Paulo Coelho, Aleph, Bompiani, Milano, Settembre 2011 |
Mi ero ripromesso di non comprare né leggere più i romanzi di Paulo Coelho, poi qualcuno mi ha regalato Aleph e dopo diversi mesi ho deciso di mancare la promessa. Cosa speravo di trovarci? Forse m’incuriosiva sapere come il tanto celebrato scrittore - forse il più incredibile fenomeno letterario mai prodotto dal circuito [o circo?] editoriale e mediatico - aveva ripreso un tema caro a Jorge Luis Borges [1899-1986], il grande scrittore argentino che, all’inizio degli anni Cinquanta, raccoglieva 17 racconti brevi sotto il titolo di El Aleph, “L’Alef”, che era anche il titolo dell’ultimo dei suoi racconti.
J.L.Borges, L'Aleph, U.E. Feltrinelli, Sedicesima ed.,Milano,1989, pp.179 |
Pure, sapevo già che non avrei trovato nel libro di Coelho più di quello che avevo trovato in Lo Zahir [ben poco!], un precedente romanzo dell’autore brasiliano che prende anch’esso il nome da uno dei racconti, l’undicesimo per l’esattezza, di El Aleph di Borges [pp.101-113, ediz. citata]. Annota in proposito lo scrittore argentino:
"La credenza relativa allo Zahir è islamica […] è uno dei novantanove nomi di Dio; la gente, in terra musulmana, lo usa per ‘gli esseri e le cose che hanno la terribile virtù d’essere indimenticabili e la cui immagine finisce per rendere folli gli uomini.’" [p.109].
Lo Zahir di Coelho riprende il tema di qualcuno o di qualcosa che scompare all’improvviso senza motivo e senza lasciare tracce, ma il cui ricordo o immagine continua a danzare nella nostra mente, creando un’ossessione dalla quale è impossibile liberarsi. Il romanzo narra la storia di un famoso scrittore abbandonato senza ragioni apparenti dalla moglie, scomparsa senza neanche dire una parola. Un nuovo amore e il successo letterario non bastano a liberarlo da un’assenza e da un silenzio che continuano a tormentarlo.
"La credenza relativa allo Zahir è islamica […] è uno dei novantanove nomi di Dio; la gente, in terra musulmana, lo usa per ‘gli esseri e le cose che hanno la terribile virtù d’essere indimenticabili e la cui immagine finisce per rendere folli gli uomini.’" [p.109].
Lo Zahir di Coelho riprende il tema di qualcuno o di qualcosa che scompare all’improvviso senza motivo e senza lasciare tracce, ma il cui ricordo o immagine continua a danzare nella nostra mente, creando un’ossessione dalla quale è impossibile liberarsi. Il romanzo narra la storia di un famoso scrittore abbandonato senza ragioni apparenti dalla moglie, scomparsa senza neanche dire una parola. Un nuovo amore e il successo letterario non bastano a liberarlo da un’assenza e da un silenzio che continuano a tormentarlo.
Edizione Bompiani 2005 |
Cos’è L’Aleph per Borges? Che intende rappresentare lo scrittore con la prima lettera dell’alfabeto ebraico che, com’è noto, è il simbolo dell’unità nella totalità della manifestazione cosmica? Cosa vede, chiuso nella cantina del suo amico Carlos Argentino, che solo un attimo prima ha giudicato “folle”?
“Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.
Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta […] vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”. [pp.165-167]
Cos’è l’Aleph per Paulo Coelho? Per quanto inspiegabile, l’Aleph si distingue addirittura in “Piccolo” e “Grande”, come l’autore chiarisce a Hilal, la giovane violinista che è con lui sul treno della Transiberiana e il cui nome in turco significa “Luna nuova”:
“Come avrai capito, l’Aleph è pressoché inspiegabile. Comunque, nella Tradizione magica viene raffigurato in due modi ben distinti. Vale a dire come un punto nell’Universo che contiene tutti gli altri punti, presenti e passati, piccoli e grandi. La sua scoperta avviene per lo più in maniera casuale, com’è accaduto in treno. Perché ciò accada, la persona – o le persone – devono trovarsi nel luogo fisico in cui esso si trova. Gli adepti lo chiamano il ‘piccolo Aleph’. […] Come prima sensazione, provi una voglia incontenibile di piangere – non si tratta di un pianto di tristezza o di gioia, bensì di emozione. Sai che stai comprendendo qualcosa, sebbene non riesca a spiegarlo neppure a te stessa. […] Il secondo modo riguarda ‘il grande Aleph’.[…] Il grande Aleph è percepibile quando due persone con affinità molto rilevanti s’incontrano per caso nel piccolo Aleph […] equivalgono al polo positivo e a quello negativo di una qualsiasi batteria – e l’energia che ne deriva fa accendere la lampadina. Si trasformano nella medesima luce. Come i pianeti che si attraggono e finiscono per scontrarsi. E gli amanti che s’incontrano dopo tanto, tanto tempo. Dunque anche il grande Aleph si origina in maniera casuale, allorché due persone che il Destino ha scelto per una precisa missione s’incontrano nel luogo giusto.” [P. Coelho, Aleph, cit., pp.106-108].
E il grande Aleph, naturalmente, è quello che a Coelho interessa di più: lui e Hilal s’erano conosciuti oltre cinque secoli prima, in una precedente incarnazione, e si amavano, o meglio era soprattutto lei ad amare lui, proprio come adesso: quando lei dice di amarlo, lui le risponde che la ama a modo suo, ma che non la desidera, la ama “come un fiume” [?!]. Perché si sono nuovamente incontrati in questa incarnazione? Lui deve chiederle il perdono per ciò che avvenne tanto tempo fa, quando nella Cordova di fine Quattrocento faceva parte del Tribunale dell’Inquisizione e, pur potendo salvarla, la lasciò morire sul rogo come strega.
Il lettore non si aspetti molto altro dalla lettura di questo ennesimo romanzo di Paulo Coelho, praticamente senza trama e condito al solito di narcisismo: il viaggio promozionale, tra autografi e interviste, in compagnia degli editori, che culmina in Russia, interamente attraversata sul treno della Transiberiana, sino all’accennata udienza con Putin. E poi la solita “paccottiglia” New Age con “brevetto” incorporato per accedere alla conoscenza delle nostre precedenti incarnazioni, mediante il cosiddetto anello di fuoco, al quale dedica un intero capitolo [pp.149-156], senza tuttavia dire granché, ma sulla cui pratica – e sono le parole finali del libro – intende mettere in guardia i suoi lettori perché, osserva, “qualsiasi ritorno al passato senza un’esatta conoscenza del processo può determinare conseguenze drammatiche e disastrose”.
Più che mai, dopo la lettura di Aleph, resto convinto che Paulo Coelho abbia scritto un solo bel libro, L’Alchimista, che poi è anche il romanzo che gli ha dato fama internazionale e successo. In sole 180 pagine, nella seconda metà degli anni Ottanta, gli riuscì di raccontare in forma poetica una storia simbolica che in quel tempo era nelle aspettative di molti giovani, proprio come Paulo Coelho, delusi dall’impegno politico. Dopo di allora, qualche bella pagina in romanzi per lo più noiosi. Oggi, con i soliti temi, racconta solo se stesso.
“Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.
Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta […] vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”. [pp.165-167]
Cos’è l’Aleph per Paulo Coelho? Per quanto inspiegabile, l’Aleph si distingue addirittura in “Piccolo” e “Grande”, come l’autore chiarisce a Hilal, la giovane violinista che è con lui sul treno della Transiberiana e il cui nome in turco significa “Luna nuova”:
“Come avrai capito, l’Aleph è pressoché inspiegabile. Comunque, nella Tradizione magica viene raffigurato in due modi ben distinti. Vale a dire come un punto nell’Universo che contiene tutti gli altri punti, presenti e passati, piccoli e grandi. La sua scoperta avviene per lo più in maniera casuale, com’è accaduto in treno. Perché ciò accada, la persona – o le persone – devono trovarsi nel luogo fisico in cui esso si trova. Gli adepti lo chiamano il ‘piccolo Aleph’. […] Come prima sensazione, provi una voglia incontenibile di piangere – non si tratta di un pianto di tristezza o di gioia, bensì di emozione. Sai che stai comprendendo qualcosa, sebbene non riesca a spiegarlo neppure a te stessa. […] Il secondo modo riguarda ‘il grande Aleph’.[…] Il grande Aleph è percepibile quando due persone con affinità molto rilevanti s’incontrano per caso nel piccolo Aleph […] equivalgono al polo positivo e a quello negativo di una qualsiasi batteria – e l’energia che ne deriva fa accendere la lampadina. Si trasformano nella medesima luce. Come i pianeti che si attraggono e finiscono per scontrarsi. E gli amanti che s’incontrano dopo tanto, tanto tempo. Dunque anche il grande Aleph si origina in maniera casuale, allorché due persone che il Destino ha scelto per una precisa missione s’incontrano nel luogo giusto.” [P. Coelho, Aleph, cit., pp.106-108].
E il grande Aleph, naturalmente, è quello che a Coelho interessa di più: lui e Hilal s’erano conosciuti oltre cinque secoli prima, in una precedente incarnazione, e si amavano, o meglio era soprattutto lei ad amare lui, proprio come adesso: quando lei dice di amarlo, lui le risponde che la ama a modo suo, ma che non la desidera, la ama “come un fiume” [?!]. Perché si sono nuovamente incontrati in questa incarnazione? Lui deve chiederle il perdono per ciò che avvenne tanto tempo fa, quando nella Cordova di fine Quattrocento faceva parte del Tribunale dell’Inquisizione e, pur potendo salvarla, la lasciò morire sul rogo come strega.
Il lettore non si aspetti molto altro dalla lettura di questo ennesimo romanzo di Paulo Coelho, praticamente senza trama e condito al solito di narcisismo: il viaggio promozionale, tra autografi e interviste, in compagnia degli editori, che culmina in Russia, interamente attraversata sul treno della Transiberiana, sino all’accennata udienza con Putin. E poi la solita “paccottiglia” New Age con “brevetto” incorporato per accedere alla conoscenza delle nostre precedenti incarnazioni, mediante il cosiddetto anello di fuoco, al quale dedica un intero capitolo [pp.149-156], senza tuttavia dire granché, ma sulla cui pratica – e sono le parole finali del libro – intende mettere in guardia i suoi lettori perché, osserva, “qualsiasi ritorno al passato senza un’esatta conoscenza del processo può determinare conseguenze drammatiche e disastrose”.
Più che mai, dopo la lettura di Aleph, resto convinto che Paulo Coelho abbia scritto un solo bel libro, L’Alchimista, che poi è anche il romanzo che gli ha dato fama internazionale e successo. In sole 180 pagine, nella seconda metà degli anni Ottanta, gli riuscì di raccontare in forma poetica una storia simbolica che in quel tempo era nelle aspettative di molti giovani, proprio come Paulo Coelho, delusi dall’impegno politico. Dopo di allora, qualche bella pagina in romanzi per lo più noiosi. Oggi, con i soliti temi, racconta solo se stesso.
Edizione Bompiani, 1995 |
sergio magaldi
l'aleph di Borges stupendo. Di Cohello, piu che l'alchimista, mi è piaciuto Il cammino di Santiago.
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