Asghar Farhadi, Il Passato, Francia 2013, 130 minuti |
Con Una Separazione,
premiato con quattro riconoscimenti [miglior film e montaggio, migliore regia e
sceneggiatura] alla sesta edizione degli Asian Film Awards e candidato
all’Oscar 2012 per il miglior film straniero [vedi il post TABU’RELIGIOSI MASCHILISMO E POTERE], il regista iraniano Asghar Farhadi poneva la
questione della crisi della famiglia, all’interno di una società piena di
contraddizioni e governata da un regime che soffoca la libertà di pensiero, non
lascia intravedere un futuro per le giovani generazioni e impone ai coniugi la
separazione consensuale come unica soluzione allo scioglimento del matrimonio.
La critica politica, per comprensibili ragioni di censura, era solo abbozzata
ma non per questo meno evidente in diverse sequenze del film: dalle scene che
mostrano i paradossi della fede, al colloquio in tribunale tra Simin [Leila
Hatami] e un giudice nascosto dalla macchina da presa ma determinato a
ribadire gli angusti valori della società iraniana. E persino nelle menzogne,
nei compromessi, nei pregiudizi e nella violenza dei protagonisti della
vicenda, soprattutto se maschi, Asghar Farhadi adombra le contraddizioni
sociali di cui il regime si rende
responsabile.
L’inizio del film è di grande effetto: Marie [Bérénice
Bejo] e Ahmad [Ali Mosaffa], coniugi separati, si parlano e si
sorridono nel rivedersi, divisi da una vetrata che impedisce loro di sentire
ciò che stanno dicendo. Ahmad è giunto all’aeroporto direttamente da Teheran e
sua moglie è andata a prenderlo con un’auto che si scoprirà presto essere
quella del suo nuovo compagno. Ahmad torna a Parigi dopo quattro anni, da
quando ha lasciato la famiglia, a seguito di una depressione causata dal vivere
in una società non adatta a lui, come più tardi gli ricorda un connazionale che
gestisce un ristorante a Parigi. È tornato per apporre la sua firma sull’atto
di scioglimento del matrimonio ma anche nel desiderio di rivedere Lucie [Pauline
Burlet] e Léa [Jeanne Jestin],
le figlie, l’una adolescente, l’altra bambina, che Marie ha avuto da
precedenti nozze e alle quali si sente particolarmente legato. Per la sola
firma, infatti, avrebbe potuto benissimo farsi rappresentare.
Lo spettatore ha come l’impressione che,
nonostante le premesse, forse qualcosa può ancora accadere tra Marie e Ahmad,
se i due riuscissero a rompere il velo dell’incomprensione. L’illusione sembra
cadere quando entra in scena Samir [Tahar
Rahim], il magrebino titolare di una tintoria, dal quale Marie aspetta un
figlio e che sposerà non appena egli resterà vedovo della moglie che è
all’ospedale in coma profondo. Sospettiamo inoltre, ma il regista volutamente
non approfondisce il discorso, che forse alla base della “fuga” di Ahmad ci sia anche una delusione provocata da sua
moglie. Per amore? Sembra piuttosto per l’incapacità di comprendere la sua crisi.
Una donna molto determinata, Marie, consapevole dei propri diritti, ma anche
con molti “appetiti” e un robusto egoismo, come ce la presenta la figlia Lucie,
rimasta molto legata ad Ahmad e sempre in crisi con la madre di cui non
condivide le scelte amorose e soprattutto il progetto di sposare Samir che a
sua volta ha un figlio.
E Lucie e Fouad [Elyes Aguis], il
figlio piccolo di Samir, rappresentano agli occhi del regista iraniano, il
riscontro della crisi di valori della società occidentale. Il disagio,
l’aggressività, la reazione talora crudele, il pentimento e il rimorso di un
bambino e di un’adolescente ormai quasi donna, rappresentano il costo che le
giovani generazioni di entrambi i sessi sono destinate a pagare nell’illusione
– sembra voler dire Asghar Farhadi – della libertà.
Sia che si tratti di una società oppressa come
quella iraniana, sia che si tratti di una società in cui le libertà individuali
siano garantite, il risultato non cambia. Anzi – e qui non si può non
risconoscere un’involuzione nel messaggio di Farhadi che farà piacere ai
governanti del suo Paese – nella
gestione dell’universo familiare, l’Europa è addirittura peggiore del Medio
Oriente. Ahmad, a Teheran si è ripreso dalla depressione, e nel tornare a
Parigi si comporta saggiamente. L’unico a saper ancora parlare a Lucie, Léa e
Fouad, il solo capace di comprenderne le esigenze vitali e affettive.
Insomma, sembra voler concludere Asghar
Farhadi, la società in cui viviamo sarà pure responsabile delle nostre azioni,
ma solo perché non siamo capaci di lavorare a fondo su noi stessi,
affrancandoci dai tabù che sono propri della natura umana [i ben noti idola
tribus, specus, fori e theatri di Francesco Bacone]. Discorso elitario
finché si vuole, ma non privo di qualche fondamento. È sintomatico che, in
entrambi i film, a commettere, sia pure senza volerlo, i danni più gravi e
spesso fatali, siano donne in cui la semplicità della condizione esalta la
forza del pregiudizio: Razieh [Sareh Bayat], la badante del padre di
Nader [Peyman Moadi] in Una Separazione, Naïma [Sabrina Quazani], la lavorante di
Samir, in Il Passato.
sergio magaldi