venerdì 21 marzo 2014

BASTERA' AMMAZZARE IL GATTOPARDO?




 Basterà ammazzare il Gattopardo per cambiare l’Italia? Ne dubito. Perché il Gattopardo figlia di continuo: nelle istituzioni, nella pubblica amministrazione, nei luoghi di lavoro, nell’imprenditoria, nelle banche, nei sindacati, nelle corporazioni, nelle televisioni, nei giornali e su internet, nei partiti politici di governo e di opposizione, nell’opinione pubblica, ovunque.

 Alan Friedman, il giornalista anglosassone che - dice Travaglio - parla come Stanlio e Olio e che ha utilizzato l’imperativo [Ammazziamo il Gattopardo, appunto] per il titolo del suo ultimo libro, sembra oscillare tra due posizioni. Per un verso identifica il Gattopardo con la classe dirigente e allora diventa più facile averlo nel mirino, per altro verso pare riconoscere che gli italiani non siano poi così diversi dai loro dirigenti. Scrive: “Spesso i leader sono lo specchio di un popolo e in questo caso  si tratta di un popolo di conservatori invischiato con una classe  politica di conservatori…” [p.38].

 La distinzione non è di poco conto, ma Friedman se la lascia subito alle spalle, rivolgendo la sua attenzione al Gattopardo inteso come simbolo del Potere esercitato in Italia da governi e partiti politici. Un sistema che ha dismesso da tempo la forma umana per assumere quello della fiera. Capace persino di autocritica e costretto a fingere di cambiare pur di mantenere se stesso: “Dobbiamo affrontare questo Gattopardo figlio di una cultura conservatrice e della cultura democristiana, ma non solo, e sbarazzarci di queste vecchie abitudini, di questi vecchi demoni, dobbiamo aprire la mente, sgombrare la strada verso il futuro […]. Dobbiamo ammazzare il Gattopardo. Farlo secco. Punto.” [pp.13-14]

 La conseguenza di tale semplificazione porta di necessità Alan Friedman a porsi una serie di interrogativi sul perché della decadenza italiana, mentre occorrerebbe innanzi tutto prendere atto che sono i privilegi acquisiti a foraggiare i tanti gattopardi sparsi per l’Italia, a impedire qualsiasi reale cambiamento: “Come mai non riusciamo a fare dei salti importanti, delle riforme vere? Per il debito alto? Perché ci sono pochi soldi disponibili? A causa dell’attaccamento alla poltrona da parte dei politici? Per il tiro alla fune tra le forze di innovazione e rottamazione della politica e quelle dello spirito democristiano, ugualmente tenaci? Per la mediocrità  di una gran parte della classe dirigente del Paese? Per il fallimento di un’intera classe dirigente, come dice Matteo Renzi?” [p.24]

 Molto di quello che Friedman  scrive è sensato. Anche se il suo libro, uscito da appena un mese, è ricordato dalla stampa soprattutto per il capitolo dedicato al “piano del presidente” [cap.3, pp.41-78], in cui si “svela”, col supporto di significative interviste, il ruolo avuto dal presidente Napolitano nel preparare l’ascesa di Monti, diversi mesi prima che Berlusconi fosse costretto alle dimissioni. Episodio utilizzato nei circuiti mediatici da interpreti diversi e con duplice significato: per mostrare il cosiddetto complottismo del Presidente e per spiegare l’abbandono di Letta al suo destino, con l’avvento di Matteo Renzi.

 Ben più interessanti sono invece altre pagine contenute nel terzo capitolo del libro e in quelle che lo precedono. Per esempio, con l’analisi di chi favorì l’indebitamento pubblico che oggi sfiora il 133 per cento del PIL e impedisce all’Italia – come fu consentito alla Germania e attualmente alla Francia e alla Spagna – di sforare il rapporto del 3% debito-PIL per avere denaro fresco da immettere nel sistema produttivo e combattere la recessione.

 “[…] È che non abbiamo davvero capito che cosa significava entrare nell’euro. L’Italia era troppo abituata ad aggiustare i suoi conti con l’estero attraverso le svalutazioni – scrive Friedman riportando le parole di Giuliano Amato, salvo poi osservare giustamente: “Comunque lo si consideri – un grande statista o un craxiano che si è salvato politicamente abbandonando Craxi al momento giusto – , proprio Amato ha vissuto da protagonista gli anni della crescita più mostruosa del debito nazionale. E contava. Lui stesso ricorda come nel corso degli anni Ottanta il debito subì un’impennata clamorosa che lo portò dal 60 al 100 per cento del PIL. Proprio quando lui fu sottosegretario a Palazzo Chigi con Craxi premier (1983-1987) e poi fu nominato  ministro del Tesoro (1987-1989). E anche nel 1992-1993, quando divenne primo ministro, il debito salì del 10 per cento in un solo anno.” [p.32].

 Di non minore interesse, le analisi sul fallimento delle norme proposte da Monti per liberalizzare il Paese: “Tutto il pacchetto di norme che si proponeva di liberalizzare diversi settori si risolse in una gigantesca bolla di sapone sotto le minacce di scioperi e serrate delle corporazioni, con l’aiuto di quei membri del Parlamento che di queste corporazioni sono rappresentanti, avvocati compresi. […] il governo Monti fu costretto a fare una repentina marcia indietro su tutte le altre proposte, inchinandosi mestamente di fronte alle potentissime lobby dei tassisti, farmacisti, ordini professionali e chi più ne ha più ne metta.” [p.65].

 Basterà ammazzare il Gattopardo per arrestare il declino italiano? Il dubbio sembra sfiorare Friedman allorché scrive: “Gli italiani sono per metà vittime e per l’altra metà (o forse più) complici del loro destino collettivo. Sono in gran parte impauriti, insicuri, traumatizzati o semplicemente rigidi conservatori e corporativisti, che siano i sindacati o i pensionati di sinistra o imprenditori e lavoratoti di destra, o tassisti, farmacisti, notai, avvocati, statali e tante altre categorie che non vogliono spostarsi, non vogliono flessibilità, non vogliono un vero mercato fondato sulla libera concorrenza e non vogliono un autentico cambiamento che porti in ugual misura rischi e opportunità.” [p.159].

 Il problema dunque per l’Italia non è tanto quello di sostituire Prodi con D’Alema, Berlusconi con Monti o Monti con Letta. Tutti personaggi che per rassegnazione, scetticismo, presunzione e attendismo hanno dimostrato di essere parte del problema da risolvere. Neppure è una soluzione l’uscita dall’euro, come propone qualcuno, con una lira scambiata alla pari con un euro e lasciata fluttuare, con il risultato di ripetere quando già avvenne con l’introduzione della moneta unica, allorché redditi e risparmi dei cittadini furono più che dimezzati nel loro valore reale. Non lo è la proposta che viene dalla sinistra del PD, con Fassina che chiede investimenti pubblici finanziati dal debito nazionale [p.166]. La questione, semmai, è quella di trovare un leader che abbia finalmente compreso di dover ammazzare il Gattopardo. Il nome più adatto sembra a Friedman quello del nuovo segretario del PD, il sindaco di Firenze di cui il giornalista riporta brani di un’intervista e che a pochi giorni dal lancio del libro sarà effettivamente chiamato a Palazzo Chigi.

 Matteo Renzi, per che fare? Non basta essere consapevoli di dover ammazzare il Gattopardo, perché, come dicevo prima, i gattopardi si nascondono ovunque e si può essere certi che impediranno l’uccisione del padre anche a costo di far saltare l’intera baracca. Useranno tutte le armi di cui sono capaci, di difesa e d’offesa, metteranno i bastoni tra le ruote di un carro che pretende di correre veloce e controcorrente. Insomma è in atto una guerra tra chi proclama di voler cambiare finalmente questo Paese e i custodi della soglia del cambiamento: l’esercito dei gattopardi sempre in agguato e sempre pronto a saltare alla gola di chiunque si azzardi a fare sul serio.

 Perciò Matteo Renzi è avvisato. Sarà tollerato finché i suoi cambiamenti saranno giudicati digeribili dal sistema. Espulso, non appena la forma del cambiamento si dovesse fare indigeribile per i tanti mandarini del potere, per i tanti gattopardi che fingono di sonnecchiare all’ombra di questo infelice Paese. C’è un antirenzismo strisciante [vedi il post del 26 Febbraio 2014: Renzi… ovvero dell’incredulità], soprattutto a sinistra, ha osservato di recente Paolo Mieli a Ballarò e ha citato Emanuele Macaluso - il vecchio campione del PCI che oggi compie novant’anni [auguri!]- secondo il quale Renzi non è altro che una marionetta e che presto farà il botto. Pensiero condiviso-auspicato anche dai tanti che al momento fingono di sostenere l’ex sindaco di Firenze.

 Di estremo interesse in proposito, quanto scrive oggi Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale del Corriere della Sera: “Non è affatto vero che Matteo Renzi riscuota il consenso vasto e generale che spesso gli si accredita. È piuttosto vero il contrario […] Il fatto è che la comparsa sulla scena di Renzi minaccia di squarciare il velo di menzogna che negli ultimi trent’anni la politica ha provveduto a stendere sulla nostra realtà sociale. Per tutto questo tempo la politica ci ha detto che c’erano una Destra e una Sinistra, divise da fondamentali differenze di valori e di programmi. Forse ciò era vero per i valori; certamente assai meno per i programmi e in specie per la volontà di realizzarli. Dietro la divisione proclamata e rappresentata dalla politica, infatti, è andata crescendo e solidificandosi una realtà ben altrimenti compatta del potere sociale italiano. All’insegna della protezione degli interessi costituiti; della moltiplicazione dei «contributi» finanziari al pubblico come al privato; della creazione continua di privilegi piccoli e grandi; della disseminazione di leggine e commi ad hoc ; della nascita di enti, agenzie, authority, società di ogni tipo; all’insegna comunque e per mille canali dell’uso disinvolto e massiccio della spesa pubblica. In tal modo favorendo non solo lo sviluppo di uno strato di decine di migliaia di occupanti - quasi sempre gli stessi, a rotazione - di tutti i gabinetti, gli uffici legislativi, gli uffici studi, di tutte le presidenze e di tutti i consigli d’amministrazione possibili e immaginabili, ma altresì il sorgere di un soffocante intreccio di relazioni, di amicizie, di legami personali. Un potere sociale solidificato, includente a pieno titolo anche il sistema bancario e l’impresa privata, che ha usato e usa disinvoltamente la politica - di cui aveva e ha un assoluto bisogno - schierandosi indifferentemente a seconda delle circostanze con la Sinistra, cercando però di non dispiacere alla Destra, e viceversa. E che sia la Destra che la Sinistra si sono sempre ben guardate dallo scalfire.
Finora tuttavia la radicale divergenza d’interessi tra questa Italia «protetta» e l’Italia «non protetta», questo reale, autentico conflitto di fondo, non è mai riuscito ad avere alcuna vera rappresentazione politica, a dar vita a un reale e vasto conflitto tra le parti politiche ufficiali. Renzi invece minaccia esattamente di rovesciare questa tendenza: di restituire realtà sociale vera alla politica, aprendo importanti terreni di scontro tra le due Italie.
Per il momento, è vero, lo ha fatto solo simbolicamente, allusivamente. Con la sua figura, grazie al suo stile personale e al suo linguaggio, identificandosi in particolare in un solo messaggio: la necessità di rompere confini e contenuti dell’universo politico finora vigente. Ma tanto è bastato perché se da un lato ricevesse immediatamente un consenso assai vasto e trasversale da parte del Paese che socialmente conta di meno, dall’altro lato, però, vedesse nascere contro di sé la diffidenza ironica, lo scetticismo, un’ostilità venata di paternalistico compatimento, da parte del Paese che conta di più e ne teme il dinamismo e i propositi, avendo capito che sarebbe esso il primo a farne le spese. «Non sarai tu, povero untorello, che spianterai le mura di Milano» sembra dirgli l’Italia antirenziana, forte della sua collaudata capacità di sopravvivenza.”.
 Meglio di così non è forse possibile rappresentare la lotta che in questi giorni si sta consumando tra il cacciatore Renzi e i tanti gattopardi che imperversano e la fanno da padroni nella giungla della società italiana.

sergio magaldi

Nessun commento:

Posta un commento