Paolo Giordano, Il nero e l'argento, Einaudi, Torino, 2014, pp.118 |
Centodiciotto
pagine per ricomporre, rielaborandolo in senso letterario, il frammento di una
storia vera e dolorosa. Questa l’avvertenza che Paolo Giordano premette al suo
terzo e breve romanzo.
Nora e l’io
narrante, giovani sposi con un figlio piccolo, nulla hanno a che vedere con
Alice e Mattia, la coppia protagonista del romanzo che ha dato il successo
all’autore quando aveva solo 26 anni [2008]. Alice e Mattia sono entrambi come numeri primi gemelli, divisibili cioè solo per 1 e per se stessi e
separati tra loro da un unico numero e dunque vicini, ma mai abbastanza per
toccarsi davvero [vedi il post di La solitudine dei numeri primi romanzo e quello di La solitudine dei numeri primi film e clicca sui titoli per leggere].
Nora e l’io narrante sono rispettivamente l’argento e il nero, cioè quanto di
più distante ci possa essere, eppure l’io narrante confessa:
“Io, invece, avevo Nora, che
comprendeva ogni sottigliezza delle frasi che pronunciavo e ogni implicazione
di quelle che sceglievo di non dire. Potevo aspirare a qualcosa più di questo?,
immaginare di metterlo a rischio in favore di una borsa di studio seppure
prestigiosa?” [p.36]
“Mi soffermo
sull’analogia che Galeno aveva evidenziato fra il cancro e la malinconia,
entrambi portati da un eccesso di umore nero. Mentre leggo, è come se
avvertissi il liquido vischioso, un fiotto di catrame irradiarsi per il mio
sistema linfatico, otturandolo. […] Credo che la hostess non sappia nulla
dell’umore nero, come d’altronde non ne sa molto Nora, dolcemente addormentata
contro la mia spalla. La guardo, indeciso tra la commozione e l’invidia. La sua
linfa scorre chiara, limpida e copiosa a dispetto di tutto […] e il suo è
argento fuso, il più bianco tra i metalli, il migliore fra i conduttori, il
riflettente più spietato.” [pp.68-69]
Nora aveva avuto il potere di scardinare la
sua ritrosia e il suo essere laconico. E qui l’io narrante è davvero
somigliante a Mattia di La solitudine dei
numeri primi, forse per quel tanto di autobiografico che c’è nei due
personaggi. Entrambi cultori di matematica e fisica teorica, tutti e due
fidando più nell’intelligenza che nel piacere agli altri.
Ma Nora nulla ha a che vedere con Alice. Dove
la prima sembra in grado di mitigare il nero, ricomporlo in un insieme con
l’argento, la seconda, proprio perché così simile a Mattia non riesce mai
veramente a raggiungerlo. La diversità o addirittura il contrasto, e non
l’affinità, favorisce dunque l’intesa nella coppia?
Non è vero nemmeno questo, perché l’io
narrante scopre ben presto che gli elementi opposti non si armonizzano, se non
in circostanze particolari, quando ci siano dei “punti di riferimento” a fare
da collante:
“Ero sicuro che l’argento di Nora e il mio nero si
stessero mischiando lentamente e che lo stesso fluido metallico e brunito
avrebbe infine percorso entrambi […]. Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo. La vita si
stringe talvolta come un imbuto e dall’emulsione iniziale degli umori si
producono degli strati. L’esuberanza di Nora e la mia malinconia” [p.108].
Cosa ha funzionato
da collante, da punto di riferimento durante i primi anni di matrimonio tra
Nora e l’io narrante? Una signora che si è presa cura di entrambi e che ha visto
nascere il loro figlio. E la triste vicenda della signora A. occupa il centro
della narrazione e non è, come si potrebbe pensare, un pretesto per parlare di
una coppia. La signora A., chiamata affettuosamente Babette in omaggio alla
cuoca del racconto di Karen Blixen, resa familiare dall’omonimo straordinario film
di Gabriel Axel, vincitore nel 1987 dell’Oscar per il miglior film straniero.
“La signora
A. era la sola vera testimone dell’impresa che compivamo giorno dopo giorno, la
sola testimone del legame che ci univa […]. A lungo andare ogni amore ha
bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti
rischia di essere scambiato per un malinteso. Senza il suo sguardo ci sentivamo
in pericolo.”
[pp.16-17]
Poi,
all’improvviso, l’annuncio che Babette non verrà più in casa. La donna è
stanca, è malata di cancro, ed ecco apparire i primi segni di disgregazione
familiare. E tutte le fasi della malattia della signora A. sono descritte
dall’autore con garbo e partecipata sofferenza. Con loro, la descrizione del
malessere che serpeggia tra Nora e l’io narrante:
“Anche una
coppia giovane può ammalarsi, di insicurezza, di ripetizione, di solitudine. Le
metastasi sbocciano invisibili e le nostre hanno presto raggiunto il letto. Per
undici settimane, le stesse in cui la signora A. perdeva una alla volta le
funzioni elementari del suo organismo, Nora e io non ci siamo sfiorati né
cercati. Sdraiati a distanza di sicurezza i nostri corpi somigliavano a blocchi
inespugnabili di marmo.”
[p.107].
Quindi la fine
inesorabile di Babette. Una morte annunciata dall’uccello del paradiso che
poco prima della scoperta della malattia andò a posarsi accanto a lei mentre
lavorava nell’orto? Questo uccello dalle piume bellissime nella tradizione
popolare pare sia presagio di morte. E l’io narrante ci tiene a precisare che
Nora é tra quelli che credono nei presagi, mentre lui no: un’altra differenza
che ci sarà sempre tra loro, commenta freddamente.
sergio magaldi
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