è  stata chiesta la restituzione, della porta comunicante della Conservatoria. Il caso vuole che, insieme alle schede di viventi celebri, finisca nelle sue mani anche la scheda di una giovane donna, una perfetta sconosciuta.

 Da quel momento ha inizio per José una ricerca ossessiva per rintracciare la donna in carne e ossa. Le motivazioni di questo spasmodico tentativo, Saramago non le rende esplicite, ma sono abbastanza riconoscibili per via di episodi non sempre fortunati e per il dialogo interiore di cui si rende protagonista lo scritturale ausiliario. La narrazione qui si fa talora kafkiana, sia per il senso di colpa che agita l’animo di José, sia per la ricerca “labirintica” e in apparenza gratuita che ricorda l’agrimensore K. sulle orme del Signore del Castello.

 La vicenda di José e il suo esito ispireranno l’animo del Conservatore: d’ora in avanti, nello schedario della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, verrà abolita la barriera esistente tra vivi e  morti


sergio magaldi

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