Basterà ammazzare il Gattopardo per cambiare l’Italia? Ne
dubito. Perché il Gattopardo figlia di continuo: nelle istituzioni, nella
pubblica amministrazione, nei luoghi di lavoro, nell’imprenditoria, nelle
banche, nei sindacati, nelle corporazioni, nelle televisioni, nei giornali e su
internet, nei partiti politici di governo e di opposizione, nell’opinione
pubblica, ovunque.
Alan Friedman, il giornalista anglosassone che
- dice Travaglio - parla come Stanlio e Olio e che ha utilizzato l’imperativo [Ammazziamo
il Gattopardo, appunto] per il titolo del suo ultimo libro, sembra
oscillare tra due posizioni. Per un verso identifica il Gattopardo con la
classe dirigente e allora diventa più facile averlo nel mirino, per altro verso
pare riconoscere che gli italiani non siano poi così diversi dai loro
dirigenti. Scrive: “Spesso i leader sono lo specchio di un popolo e in
questo caso si tratta di un popolo di
conservatori invischiato con una classe
politica di conservatori…” [p.38].
La
distinzione non è di poco conto, ma Friedman se la lascia subito alle spalle,
rivolgendo la sua attenzione al Gattopardo inteso come simbolo del Potere
esercitato in Italia da governi e partiti politici. Un sistema che ha dismesso
da tempo la forma umana per assumere quello della fiera. Capace persino di
autocritica e costretto a fingere di cambiare pur di mantenere se stesso: “Dobbiamo
affrontare questo Gattopardo figlio di una cultura conservatrice e della
cultura democristiana, ma non solo, e sbarazzarci di queste vecchie abitudini,
di questi vecchi demoni, dobbiamo aprire la mente, sgombrare la strada verso il
futuro […]. Dobbiamo ammazzare il Gattopardo. Farlo secco. Punto.”
[pp.13-14]
La conseguenza di tale semplificazione porta
di necessità Alan Friedman a porsi una serie di interrogativi sul perché della
decadenza italiana, mentre occorrerebbe innanzi tutto prendere atto che sono i
privilegi acquisiti a foraggiare i tanti gattopardi sparsi per l’Italia, a
impedire qualsiasi reale cambiamento: “Come mai non riusciamo a fare dei
salti importanti, delle riforme vere? Per il debito alto? Perché ci sono pochi
soldi disponibili? A causa dell’attaccamento alla poltrona da parte dei
politici? Per il tiro alla fune tra le forze di innovazione e rottamazione
della politica e quelle dello spirito democristiano, ugualmente tenaci? Per la
mediocrità di una gran parte della
classe dirigente del Paese? Per il fallimento di un’intera classe dirigente,
come dice Matteo Renzi?” [p.24]
Molto di quello che Friedman scrive è sensato. Anche se il suo libro,
uscito da appena un mese, è ricordato dalla stampa soprattutto per il capitolo
dedicato al “piano del presidente” [cap.3, pp.41-78], in cui si “svela”, col
supporto di significative interviste, il ruolo avuto dal presidente Napolitano
nel preparare l’ascesa di Monti, diversi mesi prima che Berlusconi fosse
costretto alle dimissioni. Episodio utilizzato nei circuiti mediatici da
interpreti diversi e con duplice significato: per mostrare il cosiddetto complottismo
del Presidente e per spiegare l’abbandono di Letta al suo destino, con
l’avvento di Matteo Renzi.
Ben più interessanti sono invece altre pagine
contenute nel terzo capitolo del libro e in quelle che lo precedono. Per
esempio, con l’analisi di chi favorì l’indebitamento pubblico che oggi sfiora
il 133 per cento del PIL e impedisce all’Italia – come fu consentito alla
Germania e attualmente alla Francia e alla Spagna – di sforare il rapporto del
3% debito-PIL per avere denaro fresco da immettere nel sistema produttivo e
combattere la recessione.
“[…]
È che non abbiamo davvero capito che cosa significava entrare nell’euro.
L’Italia era troppo abituata ad aggiustare i suoi conti con l’estero attraverso
le svalutazioni – scrive Friedman riportando le parole di Giuliano Amato,
salvo poi osservare giustamente: “Comunque lo si consideri – un grande
statista o un craxiano che si è salvato politicamente abbandonando Craxi al
momento giusto – , proprio Amato ha vissuto da protagonista gli anni della crescita
più mostruosa del debito nazionale. E contava. Lui stesso ricorda come nel
corso degli anni Ottanta il debito subì un’impennata clamorosa che lo portò dal
60 al 100 per cento del PIL. Proprio quando lui fu sottosegretario a Palazzo
Chigi con Craxi premier (1983-1987) e poi fu nominato ministro del Tesoro (1987-1989). E anche nel
1992-1993, quando divenne primo ministro, il debito salì del 10 per cento in un
solo anno.” [p.32].
Di non minore interesse, le analisi sul
fallimento delle norme proposte da Monti per liberalizzare il Paese: “Tutto
il pacchetto di norme che si proponeva di liberalizzare diversi settori si
risolse in una gigantesca bolla di sapone sotto le minacce di scioperi e
serrate delle corporazioni, con l’aiuto di quei membri del Parlamento che di queste
corporazioni sono rappresentanti, avvocati compresi. […] il governo Monti fu
costretto a fare una repentina marcia indietro su tutte le altre proposte,
inchinandosi mestamente di fronte alle potentissime lobby dei tassisti,
farmacisti, ordini professionali e chi più ne ha più ne metta.” [p.65].
Basterà ammazzare il Gattopardo per arrestare
il declino italiano? Il dubbio sembra sfiorare Friedman allorché scrive: “Gli
italiani sono per metà vittime e per l’altra metà (o forse più) complici del
loro destino collettivo. Sono in gran parte impauriti, insicuri, traumatizzati
o semplicemente rigidi conservatori e corporativisti, che siano i sindacati o i
pensionati di sinistra o imprenditori e lavoratoti di destra, o tassisti,
farmacisti, notai, avvocati, statali e tante altre categorie che non vogliono
spostarsi, non vogliono flessibilità, non vogliono un vero mercato fondato
sulla libera concorrenza e non vogliono un autentico cambiamento che porti in
ugual misura rischi e opportunità.” [p.159].
Il problema dunque per l’Italia non è tanto
quello di sostituire Prodi con D’Alema, Berlusconi con Monti o Monti con Letta.
Tutti personaggi che per rassegnazione, scetticismo, presunzione e attendismo
hanno dimostrato di essere parte del problema da risolvere. Neppure è
una soluzione l’uscita dall’euro, come propone qualcuno, con una lira scambiata
alla pari con un euro e lasciata fluttuare, con il risultato di ripetere quando
già avvenne con l’introduzione della moneta unica, allorché redditi e risparmi
dei cittadini furono più che dimezzati nel loro valore reale. Non lo è la
proposta che viene dalla sinistra del PD, con Fassina che chiede investimenti
pubblici finanziati dal debito nazionale [p.166]. La questione, semmai, è quella
di trovare un leader che abbia finalmente compreso di dover ammazzare il
Gattopardo. Il nome più adatto sembra a Friedman quello del nuovo segretario
del PD, il sindaco di Firenze di cui il giornalista riporta brani di
un’intervista e che a pochi giorni dal lancio del libro sarà effettivamente
chiamato a Palazzo Chigi.
Matteo Renzi, per che fare? Non basta
essere consapevoli di dover ammazzare il Gattopardo, perché, come dicevo prima,
i gattopardi si nascondono ovunque e si può essere certi che impediranno
l’uccisione del padre anche a costo di far saltare l’intera baracca. Useranno
tutte le armi di cui sono capaci, di difesa e d’offesa, metteranno i bastoni
tra le ruote di un carro che pretende di correre veloce e controcorrente.
Insomma è in atto una guerra tra chi proclama di voler cambiare finalmente
questo Paese e i custodi della soglia del cambiamento: l’esercito dei
gattopardi sempre in agguato e sempre pronto a saltare alla gola di chiunque si
azzardi a fare sul serio.
Perciò Matteo Renzi è avvisato. Sarà tollerato
finché i suoi cambiamenti saranno giudicati digeribili dal sistema. Espulso,
non appena la forma del cambiamento si dovesse fare indigeribile per i tanti
mandarini del potere, per i tanti gattopardi che fingono di sonnecchiare
all’ombra di questo infelice Paese. C’è un antirenzismo strisciante
[vedi il post del 26 Febbraio 2014: Renzi… ovvero dell’incredulità],
soprattutto a sinistra, ha osservato di recente Paolo Mieli a Ballarò e
ha citato Emanuele Macaluso - il vecchio campione del PCI che oggi compie
novant’anni [auguri!]- secondo il quale Renzi non è altro che una marionetta e
che presto farà il botto. Pensiero condiviso-auspicato anche dai tanti che al momento
fingono di sostenere l’ex sindaco di Firenze.
Di estremo interesse in proposito, quanto
scrive oggi Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale del Corriere della
Sera: “Non è
affatto vero che Matteo Renzi riscuota il consenso vasto e
generale che spesso gli si accredita. È piuttosto vero il contrario […] Il
fatto è che la comparsa sulla scena di Renzi minaccia di squarciare il velo
di menzogna che negli ultimi trent’anni la politica ha provveduto a stendere
sulla nostra realtà sociale. Per tutto questo tempo la politica ci ha detto che
c’erano una Destra e una Sinistra, divise da fondamentali differenze di valori
e di programmi. Forse ciò era vero per i valori; certamente assai meno per i
programmi e in specie per la volontà di realizzarli. Dietro la divisione
proclamata e rappresentata dalla politica, infatti, è andata crescendo e
solidificandosi una realtà ben altrimenti compatta del potere sociale italiano.
All’insegna della protezione degli interessi costituiti; della moltiplicazione
dei «contributi» finanziari al pubblico come al privato; della creazione
continua di privilegi piccoli e grandi; della disseminazione di leggine e commi
ad hoc ; della nascita di enti, agenzie, authority, società di ogni tipo;
all’insegna comunque e per mille canali dell’uso disinvolto e massiccio della spesa
pubblica. In tal modo favorendo non solo lo sviluppo di uno strato di decine di
migliaia di occupanti - quasi sempre gli stessi, a rotazione - di tutti i
gabinetti, gli uffici legislativi, gli uffici studi, di tutte le presidenze e
di tutti i consigli d’amministrazione possibili e immaginabili, ma altresì il
sorgere di un soffocante intreccio di relazioni, di amicizie, di legami
personali. Un potere sociale solidificato, includente a pieno titolo anche il
sistema bancario e l’impresa privata, che ha usato e usa disinvoltamente la
politica - di cui aveva e ha un assoluto bisogno - schierandosi
indifferentemente a seconda delle circostanze con la Sinistra, cercando però di
non dispiacere alla Destra, e viceversa. E che sia la Destra che la Sinistra si
sono sempre ben guardate dallo scalfire.
Finora
tuttavia la radicale divergenza d’interessi tra
questa Italia «protetta» e l’Italia «non protetta», questo reale, autentico
conflitto di fondo, non è mai riuscito ad avere alcuna vera rappresentazione
politica, a dar vita a un reale e vasto conflitto tra le parti politiche
ufficiali. Renzi invece minaccia esattamente di rovesciare questa tendenza: di
restituire realtà sociale vera alla politica, aprendo importanti terreni di
scontro tra le due Italie.
Per il momento,
è vero, lo ha fatto solo simbolicamente,
allusivamente. Con la sua figura, grazie al suo stile personale e al suo
linguaggio, identificandosi in particolare in un solo messaggio: la necessità
di rompere confini e contenuti dell’universo politico finora vigente. Ma tanto
è bastato perché se da un lato ricevesse immediatamente un consenso assai vasto
e trasversale da parte del Paese che socialmente conta di meno, dall’altro
lato, però, vedesse nascere contro di sé la diffidenza ironica, lo scetticismo,
un’ostilità venata di paternalistico compatimento, da parte del Paese che conta
di più e ne teme il dinamismo e i propositi, avendo capito che sarebbe esso il
primo a farne le spese. «Non sarai tu, povero untorello, che spianterai le mura
di Milano» sembra dirgli l’Italia antirenziana, forte della sua collaudata
capacità di sopravvivenza.”.
Meglio di così non è forse
possibile rappresentare la lotta che in questi giorni si sta consumando tra il
cacciatore Renzi e i tanti gattopardi che imperversano e la fanno da padroni nella giungla della società italiana.
sergio
magaldi
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