Richard Curtis, Questione di Tempo, 123 minuti, USA, 2013
Persino ovvio ricordare che il tempo è il metronomo della
realtà e che il tentativo di isolarlo, per poterlo manipolare anche per un
istante infinitesimale, è fantasia di poeti, la magia impossibile del Faust di
Ghoete [… Fermati, attimo, sei bello!...].
Eppure, come già osservava Jean Paul Sartre in L’imaginaire, si danno almeno due modalità in cui il tempo
non si identifica necessariamente con il reale: il tempo della dimensione
onirica e quello dell’immaginazione.
Lo spazio e il
tempo del sogno e dell’immagine, infatti, ubbidiscono a leggi che nulla hanno a
che vedere con quelle della comune percezione. Direi non a caso, perché
Immanuel Kant sta lì a ricordarci che spazio e tempo non sono entità
metafisiche ma forme pure a priori
della nostra esperienza e della nostra sensibilità. Se, tuttavia, nulla o poco
possiamo fare per influire sul tempo di un sogno [benché ci sia chi conceda al
sognatore esperto questa
possibilità], nell’immaginazione possiamo intervenire, viaggiando a piacimento
tra le ekstasi temporali di passato, presente e futuro, e provando ad
immaginare per noi stessi un destino diverso da quello posto in essere dalle scelte
passate.
Sören Kierkegaard,
il padre dell’esistenzialismo, ha parlato di angoscia legata alla scelta. Perché,
nel momento in cui scegliamo, escludiamo per ciò stesso ogni altra possibile realtà, ma ciò a cui
deliberatamente voltiamo le spalle [un’opportunità mancata, un amore
sacrificato, la buona azione non fatta ecc…], può reclamare il proprio diritto
di esistere come possibilità non
realizzata e rimpianta.
Il cinema, che per
definizione è arte dell’immagine, ha più volte tentato questa strada, mostrando
come il tempo sia la via maestra per comprendere
il nostro destino. Non si vuole dire, con ciò, che About Time [proposto in questi giorni sugli schermi italiani con il
titolo poco appropriato di Questione di
tempo], il film del regista e sceneggiatore inglese Richard Curtis, si proponga
come un déjà vu o manchi di
originalità. Innanzi tutto perché qui, più che “manipolare” il tempo, si tratta
di “emendarlo” delle scelte precipitose o poco consapevoli che hanno generato
gli eventi negativi. Poi, perché questo “aggiustamento” si limita al passato
individuale più o meno recente, non riguarda il futuro - proprio perché il
futuro è il frutto delle scelte passate - e non è ottenuto, per così dire,
grazie all’azione di una bacchetta magica ma con le regole della prudenza, intesa come la virtù
dianoetica del discernimento, e della bontà,
vista come Pietas dei Romani o Yetzer tov [inclinazione buona] degli
Ebrei.
Questione di tempo è una piacevole
commedia montata su tre registri: c’è l’amore che naturalmente per essere tale
deve essere romantico, esattamente come nel film di Curtis di dieci anni fa: Love actually [“L’amore davvero”]: dieci
storie d’amore di cui la più romantica e originale è quella che unisce uno
scrittore ad un’umile ragazza portoghese molto più giovane di lui.
La storia d’amore
tra Tim [Domhnall Gleeson] e Mary [Rachel McAdams] introduce al secondo
registro della narrazione che è appunto la questione del tempo: Tim viene messo
a parte da suo padre [un inappuntabile BillNighy] di un segreto: il dono che i
maschi della famiglia hanno,
attraverso un rituale peraltro molto sbrigativo, di tornare su un evento del
proprio passato per poterlo modificare. D'altra parte, se il dono fosse appartenuto anche alle femmine, Curtis avrebbe dovuto cancellare un pezzo non poco significativo della sua storia! Il generoso intervento di Tim a favore di
Harry - il commediografo amico dei suoi genitori [Tom Hollander] - per evitargli il flop di una pièce causato
dal blocco mentale di un attore, fa svanire la conoscenza della ragazza che
Tim ritiene essere l’amore della sua vita: il giovane, infatti, non può trovarsi
contemporaneamente a teatro, dove s’è prodotto il “guasto da emendare”, e nel
luogo [peraltro alquanto particolare e sul cui significato molto ci sarebbe da
dire] in cui ha conosciuto Mary.
L’ironia, spesso
presente nei film di Richard Curtis [inventore del personaggio di Mister Bean o regista di film come Quattro matrimoni e un funerale], si avverte meno in Questione di
tempo, allorché per esempio si sente risuonare la celebre canzone di Jimmy
Fontana: Il mondo. Non solo perché il
cantante è scomparso di recente, ma soprattutto perché lo spettatore si è forse
già avventurato nei ricordi personali e per un istante si è illuso di poter
tornare sul proprio passato, magari per modificare le vicende di un amore
sfortunato e ancora rimpianto. Le parole della canzone di Jimmy Fontana: “ …Nel tuo silenzio io mi perdo e sono niente
accanto a te. Il mondo non si è fermato mai un momento…” , gli lasciano
poche speranze e non certo la voglia di sorridere.
Il terzo registro è
utilizzato da Richard Curtis per l’ultima parte del film che è anche la più
debole e la meno interessante. Il tempo e l’amore non sono più visti nella
prospettiva di una vita vissuta all’insegna della bellezza, della fantasia e
della continua scoperta di se stessi, ma nella consolatoria accettazione della
normalità borghese, in cui diventa facile rinunciare ad un amore o sacrificare
il dono ricevuto di intervenire sul tempo, in cambio della facoltà concessa a
tutti di poter riguardare ogni giorno, anche quello più triste o pesante, con
l’occhio dell’innamorato della vita in quanto tale.
Nell’insieme, una
commedia ben riuscita e un film da non perdere.
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