Paolo Sorrentino, La grande bellezza, film, Roma , 2013 |
Circa due ore e mezzo tra balli,
canti e immagini stupende di statue, monumenti, palazzi e paesaggi di una Roma
deserta, nell'intento di far rivivere la città di Federico Fellini. Ma il
tentativo non ha fortuna: tra “ragazze” cinquantenni che mostrano corpi nudi
senza suscitare desiderio, attori falliti [spiace per il poco spazio assegnato
ad un grande come Carlo Verdone], attricette in cerca di gloria che
passano con disinvoltura dalla velleità di recitare a quella di scrivere,
erotomani, cocainomani, illusionisti del trucco per ridare la giovinezza a 700
euro per la visita di qualche minuto, principi che si affittano per le feste
dei nuovi ricchi – presumibilmente bottegai, politici e membri delle
corporazioni – bambine prodigio che imbrattano tele di gran prezzo, cifra non
sempre spiegabile del successo nel nostro tempo, e ancora: macchiette di
cardinali, suore e suorine che accudiscono bambini e raccolgono arance e
persino una santa che alterna momenti mistico-magici a stati vegetativi, una folla di
disadattati della vita che cerca invano di esorcizzare la vecchiaia e la morte,
e una pennellata di plebe passata maldestramente sullo schermo con l’eco delle
cosiddette parolacce della tradizione romanesca.
Unico film italiano presente a Cannes,
l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino, ma senza
ottenere riconoscimenti ufficiali. Si dice con apprezzamento della
stampa straniera, ma con scarso elogio di quella italiana, più disincantata di
fronte all’affresco che, Jep Gambardella, giornalista e scrittore napoletano,
trapiantato a Roma da quarant’anni, tenta di fare di una “grande bellezza”.
Perché la Roma di Sorrentino è bella, ma fredda e cinica come un’amante
senz’anima che riguardi con indifferenza la turba improvvisata dei suoi tanti
improbabili e decrepiti amanti. La Roma di Fellini è fieramente plebea, così
come mostrano le inimitabili sequenze del film dedicato alla “città eterna” nel
1972:
La Roma di Fellini è scanzonatamente
papalina, come nella celebre Sfilata di moda ecclesiastica, video già
riportato su questo blog [vedi il post Luciano Luciani uomo ballerino coreografo artista], per mostrare un artista, interprete delle “Variazioni sacristianesche per cerimonie di prima classe” nel film di Fellini.
La Roma di Fellini, benché mostri con La
Dolce vita del 1960 i segni di una decadenza inesorabile e le rughe di
un’aristocrazia impegnata nel difendersi dalla noia, si mostra amante partecipe
e pietosa, mai indifferente. Ma il tempo è passato tra la Roma vista con gli
occhi di un giovane aspirante scrittore, stupendamente interpretato da Marcello
Mastroianni, e quella che lo scrittore di un solo romanzo, un Toni
Servillo altrettanto bravo, giunto ormai in età avanzata, descrive nelle
sue “passeggiate”. Il primo vive nel caos esistenziale la speranza del proprio
tempo, nel nuovo che avanza, con il boom economico degli anni Sessanta, ma
anche lasciando intravedere la deriva del “mostro” che inesorabilmente si
annuncia. Nel finale del film, con la folla che si accalca attorno al cadavere
della bestia, ma anche nelle parole che una sorridente e giovanissima
Valeria Ciangottini cerca inutilmente
di far ascoltare a Marcello.
Jep Gambardella pretende di cavalcare “il
mostro”, la Roma degli anni Duemila, ma il monologo moraleggiante e talora
banale non raggiunge mai la coscienza se non per un messaggio individualistico
che lascia spazio solo alla vecchiaia e alla morte. E la speranza-avvertimento
che Valeria lascia immaginare nel linguaggio muto del finale della Dolce
Vita si risolve nel finale della Grande Bellezza, con il volto
sorridente di una giovane donna che rappresenta il ricordo dolce e consolatorio
del primo amore. Forse l’argomento per il secondo romanzo di Jep
Gambardella. E proprio in questo consiste il limite del film di Sorrentino:
“Aver voluto imitare il gigantesco Fellini” [come scrive Hollywood Reporter],
quasi scena dopo scena, persino il Fellini della Città delle donne, dove
alla inquietante galleria femminile e all’emblematico Snaporaz si
sostituiscono un anonimo personaggio, sbucato dal nulla di una narrazione senza
trama, e la sua galleria di foto fatte giorno dopo giorno dall’infanzia alla
maturità. Anche qui segno del funereo e del cimiteriale contrapposto
all’archetipo vitale e composito dell’eterno femminino rappresentato nella Città delle
donne.
A poco serve aver riempito il film di musiche sacre e profane,
talora di pregevole ascolto, talora solo riempitive e assordanti tra un
monologo e un finto dialogo. Intendiamoci, il lavoro di Sorrentino ha un
impianto costruito a regola d’arte, ma non decolla perché, pur nella bellezza
delle immagini di una Roma, vegliata dai sette colli e cullata dal Tevere,
lascia a terra la “zavorra” umana di in una città indifferente alle vicende
umane, come un dio aristotelico.
Qualcosa di più delle “cartoline illustrate”
della Roma di un grande maestro del cinema come Woody Allen [vedi il post: L’omaggio di Woody Allen all’Italia che fu, nel film To Rome with love], meno,
irrimediabilmente meno, della Roma felliniana. Ma il film di Sorrentino merita
ugualmente di essere visto. Anche perché "la dolce vita" se ne va per tutti, come in Vacanze romane, il vecchio e sempre bel canto dei Matia Bazar.
sergio magaldi
sergio magaldi
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