Ferdinando Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia, Newton Compton Editori, Roma, 2013, pp.310 |
L’ennesima ricostruzione degli ultimi giorni
di Aldo Moro appare in questi giorni in libreria con il libro di Ferdinando
Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, per Newton Compton
Editori. Che c’è di nuovo rispetto a quanto, colui che tra il 1978 e il 1984 fu
il giudice istruttore del processo Moro, scriveva in Doveva Morire,
pubblicato qualche anno fa per le edizioni di Chiarelettere?
La risposta è già nella Prefazione [pp.7-12]
di Antonio Esposito, presidente di sezione della Corte di Cassazione.
Emergerebbero prove difficilmente confutabili circa “clamorose inadempienze e scandalose
omissioni da parte degli apparati dello Stato” che pur essendo a conoscenza del luogo di detenzione di Aldo Moro,
nulla fecero per salvargli la vita. Prove basate su testimonianze oculari,
ancorché tardive – aggiungerei – come
spesso avviene in Italia per fatti e misfatti del genere. Del resto, osserva
Esposito, qualcosa di simile era già vagheggiato in Doveva morire, che
riportava le dichiarazioni di Steve Pieczenik, braccio destro di Kissinger e
figura di spicco del Comitato di crisi, durante i 55 giorni del sequestro dello
statista democristiano:
“Sono
stato io,lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato
alla morte di Aldo Moro, allo scopo di stabilizzare la situazione italiana. Le
Brigate rosse avrebbero potuto rilasciare Aldo Moro e così avrebbero senza
dubbio conquistato un grande successo, aumentando la loro legittimità. Al
contrario, io sono riuscito con la mia strategia, a creare una unanime
repulsione contro questo gruppo di terroristi […] La trappola era che loro
dovevano uccidere Aldo Moro. Loro pensavano che io avrei fatto di tutto per
salvare la vita di Moro, mentre ciò che è accaduto è esattamente il contrario.
Io li ho abbindolati a tal punto che a loro non restava altro che uccidere il
prigioniero”[pp.8-9].
Dal canto suo, nell’Introduzione
[pp.13-23], Ferdinando Imposimato ribadisce una tesi già nota: aver egli
creduto per trent’anni alla esclusiva responsabilità delle BR, nel rapimento e
nell’uccisione di Moro, e ancor più “alla
necessità giuridica e morale della linea della fermezza imposta dal governo
contro i ricatti dei brigatisti”.
Com’è noto la cosiddetta linea della
fermezza, in quella vicenda, era sostenuta da gran parte della Democrazia
Cristiana e da tutto il Partito Comunista. E se ne comprendono facilmente le
ragioni: la DC era legata a doppio filo con le sue alleanze internazionali e il
PCI non avrebbe potuto tollerare una qualsiasi trattativa con un partito armato
alla propria sinistra. La DC scontava trent’anni di vassallaggio suo e dello
Stato italiano e il PCI la sua nuova politica filoeuropea e anti-Unione
Sovietica. Per la linea della trattativa si schierò invece il Partito
socialista di Bettino Craxi, non per umana pietà e/o realismo politico, come si
cercò di far credere, ma unicamente – almeno stando alle recenti e candide dichiarazioni dell’ex-ministro Gianni De
Michelis a “Porta a Porta” – per ragioni di opportunità legate all’incipiente
compromesso storico tra cattolici e comunisti che avrebbe escluso il PSI dal
potere. Con il paradosso, comprensibile solo in politica, che i socialisti,
adottando una tattica completamente opposta a quella della fermezza,
perseguirono la medesima strategia di chi, in campo nazionale e internazionale,
non voleva il compromesso storico e cercava di impedirlo con ogni mezzo. Per
contro, i comunisti, i più intransigenti nel respingere ogni trattativa con le
BR, finirono col lasciare Moro alla sua triste sorte, con lui sacrificando la
linea politica adottata da Enrico Berlinguer e che proprio nel leader
democristiano aveva trovato il suo unico, reale e credibile interlocutore. Non
a caso, dopo l’appoggio del PCI al governo monocolore di Andreotti, che simulava,
proprio nei giorni del rapimento di Moro, una timida espressione del "compromesso storico", il PCI fu estromesso nuovamente e definitivamente dal
potere, a cominciare dal quinto governo Andreotti dell’agosto del ’78 [a pochi
mesi dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro], per proseguire con i due
governi Cossiga. Non a caso i due uomini politici della DC, Andreotti e
Cossiga, fra i più determinati, insieme ai dirigenti del PCI, nella linea della
fermezza. Bisognerà attendere altri governi [12 in tutto, dopo i primi 3], la
caduta del muro di Berlino [9 Novembre 1989] e più di 4 anni prima che
l’ex-PCI, divenuto PDS, si riaffacci nella “stanza dei bottoni”, col governo Ciampi
del 10 Maggio 1994.
Proseguendo nelle sue analisi, Imposimato – con una digressione
che induce a riflettere sulla semi-sovranità dell’Italia dalla Liberazione
in poi e che per ragioni molteplici perdura tutt’oggi, senza neppure le
sacrosante ragioni di ieri [il pericolo reale che il nostro Paese divenisse una
“democrazia popolare”, satellite dell’Unione Sovietica] – espone la tesi che “Il
tragico destino di Aldo Moro non inizia il 16 Marzo 1978, con il sequestro di
via Fani, ma quindici anni prima, con l’arrivo in Italia , nel luglio 1963, di
John Fitzgerald Kennedy”.[p.25].
Come Aldo Moro, il presidente americano condivideva la necessità
di aprire le frontiere del governo italiano alle forze progressiste, anche nella
strategia di dividere il Partito socialista da quello comunista, ancora
filosovietico. Esattamente un anno dopo la visita di Kennedy, nel Luglio del
1964, nasce in Italia il primo governo Moro di centro-sinistra, con il PSI che
era ancora considerato da molti, sia in Italia che in USA, un partito
socialcomunista. Scrive Imposimato nel I capitolo del libro, denominato
“L’antefatto”[pp.25-62]:
“Il presidente
americano era un convinto sostenitore del leader democristiano e della sua
politica di dialogo coi socialcomunisti contro il parere dei conservatori
statunitensi e dei grandi petrolieri. Questo sguardo comune ai due statisti
verso le nuove frontiere dell’occidente li avrebbe condotti a divenire bersagli
degli stessi nemici, tra America e Italia […]” [p.25].
Benché Kennedy avesse dato prova di fermezza e di
forza nel combattere il comunismo sovietico, come per esempio nel caso dei
missili di Cuba che alla fine di Ottobre del 1962 Chruščëv fu costretto a ritirare dall’isola, molti dei
suoi avversari guardavano con diffidenza al dialogo con le forze progressiste
dell’Occidente e con il comunismo internazionale. Personalmente, tuttavia, non
credo troppo alla tesi di Imposimato, non credo cioè che Kennedy fu assassinato
per questo motivo o almeno non soltanto per questo. Per quanto l’ex-giudice si
sforzi di farlo credere riferendo di un colloquio privato con un agente CIA,
dal nome in codice di Louis, avvenuto a distanza di qualche anno dalla morte di
Aldo Moro:
“[…]Un giorno Louis mi
confidò:’La morte di Moro è stato un bene per l’Italia e gli Stati Uniti. Non
era amato né da Kissinger, né dagli americani […] Moro, come Kennedy, dialogava
troppo con i comunisti […] I russi sono pericolosi in tutto il mondo. Ci hanno
portato il comunismo in casa. A Cuba. Tutta l’America Latina è diventata una
polveriera, piena d’odio per gli americani, gli yankees! Se fosse stato
rieletto, Kennedy sarebbe stato una rovina per l’America”[pp.28-29].
Convinto che l’assassinio di Kennedy si spieghi
con il dialogo da lui ricercato con il comunismo, Imposimato si getta poi a
capofitto nella individuazione dei probabili mandanti che – come vedremo – gli torneranno buoni anche nel caso di Moro. Lo statista cattolico, dopo 14 anni
di governo con il PSI, aveva pensato che era venuto il momento di non tenere
più fuori dalla porta il partito comunista di Enrico Berlinguer, forte del 34%
dei voti, divenuto europeista e filoatlantico, nonché fortemente critico
dell’Unione Sovietica. Tanto da non sembrare un incidente quello che il 3 Ottobre del 1973 capitò al segretario
del PCI, in visita ufficiale a Sofia, allorché la vettura in cui
viaggiava fu investita da un camion militare, con la morte di tre passeggeri,
tra cui due dissidenti del Partito Comunista Bulgaro. Uscito miracolosamente
illeso, di ritorno a Roma, Berlinguer raccontò ad Emanuele Macaluso – il quale
ne riferì solo 18 anni più tardi in un’intervista a “Panorama”, secondo la
“buona” tradizione italiana di cui si diceva sopra – che, con ogni probabilità,
“L’incidente” era stato organizzato dal KGB e dai servizi segreti bulgari.
Scrive Imposimato [p.41] a proposito dei
probabili mandanti dell’assassinio di Kennedy: “[…]Ma a confermare che
nell’assassinio di Kennedy la Libera Muratoria aveva svolto un ruolo è stato
Aldo Mola [Storia della Massoneria Italiana, Bompiani, Milano, 1992], il
maggiore storico della massoneria al mondo, che sostenne pubblicamente: ‘Alla
Gran Loggia Nazionale Francese […] si sottoscriveva la dichiarazione resa dal
fratello Warren, quello che con il massone Hoover, già capo dell’FBI [Vedi il
post Potere e Democrazia nel film J.Edgar di Clint Eastwood], concorse a
seppellire l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy a Dallas sotto le migliaia di
pagine […] “Mi è stato domandato se l’appartenenza al Partito comunista
comporti una condotta antimassonica:la mia risposta è sì!”, disse Warren. Ciò
significava che l’appartenenza alla grande fratellanza giustificava un’azione
preventiva contro l’avanzata del totalitarismo dell’URSS e dei suoi alleati in
Occidente, tra cui l’Italia’ [A.Mola, cit.,p.723]”.
Insomma, conclude Imposimato, il massone Edgar
Hoover, capo dell’FBI, affossò l’inchiesta parlamentare sull’assassinio del
presidente Kennedy. A conferma dei presunti e perenni “intrighi massonici”
nella storia americana e non solo, egli cita [p.45] anche il più recente
Cossiga [F.Cossiga con A.Cangini, Fotti
il potere, Aliberti, Roma, 2010]: “Cossiga affermava che ‘la gente
non sa che la P2 è stata inventata dagli Stati Uniti, Paese in cui l’influenza
degli illuminati è rappresentata dalla simbologia massonica emblematicamente sulle banconote da un
dollaro’ e che ‘dei quarantaquattro presidenti che si sono
succeduti alla Casa Bianca, solo tre non erano massoni; due di loro, Mc Kinley
e Kennedy, furono ammazzati, mentre il terzo fu costretto alle dimissioni.
Quanto a Obama, se finirà ammazzato vuol dire che non era massone’.”
Se conservo forti dubbi circa i motivi che,
a giudizio di Imposimato, posero tragicamente fine alla vita di Kennedy, minore
perplessità suscita in me l’idea che il destino di Moro sia stato deciso dalla
sua politica lungimirante, l’unica ormai possibile in un Paese in cui la
democrazia dell’alternanza era vietata dal persistere della “guerra fredda”
e che continuava ad escludere dalle scelte di governo le classi popolari e gli
intellettuali della nazione, con il risultato che le differenze sociali tra i
cittadini s’ingigantivano, le corporazioni si consolidavano e la corruzione
pubblica dilagava, preparando putroppo l’Italia che oggi conosciamo. In questo
e a modo suo, Moro fu un grande, “un pioniere” che pagò con la vita ciò che
nessun altro politico italiano del suo tempo seppe intuire, neppure Berlinguer,
che lanciò la politica del compromesso storico ma sacrificò, per calcoli
di bottega che alla fine si dimostrarono errati, l’unico leader cattolico col
quale avrebbe potuto realizzarlo, nulla comprendendo veramente di ciò che stava
avvenendo in Italia e/o facendo finta di credere che dietro i brigatisti armati
ci fossero… solo le brigate rosse!
Osserva ancora Imposimato che, dopo la morte
di Kennedy e con la presidenza Nixon, la campagna americana contro Aldo Moro si
fece più aggressiva. Tanto che Kissinger, riferendosi alla politica italiana
dei primi anni Settanta, lamentava che il sostegno che Kennedy aveva dato alla
politica italiana del centro-sinistra, in luogo di isolare i comunisti, li
aveva resi più forti. E che Aldo Moro tendeva sempre più a togliere potere ai
socialisti per darlo ai comunisti. Da queste premesse, l’ex-giudice istruttore
del processo Moro trae la conclusione che Gladio, P2, servizi segreti deviati e
quant’altro non fossero estranei al rapimento del leader democristiano.
Entrando nel vivo degli avvenimenti che
precedettero il sequestro di Moro e poi nei 55 ultimi giorni della sua
prigionia, Imposimato analizza le varie “piste”, le stesse che in tanti anni di
“inutile” ricerca della verità furono perseguite dai vari inquirenti o che
risultarono supposizioni della carta stampata, attraverso libri e giornali. Il
lettore ha come l’impressione che tutti
i più importanti servizi segreti del mondo, e non solo, fossero al corrente del
prossimo rapimento di Moro, come dimostra anche l’annuncio del sequestro dato
da un giornalista di Radio Città Futura alle 8:30 del 16 Marzo 1978, mezz’ora
prima che accadesse il fatto e nel tentativo di scongiurarlo [p.147]. E sembra
che in molti conoscessero perfettamente l’unico luogo della detenzione dello
statista, sito all’interno 1 di via Montalcini 8, e non già in via Gradoli,
come i media continuarono ad affermare per lungo tratto, dopo il
ritrovamento del cadavere. Tant’è che l’appartamento sopra quello del
sequestrato fu adibito a centro di “ascolto e registrazione delle conversazioni
che avvenivano in prigione” [p.191]. Questi sembrano i fatti nuovi che emergono
dal lavoro di Imposimato, frutto di testimonianze oculari, ancorché tardive, di
due militari, di cui l’ex-giudice fornisce nome e cognome. E insieme a questi,
l’episodio non meno inquietante e drammatico, secondo il quale, alla vigilia
dell’esecuzione di Aldo Moro, fu annullato “l’intervento di un commando di otto
persone appartenenti al GIS dei carabinieri” [p.207], guidato dal generale
Dalla Chiesa [p.255] e pronto per liberare il prigioniero. L’ordine di
annullamento del previsto intervento, secondo le citate testimonianze, “era
arrivata dal Ministero dell’Interno” [p.207], con grave sgomento dei militari e
degli stessi rappresentanti dei servizi segreti internazionali presenti nel
centro d’ascolto istituito nell’appartamento soprastante l’alloggio “segreto”
del prigioniero [p.195].
Di seguito, si riportano le pp. 290 e 291
delle “Conclusioni” contenute nel libro, nelle quali l’autore si pone la
domanda se siano vere le considerazioni adombrate da Cossiga [allora ministro
dell’Interno, mentre Andreotti era presidente del Consiglio del monocolore
democristiano appoggiato dal PCI. A puro titolo informativo, Cossiga fu eletto
Presidente della repubblica 7 anni dopo la morte di Aldo Moro e nominò
Andreotti senatore a vita “per meriti in campo sociale e letterario”, un anno
prima della fine del suo mandato] circa la limitata sovranità dell’Italia
rispetto alla gestione del caso Moro. E la risposta appare più che dubitativa:
le dichiarazioni di Steve Pieczenik, rappresentante del governo americano nel
Comitato di crisi e di cui si è già parlato sopra, sembrano mettere in dubbio
le affermazioni circa la sovranità limitata dell’Italia durante i giorni del
sequestro Moro. Per quanto incline alla linea della fermezza, Steve Pieczenik
“sapeva che il suo compito era di cercare di salvare l’ostaggio, senza cedere
alla pressione dei terroristi, mantenendo una flessibilità tattica e facendo
leva sull’aspetto umanitario della questione”[p.291]. In conclusione, afferma
Imposimato, “Non c’erano state ragioni di Stato internazionali nella scelta
finale del mancato intervento” per liberare Aldo Moro [p.292].
Concludendo, per quanto nel libro di
Imposimato compaiano fatti e presunti misfatti già noti agli inquirenti e
all’opinione pubblica, per quanto sia arduo per il lettore districarsi tra le
tante “piste” che s’intrecciano continuamente tra loro quasi per escludersi a
vicenda, resta il merito dell’autore di aver ricostruito pazientemente la drammatica
vicenda di Aldo Moro alla luce di nuove testimonianze che certamente non
compete al lettore di avvalorare, ma che sottolineano ancora una volta il ruolo
e il valore della libera informazione.
sergio
magaldi
Lungi dal volermi cimentare in interpretazioni basate praticamente su questa unica fonte (lo sto leggendo proprio adesso) per un caso ENORME, però posso dire che dopo averne letto in due giornate quasi 3/4 "a naso" delle varie ricostruzioni direi che lo hanno rapito e ucciso i servizi segreti russi attraverso il legame KGB-Stasi-Raf-BR .Poteva essere liberato dalla CIA e da Cossiga, se solo avessero voluto, ma il timore di un'Italia filo russa o di un pci filo atlantico (a seconda dei punti di vista) portarono al "lasciamolo ammazzare".
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