Coreografia
semplice ma efficace per salutare la vittoria dei Cinque Stelle: Virginia Raggi
a mezzo busto sullo sfondo di Roma antica, indossando una sorta di tunica
bianca vagamente cristica [in realtà una lunga camicia], con i capelli neri che
le sfiorano le spalle e che scuote di continuo per le pose dei fotografi. Beppe
Grillo che si affaccia dall’hotel Forum della capitale, sollevando le braccia
al cielo e recando appeso al collo della camicia un comune appendino, simbolo dell’inattesa vittoria di Torino. E, in effetti,
se la vittoria di Roma era quasi scontata e il voto massiccio degli elettori
delle liste di destra [Meloni: 86% il flusso elettorale a favore della Raggi] e
di centrodestra [Marchini: 67% del flusso] si aggiunge semplicemente, portando alla
candidata M5S circa 350.000 voti in più di quelli presi il 5 Giugno, più che
raddoppiando i voti di Giachetti; a Torino, dove Chiara Appendino prende oltre
il 20% in più dei voti del primo turno, la scelta degli elettori di
centrodestra è stata determinante per battere Fassino. Insomma il “Tutti contro
Renzi” ha funzionato e potrebbe funzionare ancora nel futuro, anche se Sallusti
scrive oggi su Il Giornale che Beppe
Grillo “prende i voti di centrodestra e scappa”, non ricambiando il favore né a
Milano né a Bologna dove il ballottaggio vedeva i candidati di Lega e Forza
Italia in lizza contro quelli del centrosinistra. L’analisi di Sallusti per la
verità è approssimativa, perché stando ai flussi elettorali, risulta che a
Bologna un certo numero di elettori pentastellati abbia effettivamente votato
per Lucia Borgonzoni della Lega, consentendole di raggiungere una percentuale
che, se non l’aiuta a vincere, è però di tutto rispetto [45,35%]. Il fine di
Sallusti è in realtà quello di sottolineare la distanza incommensurabile che c’è
tra Centrodestra e M5S: i grillini, a suo giudizio, sono assistenzialisti
[reddito di cittadinanza anche per i fannulloni] e per nulla liberali, dicendo
di no a tutte le iniziative in grado di muovere l’economia del Paese [No-tav,
no-Olimpiadi, no-stadio ecc…], sono moralisti e giustizialisti soprattutto con
gli altri, e predicano la “decrescita felice”. Di segno opposto è invece il
giudizio che della vittoria dei Cinque Stelle dà Matteo Renzi. Non solo, egli
non chiama in causa l’apporto di destra alla vittoria pentastellata, esclude
anche trattarsi di un voto di protesta, riconoscendogli invece la volontà del
cambiamento. Insomma, Renzi non vede nel M5S un movimento alternativo, ma
concorrenziale. Il problema nasce, tuttavia, quando dalle analisi si passa ai
propositi, laddove questi sembrano orientati a riprendere la rottamazione
all’interno del suo partito, in luogo di proporla finalmente nei confronti
delle burocrazie, delle banche e delle corporazioni che, vuoi per tradizionale
inefficienza, vuoi per privilegi di casta, impediscono il reale sviluppo del
Paese. Avrà Renzi la forza per esaminare, almeno nel privato, le vere ragioni di
questa sconfitta che fa perdere al PD ben 13 capoluoghi a fronte dei 3
guadagnati e altri 42 comuni contro i 17 di nuovo insediamento? Personalmente
non credo che l’ascesa dell’ex sindaco di Firenze [41% nelle elezioni europee
del 2014] abbia messo la marcia indietro a causa dell’Italicum, della Riforma
Costituzionale o del Jobs Act. Sostenerlo, significa essere in malafede, perché
chi ha sempre osteggiato queste misure non avrebbe comunque votato per il PD.
L’appannamento o addirittura la caduta del mito di Renzi ha secondo me ragioni
più semplici.
Prima e dopo aver tirato fuori dal cilindro,
in prossimità delle elezioni europee, ottanta euro mensili per i redditi più
bassi e di questa “misura di sinistra” aver fatto ossessivamente il proprio
fiore all’occhiello, Renzi fa tabula rasa di una sinistra interna da tempo
sterile e velleitaria. Rottama all’interno del suo partito dirigenti vecchi e
nuovi ex DS, ex PCI, e solo chi si adegua alla nuova politica è lasciato
sopravvivere con funzioni decorative. Con molti è facile, ma non tiene in
giusto conto un personaggio che un giorno potrebbe fargliela pagare, rifiutandogli
un prestigioso incarico europeo, dopo - a quanto pare - averglielo promesso, e
con ciò commette il primo errore
strategico. Renzi poco se ne cura, perché il decisionismo, il dinamismo e
la spregiudicatezza gli attirano le simpatie di parte dell’elettorato di
centrodestra, già favorevolmente orientato nei suoi confronti anche per via dei
passati endorsement di Berlusconi.
Stringe il Patto del Nazareno per una giusta causa [una nuova legge elettorale
e la fine del bicameralismo perfetto], è “sbranato” a sinistra, ma procede
imperterrito, perché ha capito che le maggioranze in Italia si fanno con i voti
del centrodestra. Quando però qualcuno avverte Berlusconi che, di quel passo,
Lega e PD risucchieranno l’elettorato di Forza Italia, il Patto si rompe e Renzi è costretto a
navigare in mare aperto. L’errore non
consiste nell’aver stipulato il famoso Patto, voluto anche da Napolitano per
mettere fine, dopo trent’anni che se ne parla, al bicameralismo perfetto, ma
nel fornire a Berlusconi un alibi per la rottura, eleggendo da solo, con un
capolavoro politico che presto gli si torcerà contro, il nuovo presidente della
Repubblica. E da questo momento, da quando si mette a fare il democristiano
[lui che lo è per cultura dei padri ma non per indole e atteggiamento, tant’è
che in un recente passato rimproverò a Letta le sue “democristianerie”], i suoi
errori non si contano più. Credendo di aver sfondato nell’elettorato di
centrodestra, che l’ha sempre guardato con simpatia, vagheggia il partito della
nazione, cioè un PD tipo “balena bianca”, con percentuali elettorali superiori
costantemente al 40%. Cambia anche il suo modo di comunicare: non appare più
concorrenziale rispetto ai Cinque Stelle, si circonda di personaggi mediocri
ancorché di provata fedeltà, e annuncia solennemente misure che si rivelano insignificanti
o “fastidiose” per la borghesia piccola e media: la riforma fiscale, di cui in
Italia si parla da almeno vent’anni, si riduce al 730 precompilato di
Equitalia. Per ottenerlo, il cittadino deve compiere una vera e propria
maratona informatica: dopo aver faticosamente e quasi miracolosamente ottenuto il cosiddetto pin dispositivo, con un po’ di fortuna il
contribuente può vedere finalmente apparire sul desktop pc il famoso modello precompilato, fatto più di parole che
di cifre, e quando finalmente gli riesce di far apparire i numeri, si accorge
che è incompleto in molte sue parti e che deve ricominciare da capo, come nel
gioco dell’oca. L’alternativa è recarsi presso un sindacato e presentare lì la propria
dichiarazione dei redditi, solo che ora deve pagare, mentre prima la semplice
presentazione era gratis. Con astuzia di bottegaio, Renzi riesce dove nessun
governante prima di lui era mai riuscito: far pagare l’abbonamento TV a tutti
gli italiani, inserendo il balzello nelle già esose bollette dell’energia
elettrica, laddove molti cittadini si sarebbero aspettati da lui la
liberalizzazione della Rai e la fine del pagamento del canone a vantaggio di
un’azienda pubblica dove gli sprechi, l'assenteismo e il debito sono la regola. D’ora in poi,
come un sole al centro dell’universo, fa espandere la propria luce sui pianeti
di destra e di sinistra che s’illude di conoscere bene. Alla destra regala
l’abolizione dell’odiosa tassa [IMU] sulla casa di abitazione, restaurando il
dono di Berlusconi, alla sinistra [ma a quale sinistra?] la legge sulle unioni
civili che vuole l’Europa, ma che gli aliena parte del voto cattolico e la
benevolenza della Chiesa, che non piace all’elettorato di centrodestra e non
accontenta neppure il popolo gay che avrebbe voluto via libera al matrimonio
vero e proprio e alle adozioni. Una legge peraltro giusta nello spirito, ma
incostituzionale perché discrimina gli eterosessuali: solo il vedovo della
coppia gay e non quello dell’unione eterosessuale avrà diritto alla pensione di
reversibilità, per gli etero c’è il matrimonio, che si sposino dunque! Il
contrario sarebbe stato troppo per la chiesa cattolica e per le casse dello
stato! E ancora: la miniriforma Renzi-Giannini, della cosiddetta buona scuola, che non intacca minimamente
l’odiata Riforma Gelmini ma ha la pretesa, per così dire, di stabilizzare il
tradizionale voto al PD degli insegnanti. Con mance per i docenti ritenuti meritevoli e
l’assunzione in pianta stabile di circa centomila precari, con l’ulteriore
proletarizzazione del personale insegnante, sulla scia dei governi degli ultimi
cinquant’anni, differenziandosi solo per il massiccio numero di nuove
immissioni, giustificato dall’esigenza di mettere un freno alla girandola delle
supplenze che danneggia studenti e famiglie, e motivato da un calcolo
elettorale rivelatosi errato: molti docenti avrebbero preferito insegnare come
precari nella scuola vicino a casa, piuttosto che essere trasferiti come
docenti di ruolo da una parte all’altra dell’Italia, stante anche l’equivalenza
o addirittura la minore retribuzione [già di gran lunga inferiore alla media
europea] almeno nei primi anni del ruolo. Se a queste misure, talora e in un
certo senso persino lodevoli, ma attuate all’insegna dell’impopolarità, si
aggiunge l’eccessiva personalizzazione che Renzi mette nella pratica di governo,
il malgoverno e la corruzione di molte amministrazioni governate dal suo
partito, una cattiva burocrazia che, per aver fatto male i suoi calcoli,
costringe ora alcuni cittadini alla restituzione dei famosi ottanta euro
mensili, si comprende il calo dei consensi a sinistra da parte del PD. Quanto
alla perdita più consistente dei voti dell’elettorato di centrodestra, che
aveva votato il PD nelle elezioni europee solo per scommettere su Renzi, se ne percepisce
ancora più facilmente la causa: la rottura del Patto del Nazareno, la legge
sulle unioni civili e soprattutto una
politica giudicata imbelle nei confronti dei migranti.
A questo punto, il “Tutti contro Renzi” che
già viene rilanciato per il referendum costituzionale di Ottobre, si presta a
molte riflessioni. Per disinnescare l’alleanza indiretta M5S-Centrodestra, c’è
chi consiglia [la minoranza PD e gran parte di Forza Italia] di modificare la
legge elettorale, spostando il premio di maggioranza dalla lista alle
coalizioni. Così facendo, Renzi si assicurerebbe forse la vittoria nel
referendum, ma darebbe prova di debolezza e di scarsa coerenza, senza essere
sicuro neppure di vincere le lezioni del 2018. Ma il paradosso più divertente è
il massiccio impegno annunciato dal M5S
per il No al Referendum,
quando proprio il Sì, con il
mantenimento dell’Italicum così
com’è, gli darebbe molte probabilità di vincere le elezioni. Si preferisce invece
far cadere Renzi, con le riforme costituzionali e la nuova legge elettorale,
con la speranza che il caos politico che ne seguirebbe finirebbe per favorire
l’ascesa dei pentastellati al potere. Illusione:
nel PD, nel caso prevalesse il No al
Referendum, sono già pronte alternative moderate e dialoganti con il centrodestra,
per un nuovo governo delle larghe intese
che metta nell’angolo tanto la Lega di Salvini che i Cinque Stelle.
sergio
magaldi
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