Treno di notte per Lisbona, film di Bille August, Svizzera, Portogallo, Germania, 2013, 111 minuti |
Un anziano professore
di Berna sottrae al suicidio una giovane donna, mentre sta per gettarsi da un
ponte. La conduce con sé a lezione, ma la ragazza fugge via, dimenticando un
giubbetto rosso e un libretto nel cui interno è custodito un biglietto del
treno per Lisbona. Il professore si precipita in stazione, ma della ragazza
nessuna traccia, mentre il treno per la città lusitana è in procinto di
partire. All’ultimo momento, il professore balza sul treno e, manco a dirlo, si
mette a leggere “Un orafo delle parole” di tale Amadeu de Almeida Prado, il
libretto in portoghese dimenticato dalla ragazza.
Questo più o meno il “prologo” del film che
il regista danese Bille August trae dal romanzo di Pascal Mercier [pseudonimo
dello scrittore svizzero Peter Bieri]. Raimund Gregorius è il nome del
professore interpretato da Jeremy Irons, l’anziano attore dotato di “fascino
polveroso”, come sottolinea Natalia Aspesi su Repubblica. Lui è il
protagonista del film ed è sempre lui che si lascia incantare dalle riflessioni
contenute nel libretto, anche perché lo spettatore ci riesce meno. Così, il
professore, giunto nella bellissima Lisbona, quasi dimentico di cercare la
misteriosa ragazza alla quale ha salvato la vita – nell’eco delle parole
“preziose” contenute nel famoso libretto – si mette sulle tracce di Amadeu de
Almeida Prado, sino a portare alla luce un episodio della resistenza portoghese
contro il fascismo.
Siamo negli anni che precedono La
rivoluzione dei garofani, sotto la dittatura di Salazar e l’azione della
famigerata PIDE [Pólicia Internacional e de Defesa do Estato],
il regime che proseguirà anche dopo la morte del dittatore, con il governo di
Marcelo Caetano, sino al 25 Aprile del 1974, quando l’ala progressista dei
militari proclamerà la liberazione senza spargimento di sangue e la radio
portoghese, alla mezzanotte dello stesso giorno, farà risuonare le note di Grândola
vila morena del cantore antifascista Josè “Zeca” Alfonso. Ripropongo il
brano di seguito ma, per voluto paradosso, nella versione di Amália Rodrigues,
regina incontrastata del fado portoghese durante la dittatura, costretta
all’esilio dopo “La rivoluzione dei garofani” perché ritenuta simbolo
[incolpevole] del regime di Salazar, più tardi riabilitata sino alla
proclamazione di tre giorni di lutto nazionale in occasione della morte,
avvenuta nel 1999. Artista di inimitabile bravura, Amália Rodrigues, sia quando
canta Uma casa portuguesa, in pieno regime fascista, sia quando
ripropone Grândola vila morena, simbolo canoro dell’unica rivoluzione
della storia avvenuta senza violenza.
Nell’affannosa ricerca di Amadeu [Jack
Huston],il professore scopre ben presto che l’autore del libretto faceva
parte di una cellula antifascista, insieme ad altri intellettuali, tra i quali
erano anche il suo grande amico Jorge [August Diehl] e la bella
Estefania [Mélanie Laurent]. Ma proprio quando l’azione sembra farsi più
interessante, viene da chiedersi se il film, così come del resto il libro, si
proponga di narrare la resistenza portoghese al fascismo o se questa sia solo
un pretesto per raccontare una storia d’amore. La seconda ipotesi sembra la più
convincente, perché, ad un certo punto, nel film non si parla più di lotta
antifascista, ma di un amore “proibito” che si consuma rapidamente, senza che
il pubblico ne risulti coinvolto emotivamente.
La “grande” passione per l’uomo che Estefania
ha voluto con tutta se stessa, si spegnerà incredibilmente nelle parole
pronunciate da lei per liberarsene: “Non posso darti quello che
vuoi perché il tuo è un viaggio dell’anima che non è la mia…” e altre sublimi banalità dette
naturalmente proprio nel momento in cui l’uomo è più innamorato di lei.
Affermazioni solenni che significano soltanto che la donna che lo ha tanto
cercato e infine ha vinto le comprensibili resistenze di lui, non lo ama più o
non l’ha mai amato veramente e che lui è stato solo un capriccio nella sua
vita.
“Polpettonissimo” come lo giudica Natalia
Aspesi o film che parte bene, ma che poi “si trasforma in una fiction
anacronistica infarcita di fastidiose riflessioni ad alta voce”, come scrive
Maurizio Acerbi su Il Giornale? Forse né l’uno né l’altro. Il vero
problema è che una storia che appare intrigante e che avrebbe tutti gli
ingredienti per esserlo, finisce col restare incompiuta come momento di civile
passione e ancor più come racconto di un amore impossibile. Entrambe le vicende
sono servite “fredde” ad uno spettatore che, date le premesse, si sarebbe
aspettato molto di più.
sergio magaldi
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