Pensavo che il regista nella
commedia dell’arte della politica italiana contasse poco, che si limitasse a
prendere atto delle battute improvvisate degli attori e soprattutto, dei
suggerimenti dei grandi capo-comici tedeschi, travestiti da europei. E invece
non è stato così. Spogliatosi dei panni di Grande Notaio della Repubblica
Italiana e di Fiduciario dell’Eurogermania - con i quali aveva imposto agli
smarriti interpreti italioti,il super-canovaccio della maschera filoteutonica
di Rigor Montis - il regista naturale della commedia all’italiana, con tre
significativi gesti, sembra aver ripreso saldamente in mano la direzione dello
spettacolo.
Il primo gesto è stato “il gran rifiuto” ad incontrare il leader
socialdemocratico tedesco che aveva offeso gli italiani per le loro scelte
elettorali. Il secondo, quello di ribadire la separatezza del potere
giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, ma anche il fondamentale
assunto che l’investimento popolare non rappresenta in nessun caso un
salvacondotto per operare extra legem o peggio ancora contra legem.
Recita in proposito, tra l’altro, il comunicato del presidente Napolitano:
“[…] ho indicato nel "più severo controllo di
legalità un imperativo assoluto per la salute della Repubblica" da cui
nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell'investitura popolare ricevuta.
Con eguale fermezza ho sollecitato il rispetto di rigorose norme di
comportamento da parte di "quanti sono chiamati a indagare e giudicare",
guardandosi dall'attribuirsi missioni improprie e osservando scrupolosamente i
principi del "giusto processo" sanciti fin dal 1999 nell'art. 111
della Costituzione con particolare attenzione per le garanzie da riconoscere
alla difesa”.
Con altrettanta fermezza e abilità
dialettica, il capo dello stato respinge come “inammissibile” il sospetto che
si voglia far fuori “per via giudiziaria” il leader di un partito politico di
rilevanza nazionale:
“[…]E'
comprensibile la preoccupazione dello schieramento che è risultato secondo, a
breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio, di veder garantito
che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase
politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda
metà del prossimo mese di aprile. Non è da prendersi nemmeno in considerazione
l'aberrante ipotesi di manovre tendenti a mettere fuori giuoco - "per via
giudiziaria" come con inammissibile sospetto si tende ad affermare - uno
dei protagonisti del confronto democratico e parlamentare nazionale”.
La sostanziale proposta che in questa
delicata fase della vita politica e per circa un mese i tamburi della
magistratura si facciano più silenziosi nei confronti del Cavaliere non è solo
una pretesa istituzionale e giuridica. Prescindendo dal fatto che i tribunali
hanno il sacrosanto diritto-dovere di pronunciarsi, in tempi ragionevoli, circa
l’innocenza o la colpevolezza di qualsiasi imputato, resta la non indifferente
questione di dover avviare le complesse procedure per la formazione di un
governo, nello momento stesso in cui il leader del PDL fosse condannato o
addirittura arrestato.
I tanti critici del comunicato di Napolitano
dovrebbero riflettere che una simile eventualità - come pure quella che il nuovo
Parlamento si pronunci sull’ineleggibilità di Berlusconi sulla base di una
norma del 1957 [!] - nell’ipotesi sempre più accredidata di nuove elezioni a
breve termine, finirebbe con molta probabilità per assegnare la vittoria al
centro-destra. E allora? Ha ragione chi osserva che, in tale prospettiva, il
cavaliere finisca sempre col sottrarsi al giudizio: quando è al governo, in campagna
elettorale e anche dopo? Sì e no. Sì, perché
nei fatti la complessa questione sembra avvitarsi su se stessa e trascinarsi
per le lunghe. No, perché nel frattempo sono arrivate alcune sentenze anche se
non definitive e soprattutto perché è ormai certo che l’ossessione che perdura
in molti nei confronti di Berlusconi non fa che aumentarne il potere!
Il terzo gesto significativo di Napolitano,
forse il più convincente per l’opinione pubblica, è stato quello di aver
bloccato le ambizioni di chi, “per non marcire”, aveva chiesto di fare il
presidente del Senato.
Monti si era presentato come un Cincinnato,
ma si era subito capito che non lo era, pretendendo l’elezione a senatore a
vita per presiedere un governo filotedesco di supertecnici che avrebbe salvato
l’Italia e che invece l’ha sospinta sempre più sull’orlo del baratro. Di più lo
si è capito quando, in luogo di tornare ad arare il proprio campicello e magari
la vigna tedesca, Monti s’è presentato agli elettori come se nulla fosse,
chiamandosi fuori dalle tante responsabilità: per non aver fatto nessuna della
riforme annunciate, aumentato recessione e disoccupazione e potendo rivendicare
soltanto, grazie al sacrificio dei soliti noti, l’abbassamento dello spread.
Merito quest’ultimo non trascurabile, certamente, ma più di Draghi che suo e
gli elettori l’hanno capito con il modesto consenso con cui l’hanno congedato
forse definitivamente dalla vita politica. Per rientrare nel “grande gioco”, se
Napolitano non l’avesse fermato, non avrebbe esitato a mollare la presidenza
del consiglio dei ministri di un governo che non ha i pieni poteri ma che ha
ancora il dovere di svolgere una funzione importante in Italia e in Europa.
Forse ha ragione lui: nel nostro Paese, Monti
non sa più che fare dopo aver “spremuto” tutto quello che c’era da spremere dai
lavoratori e dalla borghesia piccola e media, e in Europa sembra finita per lui
l’epoca in cui la Merkel lo prendeva a braccetto, mentre ora lo saluta appena
per lasciarselo frettolosamente alle spalle… O forse ha ragione Tremonti [sì,
proprio quello che s’era fatto garante della solidità delle nostre banche!] nel
definirlo, magari pensando a se stesso, “un bicchiere di talento in un oceano
di presunzione”. Comunque sia, Monti prenda spunto da Napolitano che rifiuta
una rielezione certa, magari persino sbagliando in un momento come questo, non
per l’età avanzata o perché la Costituzione lo vieti, ma semplicemente per
evitare il precedente pericoloso di un settennato che si trasformi in
quattordici anni di potere ininterrotto.
Resta da dire qualcosa sui protagonisti della
commedia all’italiana. Bersani e i suoi sostenitori del Partito Democratico
sembrano intenzionati ad andare avanti, in parte sperando che si ripeta la
scena che ha consentito l’elezione di Grasso alla presidenza del Senato, in
parte auspicando che Napolitano conferisca comunque al leader del PD la nomina
per formare un governo e non un pre-incarico o peggio ancora un mandato
esplorativo. E si capisce perché: Bersani resterebbe in carica durante la
successiva campagna elettorale imputando al Movimento Cinque Stelle la mancata
realizzazione dell’ormai famoso programma degli 8 punti, con l’evidente calcolo
di recuperare il voto di quanti, più o meno provvisoriamente, hanno voltato le
spalle al PD per scegliere il M5S. Calcolo errato a mio giudizio, ancorché di
parte e poco preoccupato delle sorti del Paese. Infatti, se è probabile che, in
mancanza di un governo che ottenga la fiducia alle Camere, il M5S veda calare i
propri consensi, è più probabile che questo avvenga da destra [vedi i tanti
piccoli imprenditori del nord-est che nelle recenti elezioni hanno mollato Lega
e PD con la elle], mentre da sinistra potrebbe addirittura vederli crescere,
considerando la differenza qualitativa che intercorre tra gli 8 Punti generici e timidi di Bersani e i 20 Punti chiari e determinati di
Beppe Grillo e anche in virtù dell’uscita recente del movimento circa la necessità
di rivalutare Marx.
In una prospettiva del genere, la vittoria
andrebbe quasi sicuramente a Berlusconi che, anche con questa legge elettorale
potrebbe raggiungere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, con o
senza l’aiuto dei centristi, molti dei quali, sempre più spaventati dai
grillini, già in sede elettorale lascerebbero Monti per votare PDL. Tanto
varrebbe allora per Bersani e i suoi appoggiare il governo del M5S proposto al
capo dello stato dalla delegazione del movimento. Cosa impensabile persino per
i “giovani turchi”, perché farebbe cadere il disegno di recuperare consensi
riprendendoli al M5S e porterebbe a spaccare un partito a malapena incollato
tra amici e compagni.
La
strategia di Berlusconi è altrettanto chiara: solo il “governissimo” con il PD
lo salverebbe dall’estromissione dalla vita politica offrendogli, almeno per
ora, un efficace salvacondotto, oppure elezioni a Giugno o al più tardi ad
Ottobre prima che il tribunale si pronunci definitivamente [sentenza prevista per
la fine dell’anno] sul primo dei tanti
processi contro di lui. E se il PD ha in mente di recuperare parte del proprio
elettorato “ prestato” al M5S, sventolando in campagna elettorale le
responsabilità di un movimento che vuole uscire dall’euro [ma è davvero così? O
non chiede più semplicemente ai cittadini di pronunciarsi in merito?] e che non
ha voluto sostenere gli 8 punti, panacea di tutti i mali della politica
italiana e delle sue trasversali ruberie, il partito di Berlusconi e dei
superstiti della Lega potrà sempre rimproverare al PD di aver fatto fallire la
possibilità di dare un governo all’Italia, suscitando nel Paese l’immagine,
neppure nuova, di una sinistra impotente e prigioniera dell’estremismo
anti-sistema. Con la prospettiva del risultato di cui si diceva sopra: recupero
di parte di quei 6 milioni di voti che forse fisiologicamente gli appartengono, provenienti dagli astenuti, dai
grillini di destra e da centristi pentiti e spaventati.
Mutatis mutandis, il calcolo del PD con la elle somiglia
tanto a quello del PD senza elle. Dietro la comune facciata del bene
dell’Italia, mascherano l’interesse di fazione e/o l’interesse personale. In
tale prospettiva si può dar torto al Movimento Cinque stelle che non vuole
saperne di allearsi con nessuno dei due? Non con il PD che lo vuole a sostegno
del governo unicamente per “vampirizzarlo”, non con il PDL , con il quale
paradossalmente, sulla carta e per il momento, ha almeno più punti [5] in
comune [abolizione dell’IMU, soppressione del finanziamento della politica,
dimezzamento dello stipendio dei parlamentari, soccorso della piccola e media
industria e scetticismo sull’euro], di quanti ne abbia con il PD, ma dal quale
è distante anni luce per visione della società, per la faccia impresentabile del
leader e di gran parte dei dei suoi dirigenti, per la vocazione camaleontica
che da sempre condiziona le scelte del PDL in funzione del potere.
Con questi attori, ai quali si affiancherà presto un nuovo regista
[per questo ruolo si continua a parlare dei Prodi, degli Amato, persino dei
Pisanu e dei Letta: è davvero incredibile!], c’è da pensare che la commedia
dell’arte della politica italiana si trasformi ben presto in farsa preludendo
alla tragedia. A meno che, il regista ancora in carica non compia un quarto
significativo gesto: dettare un nuovo canovaccio affidandolo ad interpreti
d’eccezione. Per uscire di metafora, un governo delle personalità [ma per
carità non si facciano i nomi già apparsi nei giorni scorsi sulla carta
stampata!], competenti o addirittura illustri nel proprio campo e che, senza
essere tecnocrati o politici di mestiere, siano capaci innanzi tutto di trovare
un minimo comune denominatore tra i punti indicati dai partiti e in un secondo
momento tentino addirittura la strada delle grandi riforme di cui in Italia si
continua inutilmente a parlare almeno dalla caduta del fascismo.
sergio magaldi
Condivisibile alla grande!
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