mercoledì 18 gennaio 2012

POTERE E DEMOCRAZIA nel film J.EDGAR di Clint Eastwood, 2011





 Il nuovo film di Clint Eastwood, dopo i successi di Gran Torino [2008] e di Invictus [2009], pone il problema inquietante dei rapporti tra Potere e Democrazia in un grande Paese come gli Stati Uniti d’America.

 Il regista porta sullo schermo la vita di John Edgar Hoover, capo del Federal Bureau of Investigation [F.B.I.] ininterrottamente per quasi cinquant’anni [1924-1972] e testimone dell’avvicendarsi di ben otto presidenti alla guida della nazione: da Calvin Coolidge, che per primo gli conferì l’incarico, a Richard Nixon che tentò inutilmente d’impossessarsi dei suoi “fascicoli” [distrutti dalla fedele segretaria Helen Gandy, interpretata da Naomi Watts], passando attraverso figure come F.D Roosevelt e J.F. Kennedy che, per motivi diversi, tanta parte hanno avuto nella storia degli U.S.A.

 Il film ha il pregio di mettere in evidenza gli aspetti positivi dell’opera di J. Edgar, con l’adozione di nuove tecnologie nell’azione investigativa [schedario delle impronte digitali, creazione di laboratori scientifici ecc…], la lotta contro il gangsterismo, il rigore e l’efficienza nel lavoro, ma anche gli aspetti negativi e francamente inquietanti soprattutto in un paese democratico: violenza, ricatti, spionaggio, dossieraggio e lotta senza quartiere nei confronti di movimenti in lotta per il riconoscimento dei diritti civili o nei confronti di personaggi anche solo sospettati di fede comunista. Il tutto nel nome di un “patriottismo” che a stento dissimula una forte ambizione personale, il disegno di sradicare sul nascere ogni forma di opposizione e la ferma volontà di garantire la sicurezza del Paese attraverso il mantenimento di privilegi consolidati.

 È vero tuttavia che il lavoro di Eastwood, nel rincorrere gli eventi di cinquant’anni, si mostri spesso “composto di una serie di situazioni slegate tra loro”, come sostiene Giuseppe D’Errico su Il GrecaleAgenzia di stampa quotidiana, ma è vero altresì che il senso del film non è tanto nella rivisitazione puntuale ed organica di una cronaca più o meno conosciuta, quanto nel cogliere la complessa personalità del protagonista, un personaggio che non esercita direttamente il potere ma ne detiene, per così dire, le chiavi per l’uso quotidiano. Si tratta insomma di capire che tipo di uomo debba essere colui che è in grado di resistere per mezzo secolo a pressioni d’ogni genere, tenendo a bada il Capo dell’Esecutivo, gli organi della rappresentanza politica e soprattutto un’opinione pubblica pilotata da un giornalismo non asservito ed efficiente, quale s’incontra spesso nei paesi di lingua e cultura anglosassone. Intanto, deve essere un uomo “rassicurante” per i poteri forti, un individuo capace di costruire senza scrupoli e tentennamenti il proprio “fortino” e al tempo stesso disposto al sacrificio della cosiddetta vita privata.

 L’identikit corrisponde in pieno a quello di J.Edgar Hoover, e l’interpretazione di Leonardo DiCaprio appare quanto mai convincente, sia nelle vesti del giovane appena assunto nel Bureau of Investigation, sia in quelle dell’anziano direttore del Federal Bureau [truccato sapientemente, per quanto a qualcuno l'attore possa apparire “goffo e imbolsito”]. 

 Il futuro direttore F.B.I. cresce con una madre autoritaria e castrante [Judy Dench] che inocula in lui la passione per la politica, intesa come scorciatoia per soddisfare le proprie ambizioni. J. Edgar l’adora, naturalmente, mentre sembra ignorare il padre costretto sulle sedia a rotelle e visibilmente relegato ad un ruolo marginale e sottomesso nell’ambito familiare. Un classico per chi voglia dimostrare che l’orientamento sessuale è un fattore acquisito, dipendente soprattutto dal rapporto che il bambino instaura con i genitori, segnatamente, per un maschio, con una madre opprimente, per un motivo o per l’altro stimolata a destituire di autorità e prestigio il ruolo paterno. Teorema di cui si avvalgono regista e sceneggiatore per spiegare la latente omosessualità del giovane J. Edgar, mai ammessa né dichiarata anche perché, per significativo paradosso, sarà proprio la madre a farla apparire al figlio come un tabù che in nessun caso può essere abbattuto. Ciò che non  impedisce, tuttavia, a J.Edgar di restare scapolo, nonostante i reiterati progetti di matrimonio, e di legarsi in amicizia sentimentale con Clyde Tolson [Armie Hammer], il vice-direttore da lui prescelto e che gli resterà accanto tutta la vita e anche dopo, dal momento che i due sono seppelliti uno accanto all’altro nel cimitero del Parlamento di Washington.

 D’altra parte, la genesi della presunta omosessualità di J. Edgar non è certo l’aspetto più interessante e qualificante del film. Eastwood, tuttavia, se ne serve per meglio far comprendere la psiche di J.Edgar e descrivere l’apparente contraddizione di un personaggio che, mentre costruisce i dossier per ricattare i potenti, utilizzando soprattutto i “vizi” inconfessabili di natura sessuale [come nel caso dell’orientamento sessuale della moglie del presidente F.D. Roosewelt], vive all’ombra di desideri ossessivi che ne disturbano, e non poco, la personalità. E questo, forse, è proprio il limite di un film che tace volutamente su altri aspetti significativi, come, per esempio, il fatto che il direttore del F.B.I. fosse stato elevato nel corso della sua carriera sino al 33° e più alto grado della Massoneria di Rito Scozzese. Silenzio che non si spiega semplicemente, con l’osservare che l’appartenenza massonica è così diffusa tra le élites degli Stati Uniti d’America da non destare particolare attenzione né curiosità. Cosa inconcepibile in  Italia, dove i media sono sempre a caccia del massone che si "annida" nelle istituzioni; del tutto naturale in un Paese  che annovera molti massoni tra i Presidenti e illustra con simboli massonici persino la banconota da un dollaro.  

 Ricostruire l’identità massonica di J.Edgar, avrebbe costretto il regista ad inseguire il filo rosso che forse conduce sino alle stanze occulte del Potere americano, quello vero, quello che consentì al direttore del F.B.I., per il bene della patria e dell’ordine stabilito, di minacciare impunemente per quasi cinquant’anni tanti Presidenti e uomini politici di primo piano e lo portò addirittura ad essere sospettato come il mandante dell’assassinio di Martin Luther King.

 Clint Eastwood non voleva o non era interessato a presentare il suo “eroe” da questa prospettiva. Più semplicemente intendeva mostrare come il comportamento di un individuo, il cui scopo è di vegliare sulla legalità e sull’ordine democratico, possa degenerare sino al punto di compromettere la fiducia stessa negli istituti della democrazia rappresentativa. Lo fa con garbo, proiettando sul personaggio luci ed ombre, col disincanto di un fanciullo – lui che ha ormai superato gli ottant’anni – che abbia appena scoperto la fragilità di un sogno.


sergio magaldi

2 commenti:

  1. ottimo contributo critico-analitico, grazie. Sono d'accordo in generale sulla sua interpretazione. Il fatto di non aver elaborato l'appartenenza, tra l'altro espressa al 33°grado, alla massoneria americana può essere davvero interpretata come una scelta del regista a non sottolineare aspetti della "norma" statunitense. In Usa, infatti, essere massoni è un fattore sociale che non procura alcuna reazione, perchè appartiene alla tradizione consuetudinaria del paese. E' anche vero, però, che questo film -proprio perchè non racconta la "modalità di esecuzione" del back office del potere- serve oggi all'America per rifondare il proprio sogno senza alterare alcun equilibrio. Il film è davvero piacevole perchè è fatto da professionisti rigorosi e bravissimi. Parlandone con un mio amico statunitense piuttosto al dentro della vicenda mi ha colpito il fatto che, pur lodandolo, lo considerava un "a Heaven American Classic production" un film prodotto dall'aldilà. Sembra, mi faceva notare, scritto prodotto e voluto dallo stesso Hoover. Il che è inquietante ma allo stesso tempo dimostrativo della grande forza americana: a differenza di noi, loro sono sempre in grado di fare delle intelligenti e sofisticate auto-critiche. Come in questo caso, il più delle volte, nascondono l'ultimo gradino. Ma beati loro! Noi, qui, non sappiamo neppure che esiste la scala...bell'articolo, complimenti!

    RispondiElimina
  2. la ringrazio per le sue parole che integrano sapientemente la mia recensione

    RispondiElimina