martedì 28 ottobre 2014

Diritti e prepotenza in "Buoni a nulla", l'ultimo film di Gianni Di Gregorio

Buoni a nulla, regia di Gianni Di Gregorio, Italia, Ottobre 2014, 87 minuti



 Un film modesto, ancorché dignitoso, nello squallore attuale del cinema italiano d’evasione [e non solo], con una filosofia semplice ma chiara e comprensibile a tutti. Senza l’aspettativa di grandi risate, come annuncia la solita stampa compiacente, ma con buona disposizione a far sorridere. 

 Impeccabile l'interpretazione di Gianni Di Gregorio, attore e regista come nei suoi precedenti film [Pranzo di Ferragosto del 2008 e Gianni e le donne del 2011], coadiuvato dall’ottimo Marco Marzocca, che possiede una naturale vis comica, e da Valentina Lodovini, nella parte di Cinzia, l’impiegata “fancazzista” che sfrutta grazia e avvenenza per farsi dare una robusta mano nelle questioni personali e d’ufficio.

 Gianni e Marco, impiegati, sono attratti subito l’uno dall’altro perché hanno in comune la vocazione a non saper dire di “no” . Mentre il primo, già in procinto di andare in pensione, è aiutato a prendere coscienza dal sopruso subito – in base ad una nuova normativa che pare fatta apposta per richiamare l’attualità – di dover continuare a lavorare per altri tre anni, per di più trasferito dal centro di Roma ai margini della città, nel deserto dei nuovi quartieri dell’Eur, Marco, innamorato di Cinzia, stenta a liberarsi dal complesso del “signorsì”.









 Il film dura appena 87 minuti, ma si rivela anche troppo lungo, perché ad una prima parte, condotta con brio e dove si sente riecheggiare, mutatis mutandis, un clima godibile alla Monsù Travet, segue un tempo ripetitivo e scontato che ricorre volentieri ai luoghi comuni e al frastuono musicale per recuperare senso e ritmo. Le scene finali rivelano con ironia la vera morale del film: va bene non dire sempre di sì, va bene far valere i propri diritti, meglio ancora saper osare nella vita e in amore, ma fino a che punto siamo disposti a pagare il prezzo della prepotenza altrui?  

sergio magaldi

giovedì 23 ottobre 2014

IL GIOVANE FAVOLOSO... ma dov'è GIACOMO LEOPARDI?

Il giovane favoloso, regia di Mario Martone, Italia, 2014, 137 minuti


 Un’occasione persa. L’opportunità di portare sul grande schermo un poeta sublime, in Italia forse secondo solo a Dante  Alighieri, sprecata e ridotta a poco più di una rappresentazione di cronologia biografica, dalla quale peraltro viene espunto un arco significativo di oltre dieci anni. Da Giacomo adolescente, che gioca e studia insieme alla sorella Paolina e al fratello Carlo [da adulti interpretati rispettivamente da Isabella Ragonese ed Edoardo Natoli], sotto la guida del precettore ecclesiastico, l’occhio vigile e zelante del padre erudito [il conte Monaldo interpretato da Massimo Popolizio], l’indifferenza di una madre distante e bigotta [la marchesa Adelaide Antici nella piccola parte di Raffaella Giordano], si passa infatti al Leopardi ventenne che tenta invano la fuga dal “natio borgo selvaggio” e subito dopo agli ultimi sei o sette anni della sua breve vita, quella caratterizzata dall’amicizia con Antonio Ranieri [Michele Riondino].

 Un film lungo [circa due ore e mezza] e noioso, un lavoro di genere didascalico, costato 8 milioni di euro, a quanto pare per lo più di denaro pubblico, forse adatto alla fiction televisiva, magari in due puntate, e che del grande recanatese [interpretato da un ottimo Elio Germano, se si eccettua la recita del canto forse più noto del Leopardi: L’infinito] non riesce a cogliere l’anima e il grande spirito.

 Sorprende il giudizio positivo che la stampa italiana, quasi all’unanimità, attribuisce al film del napoletano Mario Martone, già regista di teatro e dal 2007 direttore artistico del Teatro Stabile di Torino. Non è un caso tuttavia che alla standing ovation, seguita alla proiezione del film [un omaggio al grande poeta o a chi l’ha portato sullo schermo?] non abbia fatto riscontro un premio qualsiasi della giuria internazionale della recente Mostra del Cinema di Venezia [tra i giurati, un solo italiano: Carlo Verdone].

 Sorprende altresì il giudizio su Il giovane favoloso che Roberto Saviano dà sull’Espresso, laddove parla di un film “ironico, appassionato e rivoluzionario” e di una rappresentazione del poeta di Recanati “finalmente lontano dai luoghi comuni sulla bruttezza e l’infelicità”.

 È vero che la sceneggiatura si preoccupa di rimuovere il famoso giudizio sul “pessimismo cosmico”, così caro ai maestri di scuola e che Leopardi, mentre gusta un gelato [di gelati e di dolci, il poeta era particolarmente ghiotto] in un caffè di Napoli, urla ai suoi interlocutori di non attribuire alle sue malattie ciò che è soltanto responsabilità del suo intelletto. Ma poi è altrettanto vero che non si perde occasione nel film per sottolineare gli strali contro la natura “matrigna”, rappresentata in una scena di dubbio gusto da una grande statua di una dea che si va sgretolando, né di  mettere in risalto il disagio e le sofferenze del suo corpo, persino con la macchina da presa che indugia ad effetto sullo spuntare della gobba sulla sua schiena, e si dimentica invece di guardare in profondità quel suo odio per Recanati [che in realtà è un amore-odio] e quel suo immenso stupore per la bellezza femminile che lo farà innamorare ripetutamente e gli farà scrivere le liriche più belle, completamente ignorate nel film, sia in spirito che nei versi.

 C’è forse luogo più amato del colle e della siepe dell’infinito? Della torre del passero solitario? C’è forse un momento più gioioso di quello che nel villaggio precede il giorno di festa, pur nella lucida consapevolezza che tutto avrà fine?


La donzelletta vien dalla campagna,

In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.


Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.



Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno…

[Da Il sabato del villaggio - segue]










 E le liriche per Silvia e per la Nerina delle Ricordanze, nomi attinti dall’Aminta di Torquato Tasso, il poeta prediletto da Leopardi, scritte in realtà per Teresa Fattorini, figlia del cocchiere dei conti Leopardi, morta il 30 Settembre 1818 e per la giovane tessitrice Maria Belardinelli, morta il 3 Novembre 1827 [chi delle due sia Silvia o Nerina poco importa], non sono forse un canto all’amore e alla vita, pur nella consapevole realtà della morte che incombe su ogni creatura vivente?








  Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.



Ma rapida passasti; e come un sogno

Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore…

[Da Le ricordanze - segue]








 Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? 

Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno. 

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno…

[Da A Silvia - segue] 




  Di questo giovanile stupore per l’amore e per la bellezza femminile che porterà il Leopardi a scrivere le liriche più belle, il film non reca traccia, né del primo innamoramento descritto dal poeta nel Diario del primo amore, composto poco prima del Natale del 1817 dopo aver incontrato Geltrude Cassi Lazzari, cugina del padre e di lui più grande di sette anni.







  Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da piú d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedí, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente piú tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane. Quella sera la vidi, e non mi dispiacque, ma le ebbi a dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdí le dissi freddamente due parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto piú tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura. Cosí avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdí, i miei fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto di giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò; poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme cogli altri, e però con poco dilette, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei, e cosí ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: per la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasta fino alla sera dopo. Alla cena, la solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato piú torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre piú; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio […] E perché la finestra della mia stanza risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io sentendo passar gente cosí per tempo, subito mi sono accorto che i forestieri si preparavano al partire, e con grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giú, ho aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita […]  E cosí il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa disperare il sentir discorsi allegri, e in genere tacendo sempre, sfuggo quanto piú posso il sentir parlare, massime negli accessi di quei pensieri […] Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo […] [G.Leopardi, Tutte le opere, Sansoni, Firenze, 1988, vol.I, pp. 353 e ss.]

 Le sole donne che sembrano interessare regia e sceneggiatura, nel ricostruire la figura di Leopardi uomo e poeta, hanno a che fare con Antonio Ranieri: l’una è la sua amante, Fanny Targioni Tozzetti [Anna Mouglalis], l’altra è sua sorella, Paolina Ranieri [Federica de Cola] che, con amore fraterno, fu vicino a Giacomo negli ultimi anni della sua vita e sino alla morte. Ignorate completamente tutte le altre che pure ebbero, in diversi momenti e in diverse città, da Recanati a Roma, Bologna, Pisa, Firenze e Napoli, un ruolo non secondario, come osserva Raffaele Urraro nel suo libro: Giacomo Leopardi: le donne, gli amori. Ignorate in gran parte, nel film, persino la sorella e la madre che pure ebbero nella vita del poeta un ruolo significativo, positivo quello della sorella Paolina, non altrettanto stimolante quello della madre, almeno a quanto ne scrive Leopardi nello Zibaldone:

«Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avevan liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene».



 
Raffaele Urraro, Giacomo Leopardi Le donne, gli amori,Olschki, Firenze, 2008, pp.378




 Queste omissioni sulle donne amate dal grande recanatese, dalle quali non fu mai ricambiato, se si eccettuano forse Adelaide Tommasini che il poeta non riuscì mai ad amare profondamente, e Teresa Lucignani con la quale sfiorò il grande amore, hanno fatto riflettere più di un osservatore circa la presunta omosessualità di Giacomo Leopardi – di cui si continua a parlare  spesso a proposito e sproposito – adombrata nel film, soprattutto in relazione alla sua amicizia con Antonio Ranieri. Per la verità la tesi è appena sfiorata nel lavoro di Martone, anche se non mancano scene in cui sembrano prendere corpo le analisi di Giovanni Dall’Orto che, pur escludendo rapporti omosessuali tra Leopardi e Ranieri [dal momento che quest’ultimo ebbe molte amanti], ritiene che “una lettura in ottica gay delle opere del Leopardi vada fatta”, giungendo con sorprendente disinvoltura ad attribuire al poeta sentimenti falsi che gli sarebbero serviti di copertura. Scrive infatti:

 “A ben pensarci, cos'è “Il sabato del villaggio” se non la lamentela di chi vede "la gioventù del loco" (etero) che "mira ed è mirata", mentre lui è escluso dalla festa d'amore? 
E cos'è “Il passero solitario” se non l'espressione dell'isolamento d'ogni omosessuale che si sente “unico al mondo”? 
Forse i documenti più significativi della condizione omosessuale del Leopardi sono proprio lì, sotto gli occhi di tutti: sono le poesie che abbiamo studiato dalle elementari in poi. Ci hanno raccontato che Leopardi fu solo perché era gobbo. Balle. Era se non ricco benestante, era nobile, era stimato: una donna che lo sposasse, in un'epoca in cui il matrimonio era ancora visto come un affare economico, l'avrebbe trovata, se l'avesse voluta.
Invece insistette a far la corte a donne o sposate o "impossibili". 
Tipica strategia per non essere reciprocato...”
 [http://www.giovannidallorto.com/biografie/leopardi/leopardi.html]

 Ad ogni buon conto, il discorso sull’eterosessualità e/o sull’omosessualità latente o vissuta del Leopardi non mi appassiona e lo lascio volentieri agli amanti della curiosità morbosa, anche se va detto che mettersi a spiare dal buco della serratura è sempre un atto di povertà intellettuale e lo è doppiamente se dietro la porta c’è un grande spirito come il poeta di Recanati.

 Dov’è d’altra parte, nel film, il Leopardi “fuori dai luoghi comuni” e “ironico, appassionato e rivoluzionario” di cui parla Roberto Saviano? Per il primo aspetto, si consideri quanto ne scrive Alessio Cappuccio, forse anche esagerando [www.cinema.leonardo.it] :

 Caduto nelle grinfie di Martone, infatti, il povero Giacomo Leopardi, portato sullo schermo da un Elio Germano tanto volenteroso quanto irrigidito dal caricaturismo, ci appare come un povero sessuomane afflitto dal conflitto paterno, dall’incomprensione dei contemporanei, oltre che dall’immancabile gobba.”

 Quanto all’ironia, il Leopardi del film di Martone ne è piuttosto fatto oggetto, la sua estrema sensibilità più che alla passionalità lo induce alla sola sofferenza e il suo essere rivoluzionario – cosa che in realtà egli fu rispetto alla famiglia, all’ambiente retrivo in cui si trovò a vivere, ai letterati del suo tempo, per lo più ecclesiastici pedanti e reazionari, e persino rispetto al cattolicesimo liberale – è accennato appena, senza che sia possibile comprenderne a fondo, nella complessità delle vicende storiche di allora, la ragione e i reali propositi.

sergio magaldi

mercoledì 22 ottobre 2014

IL SUICIDIO DELLA ROMA





 Alla vigilia di Roma-Bayern, i pronostici della stampa italiana lasciavano sperare, se non nella vittoria, almeno nel pareggio dei giallorossi contro i campioni del Bayern Monaco. La fiducia si basava sulla corretta valutazione che la Roma gioca il miglior calcio del campionato italiano, a prescindere dalla formazione che il bravo e simpatico Rudi Garcia avrebbe mandato in campo.

 Non era difficile prevedere che la forza dei tedeschi di Josep Guardiola sarebbe stata soprattutto nel centrocampo e in Robben, l’olandese attualmente tra i migliori giocatori del mondo. Come rispondeva la Roma? Schierando su Robben non Holebas, ma Cole – che non è più quello di una volta e che nelle partite sin qui disputate è apparso il più debole del reparto difensivo della Roma –, preferendo Yanga Mbiwa [non male individualmente ma con scarsa visione complessiva di gioco] ad Astori e sostituendo l’infortunato Maicon [perché lasciarlo in campo per tutti i 90 minuti contro il Chievo, in una partita già vinta alla metà del primo tempo?] con Torosidis, per una difesa che non ha certo il suo pregio nell’organizzazione. Ai quattro centrocampisti tedeschi [che diventavano spesso sei] è stato opposto un solo incontrista [Naingolan]: un vero e proprio combattente, ma col compito anche di dover servire le punte: ben tre e naturalmente senza Destro che all’allenatore della Roma piace preferibilmente e inspiegabilmente vedere in panchina.

 Degli altri due centrocampisti, De Rossi gioca ormai quasi come il “libero” di una volta e Pjanic, tecnico finché si vuole, è portato più ad avanzare che ad occupare la cerniera di centrocampo. Non sarebbe stato più prudente e meno provinciale opporre alla macchina tedesca di metà campo quattro o addirittura cinque centrocampisti [visto che la Roma ne ha in abbondanza, anche aspettando il ritorno di Strootman, il più bravo di tutti?] e lasciare magari il solo Gervinho [con o senza Destro] in avanti, dal momento che senza la velocità e il dribbling dell’ivoriano, comunque sia, difficilmente la squadra riesce ad andare in goal?

 Considerazioni del dopo-partita? Osservazioni fatte col senno di poi? Non direi, se si fosse avuto il coraggio di guardare in faccia l’avversario contro il quale “il sorteggio intelligente” della Champions aveva costretto la Roma a scendere in campo. E il limite della squadra, e se volete anche il suo pregio [a differenza di tutte le altre squadre del campionato italiano, che spesso annoiano, la Roma riesce quasi sempre a divertire gli spettatori] è quello di giocare prescindendo da chi ha di fronte, preoccupata unicamente d’imporre il proprio gioco e quando questo non le riesce, finisce con lo smarrirsi.

 Varrebbe forse la pena di soffermarsi sull’arbitraggio della partita di ieri sera [un rigore inesistente contro, uno a favore, negato, calci di punizione spesso a senso unico], se non fosse la severità del punteggio [1-7], nello stadio amico e colmo di tifosi, a sconsigliare di intraprendere questa strada.



sergio magaldi

venerdì 10 ottobre 2014

LUCY ovvero:"Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?"

Lucy, regia e sceneggiatura di Luc Besson, Francia-USA, 2014, 90 minuti



 In Lei [Her], l’ottimo film di Spike Jonze, vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura e candidato ad altri 4 Oscar, Scarlett Johansson presta la sua voce a Samantha, la donna virtuale, il sistema informativo operativo informatico OS.1 [vedi il post del 5 Aprile 2014: Lei…la donna che non ti aspetti e clicca sopra per leggere]. In Lucy, l’ultimo film del regista francese Luc Besson, l’attrice svedese presta il corpo [notevole] e l’anima a una donna di carne e sangue ma altrettanto virtuale. Perché Lucy è il nome dato all’australopiteco femmina rinvenuto il 30 Novembre 1974 ad Afar [Etiopia]. Il fossile fu chiamato così in omaggio alla canzone dei Beatles, Lucy in the sky with diamonds [Lucy nel cielo coi diamanti] che la squadra dell’antropologo Donald Johanson stava ascoltando durante gli scavi.






  Lucy [nome in codice A.L.288-1, cioè Afar Locality, numero 288, primo fossile ominide] è una femmina di circa 25 anni, vissuta oltre tre milioni di anni fa,  alta tra il metro e dieci e il metro e venti, con un peso di 35-40 kg, già bipede, con un cranio ancora scimmiesco ma con una dentatura simile a quella umana. Primo anello della catena evolutiva che dalla scimmia porterebbe all’uomo, secondo alcuni, semplice variante dello scimpanzé, secondo altri.




Lucy, austrolopithecus afarensis




 La Lucy del film di Besson, nella stupenda interpretazione di Scarlett Johansson, starebbe a rappresentare l’ultimo anello di quella catena, quando l’essere umano avrà appreso ad utilizzare il 100% del proprio cervello, finendo col rendersi simile a Dio.






 L’idea che l’individuo medio faccia uso solo del 10% delle capacità cerebrali è una credenza ancora oggi molto diffusa. Si baserebbe sulle teorie formulate dagli psicologi dell’Università di Harvard alla fine dell’Ottocento e, pare, condivise anche da Albert Einstein, per non parlare di L.Ron Hubbard, fondatore di Scientology [1954] e teorico di Dianetics, la scienza moderna della salute mentale.

 C’è inoltre da osservare che le tecniche di brain imaging hanno permesso di cogliere l’evoluzione del cervello umano nel corso dei millenni, pur nella conservazione della traccia delle origini, tanto che nell’individuo contemporaneo si può parlare dell’esistenza, per così dire, di tre cervelli che non agiscono in maniera sinergica e che addirittura confliggono tra loro: il cervello rettile, più antico e sede degli istinti primari, il cervello intermedio o emotivo, comune a tutti i mammiferi e il cervello corticale o pensante, di acquisizione relativamente recente. Sotto questo profilo, dunque, non si può escludere l’evoluzione successiva del cervello umano.








 La teoria che i mass media hanno contribuito a diffondere, circa le possibilità inesplorate e dunque non ancora utilizzate del cervello umano, trova però la sua pietra d’inciampo nelle neuroscienze e in particolare nelle argomentazioni di Barry Beyerstein [1947-2007]. Prima fra tutte, quella che il cervello è un apparato "enormemente dispendioso" per il nostro corpo, perché necessita in abbondanza di ossigeno e di nutrimento, arrivando ad assorbire circa il 20% del nostro fabbisogno energetico. L’essere umano ha perciò tutto l’interesse a risparmiare energia, cosa che gli sarebbe impossibile se dovesse provvedere a “mantenere” un cervello molto più sviluppato.

 Non a caso, Luc Besson attribuisce a Lucy, via via che la ragazza apprende ad utilizzare percentuali maggiori del proprio cervello, capacità psicocinetiche e percezioni extrasensoriali sempre più sviluppate, ma al costo di crisi crescenti e grande dispendio di energia, finché, giunta ad utilizzare il 100% delle potenzialità celebrali, Lucy non potrà più “trattenersi” nella condizione umana e risolverà una volta per tutte la domanda cara alla tradizione iniziatica e non solo: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”




Paul Gauguin, "Da dove veniamo?Chi siamo?Dove andiamo?", olio su tela, 141x376, 1897, Museum of Fine Arts, Boston



 Se il soggetto del film è senza dubbio intrigante – avvalendosi, oltre che di una grande e bella Scarlett Johansson, anche di un altro raffinato interprete come Morgan Freeman, nella parte dello scienziato che sostiene la teoria delle capacità intellettuali dell’essere umano non sfruttate al massimo delle potenzialità – resta qualche perplessità in merito ai generi utilizzati per la narrazione, che peraltro è condotta con il ritmo incalzante proprio dell’arte cinematografica. L’espediente per raccontare è il commercio di droga, la violenza, il sangue che scorre in abbondanza e soprattutto il fumetto che occupa quasi senza soluzione di continuità le ultime sequenze del film. C’erano altri strumenti per rappresentare la stessa questione? Probabilmente sì, ma Luc Besson ha preferito battere le strade consuete, quelle più note e forse più gradite al grosso pubblico. Nondimeno, Lucy è un film da vedere.

sergio magaldi