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Il giovane favoloso, regia di Mario Martone, Italia, 2014, 137 minuti |
Un’occasione persa. L’opportunità
di portare sul grande schermo un poeta sublime, in Italia forse secondo solo a
Dante Alighieri, sprecata e ridotta a
poco più di una rappresentazione di cronologia biografica, dalla quale peraltro
viene espunto un arco significativo di oltre dieci anni. Da Giacomo adolescente,
che gioca e studia insieme alla sorella Paolina e al fratello Carlo [da adulti
interpretati rispettivamente da Isabella
Ragonese ed Edoardo Natoli], sotto
la guida del precettore ecclesiastico, l’occhio vigile e zelante del padre
erudito [il conte Monaldo interpretato da Massimo
Popolizio], l’indifferenza di una madre distante e bigotta [la marchesa Adelaide
Antici nella piccola parte di Raffaella
Giordano], si passa infatti al Leopardi ventenne che tenta invano la fuga
dal “natio borgo selvaggio” e subito dopo agli ultimi sei o sette anni della
sua breve vita, quella caratterizzata dall’amicizia con Antonio Ranieri [Michele Riondino].
Un film lungo
[circa due ore e mezza] e noioso, un lavoro di genere didascalico, costato 8
milioni di euro, a quanto pare per lo più di denaro pubblico, forse adatto alla
fiction televisiva, magari in due
puntate, e che del grande recanatese
[interpretato da un ottimo Elio Germano, se si eccettua la recita del canto
forse più noto del Leopardi: L’infinito]
non riesce a cogliere l’anima e il grande spirito.
Sorprende il
giudizio positivo che la stampa italiana, quasi all’unanimità, attribuisce al
film del napoletano Mario Martone, già regista di teatro e dal 2007 direttore
artistico del Teatro Stabile di Torino. Non è un caso tuttavia che alla standing ovation, seguita alla proiezione del film [un omaggio al grande poeta o a
chi l’ha portato sullo schermo?] non abbia fatto riscontro un premio qualsiasi
della giuria internazionale della recente Mostra del Cinema di Venezia [tra i
giurati, un solo italiano: Carlo Verdone].
Sorprende altresì
il giudizio su Il giovane favoloso che
Roberto Saviano dà sull’Espresso,
laddove parla di un film “ironico, appassionato e rivoluzionario” e di una
rappresentazione del poeta di Recanati “finalmente lontano dai luoghi comuni
sulla bruttezza e l’infelicità”.
È vero che la
sceneggiatura si preoccupa di rimuovere il famoso giudizio sul “pessimismo
cosmico”, così caro ai maestri di scuola e che Leopardi, mentre gusta un gelato
[di gelati e di dolci, il poeta era particolarmente ghiotto] in un caffè di
Napoli, urla ai suoi interlocutori di non
attribuire alle sue malattie ciò che è soltanto responsabilità del suo
intelletto. Ma poi è altrettanto vero che non si perde occasione nel film
per sottolineare gli strali contro la natura “matrigna”, rappresentata in una
scena di dubbio gusto da una grande statua di una dea che si va sgretolando, né
di mettere in risalto il disagio e le
sofferenze del suo corpo, persino con la macchina da presa che indugia ad
effetto sullo spuntare della gobba sulla sua schiena, e si dimentica invece di
guardare in profondità quel suo odio per Recanati [che in realtà è un amore-odio] e quel suo immenso stupore per
la bellezza femminile che lo farà
innamorare ripetutamente e gli farà scrivere le liriche più belle,
completamente ignorate nel film, sia in spirito che nei versi.
C’è forse luogo più
amato del colle e della siepe dell’infinito? Della torre del passero solitario?
C’è forse un momento più gioioso di quello che nel villaggio precede il giorno
di festa, pur nella lucida consapevolezza che tutto avrà fine?
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare
ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
diman tristezza
e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno…
[Da Il sabato del villaggio - segue]
E le liriche per Silvia e per la Nerina delle Ricordanze,
nomi attinti dall’Aminta di Torquato
Tasso, il poeta prediletto da Leopardi, scritte in realtà per Teresa Fattorini,
figlia del cocchiere dei conti Leopardi, morta il 30 Settembre 1818 e per la
giovane tessitrice Maria Belardinelli, morta il 3 Novembre 1827 [chi delle due
sia Silvia o Nerina poco importa], non sono forse un canto all’amore e alla
vita, pur nella consapevole realtà della morte che incombe su ogni creatura
vivente?
Viene
il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Ma rapida
passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore…
[Da Le ricordanze - segue]
Silvia,
rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno…
[Da A Silvia
- segue]
Di questo
giovanile stupore per l’amore e per la bellezza femminile che porterà il
Leopardi a scrivere le liriche più belle, il film non reca traccia, né del
primo innamoramento descritto dal poeta nel Diario
del primo amore, composto poco prima del Natale del 1817 dopo aver
incontrato Geltrude Cassi Lazzari, cugina del padre e di lui più grande di
sette anni.
Io cominciando a sentire l’impero della
bellezza, da piú d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno,
con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo per rarissimo caso gittato
sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e
lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato
vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedí, arrivò in casa nostra,
aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare
qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente piú
tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e
pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di
volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato,
bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne e, secondo me,
graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive,
tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi,
diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane.
Quella sera la vidi, e non mi dispiacque, ma le ebbi a dire pochissime parole,
e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdí le dissi freddamente due parole
prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole
sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto
piú tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura.
Cosí avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdí, i miei
fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto di
giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine di ottenere
le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti
altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo
vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò; poi lasciate le
carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme
cogli altri, e però con poco dilette, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità
imparava, e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia (come a
me si sarebbero senza dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso
da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo
giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei,
e cosí ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: per
la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasta fino alla sera dopo.
Alla cena, la solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia votissima
giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o
credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la
mente ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora giuocai. N’uscii
scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche
con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente,
ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello
aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde
cercando fra me perché fossi scontento non lo sapea trovare. Non sentia quel
rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non
esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si
poteva e quanto io mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel
piacere era stato piú torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non
vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore
molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della
Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre piú; e insomma la Signora
mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né
io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore,
che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche
dolcezza, molto affetto, e desiderio […] E perché la finestra della mia stanza
risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io sentendo passar gente
cosí per tempo, subito mi sono accorto che i forestieri si preparavano al
partire, e con grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare i
cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giú, ho aspettato un
buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che
discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita
[…] E cosí il sentir parlare di quella
persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte
del corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi
mette a soqquadro lo stomaco e mi fa disperare il sentir discorsi allegri, e in
genere tacendo sempre, sfuggo quanto piú posso il sentir parlare, massime negli
accessi di quei pensieri […] Se questo è amore, che io non so, questa è la
prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed
eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore
dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e
sentimentale) ne sarò sempre schiavo […] [G.Leopardi, Tutte le opere, Sansoni, Firenze, 1988,
vol.I, pp. 353 e ss.]
Le sole donne che sembrano interessare regia e
sceneggiatura, nel ricostruire la figura di Leopardi uomo e poeta, hanno a che
fare con Antonio Ranieri: l’una è la sua amante, Fanny Targioni Tozzetti [Anna Mouglalis], l’altra è sua sorella,
Paolina Ranieri [Federica de Cola] che,
con amore fraterno, fu vicino a Giacomo negli ultimi anni della sua vita e sino
alla morte. Ignorate completamente tutte le altre che pure ebbero, in diversi
momenti e in diverse città, da Recanati a Roma, Bologna, Pisa, Firenze e
Napoli, un ruolo non secondario, come osserva Raffaele Urraro nel suo libro: Giacomo Leopardi: le donne, gli amori. Ignorate
in gran parte, nel film, persino la sorella e la madre che pure ebbero nella
vita del poeta un ruolo significativo, positivo quello della sorella Paolina,
non altrettanto stimolante quello della madre, almeno a quanto ne scrive
Leopardi nello Zibaldone:
«Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia
che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza
cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non
compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava
intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza
pericoli, e avevan liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi
più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio
che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva
cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se
stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Vedendo ne' malati qualche
segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di
dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro
morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva
comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene».
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Raffaele Urraro, Giacomo Leopardi Le donne, gli amori,Olschki, Firenze, 2008, pp.378 |
Queste omissioni sulle donne amate dal grande
recanatese, dalle quali non fu mai ricambiato, se si eccettuano forse Adelaide
Tommasini che il poeta non riuscì mai ad amare profondamente, e Teresa Lucignani con la quale sfiorò il
grande amore, hanno fatto riflettere più di un osservatore circa la presunta
omosessualità di Giacomo Leopardi – di cui si continua a parlare
spesso a proposito e sproposito – adombrata nel film, soprattutto
in relazione alla sua amicizia con Antonio Ranieri. Per la verità la tesi è appena sfiorata nel
lavoro di Martone, anche se non mancano scene in cui sembrano prendere corpo le
analisi di Giovanni Dall’Orto che, pur escludendo rapporti omosessuali tra
Leopardi e Ranieri [dal momento che quest’ultimo ebbe molte amanti], ritiene
che “una lettura in ottica gay delle opere del Leopardi vada fatta”, giungendo
con sorprendente disinvoltura ad attribuire al poeta sentimenti falsi che gli
sarebbero serviti di copertura. Scrive infatti:
“A ben pensarci, cos'è “Il sabato del villaggio” se non la lamentela di chi vede "la gioventù del loco" (etero) che
"mira ed è mirata", mentre
lui è escluso dalla festa d'amore?
E cos'è “Il passero solitario” se non
l'espressione dell'isolamento d'ogni omosessuale che si sente “unico al
mondo”?
Forse i documenti più significativi della condizione omosessuale del Leopardi
sono proprio lì, sotto gli occhi di tutti: sono le poesie che abbiamo studiato
dalle elementari in poi. Ci hanno raccontato che Leopardi fu solo perché era
gobbo. Balle. Era se non ricco benestante, era nobile, era stimato: una
donna che lo sposasse, in un'epoca in cui il matrimonio era ancora visto come
un affare economico, l'avrebbe trovata, se l'avesse voluta.
Invece insistette a far la corte a donne o sposate o
"impossibili".
Tipica strategia per non essere reciprocato...” [http://www.giovannidallorto.com/biografie/leopardi/leopardi.html]
Ad ogni buon conto, il discorso
sull’eterosessualità e/o sull’omosessualità latente o vissuta del Leopardi non
mi appassiona e lo lascio volentieri agli amanti della curiosità morbosa, anche
se va detto che mettersi a spiare dal buco della serratura è sempre un atto di
povertà intellettuale e lo è doppiamente se dietro la porta c’è un grande
spirito come il poeta di Recanati.
Dov’è d’altra parte, nel film, il Leopardi
“fuori dai luoghi comuni” e “ironico, appassionato e rivoluzionario” di cui
parla Roberto Saviano? Per il primo aspetto, si consideri quanto ne scrive
Alessio Cappuccio, forse anche esagerando [www.cinema.leonardo.it] :
Caduto
nelle grinfie di Martone, infatti, il povero Giacomo Leopardi, portato sullo schermo da un Elio Germano tanto
volenteroso quanto irrigidito dal caricaturismo, ci appare come un povero
sessuomane afflitto dal conflitto paterno, dall’incomprensione dei contemporanei,
oltre che dall’immancabile gobba.”
Quanto all’ironia, il
Leopardi del film di Martone ne è piuttosto fatto oggetto, la sua estrema
sensibilità più che alla passionalità lo induce alla sola sofferenza e il suo
essere rivoluzionario – cosa che in realtà egli fu rispetto alla famiglia,
all’ambiente retrivo in cui si trovò a vivere, ai letterati del suo tempo, per
lo più ecclesiastici pedanti e reazionari, e persino rispetto al cattolicesimo
liberale – è accennato appena, senza che sia possibile comprenderne a fondo,
nella complessità delle vicende storiche di allora, la ragione e i reali
propositi.
sergio magaldi