Dalle elezioni politiche di
Febbraio non si è fatto che parlare di Beppe Grillo e del Movimento Cinque
Stelle. Timore e stupore per l’incredibile risultato elettorale. Tentativo di
esorcizzare il fenomeno, convincendo i grillini ad appoggiare il governo.
Bersani, lo stratega designato per la difficile missione. Più tardi, Grillo è stato attaccato per essersi “chiamato
fuori” da ogni alleanza con il PD. Ma di quale alleanza si trattava?
Sin dal giorno successivo alle elezioni, il
segretario del Partito Democratico dichiarò di non voler “aprire tavoli” con
altri partiti, grillini compresi. Chiese solo con estremo candore che il suo
governo di minoranza, col famoso e fumoso programma degli 8 punti, passasse in
Senato grazie ai voti di M5S. Strategia ribadita anche di recente dall’ex
segretario a Ballarò: mai e poi mai c’era stata in lui l’idea di aprire
trattative dirette con il Movimento per un governo di coalizione né, meno che
mai, in quei giorni, gli era venuto in mente di offrire posti di governo a
Beppe Grillo.
Pure, sia a sinistra, sia tra i simpatizzanti
del Movimento, si era già scatenata la platea delle recriminazioni contro Beppe
Grillo, reo di aver perso l’opportunità di emarginare il centro-destra,
decretando la fine politica di Berlusconi. Anch’io in quei giorni parlai di
“occasione storica”, forse irripetibile nell’immediato futuro [vedi il post: La grande opportunità all’indomani del voto],
con ciò intendendo la formazione di un governo di coalizione PD-SEL-M5S per
risolvere i gravi problemi del Paese, non certo un appoggio esterno di M5S al
governo degli 8 Punti e/o un governo contro qualcuno.
C’è tuttavia, da sinistra, chi continua a
sostenere che, anche in quelle condizioni, un sostegno dei grillini al governo
avrebbe quantomeno determinato la definitiva sconfitta del “nemico pubblico
numero 1”, il cavalier Berlusconi. E sussiste ancora, persino all’interno del
Movimento, nella Rete e tra gli elettori M5S di Febbraio, l’idea che se la
cosiddetta proposta del Partito Democratico fosse stata accolta, molte cose
sarebbero cambiate. Equivoco che non è mai stato chiarito abbastanza e che
cecità politica da una parte e opportunismo politico dall’altra, continuano ad
alimentare.
Cosa avrebbe ottenuto il movimento di Beppe
Grillo permettendo al governo Bersani di nascere? Meno di niente. Nel programma
mancavano persino la soppressione dell’IMU sulla prima casa – considerata a
sinistra alla stregua di una misura a favore dei ricchi – la fine del
finanziamento pubblico dei partiti, l’assunzione di una presa di posizione
risoluta contro l’attuale politica europea. E il Movimento avrebbe dovuto
sostenerlo?! Preparando di fatto la futura vittoria elettorale del
centro-destra?
Il governo Bersani sarebbe stato un governo
non diverso da quello attuale del neodemocristiano Enrico Letta: un esecutivo
servile con l’Europa e con i poteri forti, rispettoso delle corporazioni e dei
privilegi, esattore delle tasse e vigile notaio del rigore e della recessione
economica. Un governo simile, e diretto persino con minore abilità di chi, se
non altro, ha nel DNA la tradizione di un partito che ha dominato la scena
politica italiana per cinquant’anni. Perché del dire e non dire, del fare e non
fare, del semplificare per complicare, dell’inerzia “operosa”, i democristiani
di sempre sono maestri insuperabili. Come dimostra anche il cosiddetto “decreto
del fare”, varato in gran fretta nel fine settimana dal governo Letta. Un
palliativo: l’equivalente del somministrare aspirine a un moribondo.
Quali fin qui i provvedimenti significativi
del governo? L’unico, forse, il rinvio [non l’abolizione!] della famigerata
tassa sulla prima casa, voluto fortemente dal PDL, nel pianto accorato della
sinistra che avrebbe preferito impiegare quei soldi per il mondo del lavoro!
Per fare che? L’istituzione degli ateliers nationaux di ottocentesca memoria?! Si
fa finta di non capire che, per rilanciare l’economia e creare nuovi posti di
lavoro, occorre rendere le imprese, sin qui sopravvissute, capaci di competere
nel mercato globalizzato. Perché questo sia possibile è necessario un
cambiamento radicale della politica europea, con la fine di un regime che ha
fatto in breve tempo di Eurogermania un paese ricco a spese del resto o di
quasi tutto il resto del continente. E si fa finta di non capire che il rigore
va applicato, ma solo nell’amputare una volta per tutte le mostruose
articolazioni di questo infelice Paese: nel combattere davvero e non a parole
gli sprechi, le spese improduttive, gli enti inutili, i tanti privilegi
corporativi e la corruzione, nel riformare seriamente l’ordine giudiziario,
nell’abbattere stipendi, liquidazioni e pensioni di politici e dirigenti
pubblici e privati, nel gettare le basi di una riforma fiscale per
ridistribuire le risorse e far aumentare i consumi.
Per la verità, in questo senso, il governo
Letta s’è mosso: la parziale abolizione del finanziamento dei partiti a regime
nel 2017! In perfetto stile democristiano, l’annuncio “rivoluzionario” è stato
dato alla vigilia delle elezioni amministrative. Nessuna nuova invece sul
fronte della lotta all’evasione fiscale, che pure qualche anno fa lo stesso
Letta vagheggiava: incrocio delle fatture e detrazioni fiscali per i cittadini
sulla maggior parte di beni e servizi. Una vera e propria riforma del fisco sul
modello tedesco e americano. Parole in libertà che l’attuale Presidente del
Consiglio usò allora a beneficio di “Porta a Porta”.
Il secondo
attacco a Beppe Grillo – nel quale si
sono esercitati i sacerdoti della democrazia, i maghi della politica e una
buona fetta di opinione pubblica che esigeva di portare immediatamente
all’incasso il voto dato al M5S – occupa il periodo di transizione che va dalle
elezioni politiche di Febbraio alle elezioni amministrative di Maggio e di
Giugno. Si è rimproverato il Movimento di occuparsi di questioni futili, come
la discussione sugli scontrini delle spese sostenute dai parlamentari e la
riduzione degli stipendi, e di non conoscere al proprio interno un’autentica
vita democratica, come quella praticata [!] negli altri partiti.
Sacerdoti, maghi, stampa e opinione pubblica
sembravano essersi dimenticati che Beppe Grillo stava combattendo una battaglia
di sostanza e una di principio. Di
sostanza, perché proprio dalla mancata presentazione di scontrini
giustificativi nasce la vergognosa appropriazione di risorse comuni a vantaggio
della partitocrazia, con la punta di diamante di alcuni tesorieri di partito
che hanno arraffato in proprio decine e decine di milioni di euro. Di principio, perché con quelle
discussioni si voleva dare un esempio di alterità
rispetto a quanto avviene di solito in Italia quando si maneggia denaro
pubblico. Quanto alla democrazia interna, occorre riconoscere un certo
accentramento decisionale di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio. Che
questo sia motivo di scandalo è pane per gli ingenui e per i demagoghi che non
capiscono o fanno finta di non capire la portata della sfida lanciata da Grillo
e Casaleggio.
Un’autentica rivoluzione che cambia il
tradizionale modo di fare politica e di reclutare i quadri dirigenti. L’idea di
creare le premesse di una gestione del potere da parte dei cittadini, contro
una casta rapace e capace solo di riprodurre se stessa all’infinito, senza
curarsi minimamente del bene comune. Non tanto un esercizio di democrazia
diretta, come impropriamente è stato detto, quanto la nascita di un sistema
alternativo di proporre il consenso e di governare. La Rete non è
rivoluzionaria in sé e tuttavia rende possibile “l’immaginazione al potere”, perché
moltiplica le occasioni d’incontro, di scontro e di confronto tra i cittadini.
Insomma, la Rete è solo uno strumento, ma senza uno strumento come la Rete, la
rivoluzione della politica sarebbe
ancora confinata nel mondo platonico delle idee. Questa rivoluzione è ormai in
marcia, né sarà più possibile ricacciarla indietro.
In tale prospettiva, è facile comprendere che
i cittadini eletti in Parlamento e reclutati tramite la Rete rappresentino ad
un tempo il nuovo che avanza e il vecchio che tarda a morire. In questo senso,
dice giustamente Grillo, il Movimento non è né di destra né di sinistra, perché
si viene formando con una logica altra e diversa da quella che indirizzava il
consenso secondo le ideologie politiche. Cos’è di destra? Cos’è di sinistra?
Oggi stentiamo a rispondere e se proprio dobbiamo farlo, ci tocca utilizzare
gli argomenti sacrosanti del passato
o quelli di un presente che non ha ancora compreso l’unico messaggio veramente
rivoluzionario di Karl Marx: la storia non conosce la cristallizzazione delle
strutture e delle sovrastrutture dominanti, è bensì la rivoluzione permanente
delle forme che la società crea e continuamente distrugge.
Grillo e Casaleggio hanno avuto il merito di
capire che la Rete era lo strumento sociale che serviva al cittadino per
appropiarsi finalmente della polis,
contro il vecchio modo di far politica. Contro radio e televisione, utilizzate
ancora oggi come fabbriche del consenso o del dissenso teleguidato da solerti
conduttori di talk-show, superpagati con denaro pubblico. Gli eletti
cittadini di Cinque Stelle non sono migliori degli altri perché nascono dalla
Rete. A differenza degli altri, tuttavia, e con le contraddizioni che sono
proprie di tutti gli individui, secondo formazione e capacità acquisite, devono
almeno capire di essere i pioneri di una rivoluzione annunciata che li rende
diversi e al tempo stesso intercambiabili rispetto agli eletti cresciuti nelle
scuole di partito e dei nati all’ombra del corporativismo e del nepotismo della
politica. Ciò non significa, naturalmente, che non debbano avere idee e/o che
il loro ruolo debba essere quello di marionette addestrate. Significa però che
le idee, se ne hanno, debbono manifestarle nel confronto con gli altri e anche
nello scontro con i capi storici del Movimento, alla condizione, com’è lecito
in ogni democrazia, di rimettersi alle decisioni della maggioranza o di
andarsene.
Il terzo
e complessivo attacco politico-mediatico contro Beppe Grillo è attualmente
in corso, dopo i risultati deludenti di M5S nelle elezioni amministrative. Come
avviene di solito, i tanti che erano saliti sul carro o che in buona fede erano
stati invitati a salire, scendono in gran fretta, chi era in procinto di salire
ci ripensa e parla, rattristato, dell’inconveniente rappresentato dai “partiti
personali”. Pippo Baudo annuncia di conoscere bene Beppe Grillo, e di sapere
che l’attore comico si è già stancato di un impegno che non lo ripaga più.
Nell’opinione pubblica si rilancia la parabola dell’Uomo qualunque, creato da Guglielmo Giannini nel dopoguerra, aduso
alla satira contro gli avversari politici. Ferruccio Parri venne ribattezzato
“Fessuccio”, Calamandrei fu chiamato “Caccamandrei”, Salvatorelli,
“Servitorelli” e così via. Accusato di filofascismo, in realtà l’Uomo Qualunque di Giannini fu un
movimento anti-partito che si batteva per uno Stato più “leggero”, facendo leva
sul malcontento e sulle miserie di un popolo appena uscito da una guerra
disastrosa. Nel 1946, appena costituito, UQ
raccolse, nella sorpresa generale, circa un milione e duecentomila voti,
con una percentuale pari al 5,27% di consensi e 30 seggi All’Assemlea
Costituente. Un anno dopo, 14 deputati si scissero dal gruppo per dar vita ad
un altro raggruppamento. Nelle elezioni del 1948 L’ Uomo Qualunque ottenne solo 19 deputati e 10 senatori, qualche mese
dopo si sciolse. Le similitudini col Movimento Cinque Stelle sembrano tante, ma
tali sono solo per i più sprovveduti. Anche numericamente i fenomeni non sono
confrontabili. Pure, escono da Cinque Stelle due parlamentari tarantini, mentre
un terzo accusa Grillo di aver fatto perdere voti al Movimento con i suoi post. E c’è sempre la questione dei
grillini che non vogliono rinunciare neppure ad un euro dei soldi guadagnati
tanto faticosamente, prima, lavorando duramente al Pc, poi sedendo sulle
scomode poltrone del Parlamento. E si evoca la “democrazia interna”,
l’elaborazione di uno statuto per non dover rinunciare al finanziamento
pubblico, la costituzione di un gruppo autonomo per rinverdire le speranze di
Bersani ad un governo alternativo a quello delle “larghe intese” o, come dice
Renzi, delle “lunghe attese”.
Usciranno gli ex-grillini? In venti, in
trenta? Il Movimento Cinque Stelle non avrà che da trarne profitto. Il
reclutamento tramite la Rete, dicevo sopra, “pesca” insieme il nuovo che avanza
e il vecchio che tarda a morire. E allora, il vecchio, se c’è, che se ne vada e
che muoia, metaforicamente s’intende! La reazione politico-mediatica a Beppe
Grillo gioisce, mentre il Partito Democratico si sente forte della recente
vittoria nelle elezioni amministrative. Ma il PD, per quanto voglia essere
simile alla DC, non è la DC. Ha vinto dove gli antichi insediamenti
catto-comunisti resistono tenaci, ha vinto in un’elezione dove è sempre bene
votare per l’amico o per l’amico di un amico. Ha vinto per mancanza di
avversari. Ha vinto in circostanze in cui meno della metà della popolazione s’è
recata alle urne.
Che il PD “condivida” il potere esecutivo con
l’odiato Berlusconi o promuova finalmente il cosiddetto governo del
cambiamento, grazie ai fuoriusciti di Cinque Stelle, la politica italiana non
cambierà di una virgola, perché non la si decide a Roma ma a Francoforte
nell’Eurogermania. Le ragioni che hanno permesso al Movimento Cinque Stelle di
raccogliere oltre il 25% del consenso degli italiani saranno le stesse quando
si voterà di nuovo, c’è solo da augurarsi, per il bene di tutti, che le
condizioni del nostro Paese non siano nel frattempo ulteriolmente peggiorate.
sergio
magaldi