Nel post del 29 Maggio 2013, nel presentare LA GRANDE BELLEZZA [clicca per
leggere], sottolineavo come il lavoro di Paolo Sorrentino, unico film italiano
presente a Cannes, non avesse ottenuto riconoscimenti ufficiali, ma più di un
apprezzamento da parte della stampa internazionale. Fenomeno questo, tanto più
sorprendente se confrontato con lo scarso elogio che la stampa nazionale
riservò allora al film del regista napoletano. Con il risultato che, dopo
Cannes, il film ha cominciato a collezionare trofei, sino a quello più agognato
di tutti: l’Oscar per il miglior film straniero, dopo quello assegnato 15 anni
fa al cinema italiano, per La vita è
bella di Roberto Benigni.
Credo che la
critica italiana abbia commesso allora l’errore di vedere il film in una prospettiva
meramente felliniana. Lo stesso errore nel quale sono incorso anch’io, quando
ho visto il film per la prima volta. Perché,
è vero che La grande bellezza ha del cinema di Fellini la fantasia e il
caleidoscopio delle immagini, è vero che il film di Sorrentino è
dichiaratamente un omaggio al grande romagnolo, persino nel riproporre una
galleria di personaggi di varia e disperata umanità, peraltro solo
impropriamente assimilabili a quelli ben più bizzarri e sanguigni che affollano
le scene dei film di Fellini: nani e corpi nudi
di “ragazze” ultracinquantenni che non suscitano più il desiderio, attori
falliti, attricette che passano dalla velleità di recitare a quella di
scrivere, erotomani, cocainomani, illusionisti del trucco per ridare la
giovinezza, principi decaduti che si affittano per le feste dei nuovi ricchi,
bambine prodigio che imbrattano tele e le vendono a caro prezzo, macchiette di
cardinali, suore e suorine e persino una santa vecchia che parla alle cicogne.
Ma, soprattutto, è vero che ad essere diversa è la filosofia che sottende il
tutto.
La splendida
interpretazione di Toni Servillo non serve a far rivivere “la dolce vita”, ma
semmai a rimpiangerla. Le passeggiate romane di Jep Gambardella non ci aiutano
a riconoscere una grande bellezza, deturpata dal tempo e dall’incuria
dell’uomo, perché Roma non è la grande bellezza, più di quanto non lo siano
Atene o Firenze: la natura, l’arte, il
sogno, l’amore, forse soltanto il
primo amore, e soprattutto la vita
sono la grande bellezza che tenta di resistere al nulla, simbolicamente rappresentato dalla città eterna in cui continueranno ad agitarsi, finché potranno, Jep
Gambardella e i suoi amici.
È il monologo finale a farci consapevoli -
semmai ce ne fosse il bisogno - che, sotto la veste felliniana, il film di
Sorrentino ha poco in comune con il vitalismo di cui fu portatore il grande
maestro, e proprio in questo consiste la sua originalità e la sua bellezza.
Mentre la “santa vecchia” s’arrampica con sofferenza e indicibile sforzo lungo
i gradini della scala santa, ecco risuonare le parole eloquenti e dimesse di
Jep Gambardella:
Finisce
sempre così… con la morte. Prima però c’è stata la vita… nascosta sotto il bla…
bla… bla… bla… bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore…
il silenzio e il sentimento… l’emozione e la paura… gli sporadici inconsistenti sprazzi di bellezza e poi lo squallore
disgraziato e l’uomo miserabile… tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo
dello stare al mondo…
sergio magaldi
Nessun commento:
Posta un commento