Il voto referendario è stato esaminato sotto
ogni possibile aspetto e significato: i giovani, le regioni meridionali, le
periferie, i poveri hanno votato in netta maggioranza per il No; gli anziani, le regioni del nord, i
centri storici, i ricchi hanno votato mediamente e in prevalenza per il Sì. Il dato incontestabile, ancorché di
vago sapore manicheo, offre diverse riflessioni. La prima, da più parti messa
in evidenza, è che non si è votato sulla riforma costituzionale ma sulla
condizione sociale in cui versa questo Paese ormai da circa vent’anni, con una
oligarchia stabile della ricchezza e del potere, la falcidia premeditata dei
redditi medi e bassi in conseguenza dell’avvento dell’euro, la
proletarizzazione della classe media, la cinesizzazione del lavoro, la
crescente disoccupazione giovanile, la corruzione dilagante, il flusso
migratorio inarrestabile e così via.
Ogni partito politico non rappresentato sui
banchi di governo aveva la sua fetta di buone ragioni per invitare i propri
elettori a dire un No chiaro e
tondo: l’unico modo pacifico per manifestare il dissenso politico e credere di
contare ancora qualcosa in questa democrazia malata che non riesce neppure a
varare una legge elettorale. Chi si è offerto alla bisogna come capro
espiatorio? Diamine! Non poteva che essere Matteo Renzi, l’ex sindaco di
Firenze che da anni, nel bene e nel male [vedi in proposito il post del 22
Giugno 2016: “Gli errori di Matteo Renzi” e clicca sul titolo per leggere], si agita nel tentativo impossibile di
muovere le acque chete e torbide di una società ormai alla deriva. Solo un
uomo come lui, dotato di grande presunzione e di altrettanta leggerezza, poteva
offrirsi per questo rito di espiazione invocato da un’intera classe politica, vera
responsabile dell’abisso in cui è precipitato il Paese.
La cerimonia è perfettamente riuscita e ogni
partito politico, compreso il 20% del Pd guidato da Renzi, può rivendicare per
sé un qualche merito nell’intestarsi la vittoria del popolo sovrano. In realtà,
gli italiani hanno fatto quello che gli stessi partiti – alternatisi al governo
negli ultimi vent’anni con i risultati che abbiamo sotto gli occhi [con
l’eccezione del M5S, in campo solo da tre anni] – gli hanno chiesto di fare. Ed
ecco la riflessione più semplice e meno considerata: più che una vittoria di popolo,
come si sente ripetere da destra e da sinistra, è stata una festa della partitocrazia, non solo
perché sono popolo sia gli oltre 19 milioni di voti del No che gli oltre 13
milioni di voti del Sì, quanto perché il voto, pur con le motivazioni sociali che lo giustificano, riflette le
percentuali attribuite ai singoli partiti dagli ultimi sondaggi elettorali e
che, al di là del trasformismo che, in mancanza del vincolo di mandato per gli
onorevoli, ha frazionato il Parlamento in 23 gruppi parlamentari, rispecchia
mediamente – con l’eccezione del centrodestra dove la Lega ha rovesciato a
proprio vantaggio il rapporto con Forza Italia – i risultati elettorali delle
ultime elezioni politiche del 2013. I sondaggi del TG di la 7 del 28 Novembre e
del 4 Dicembre [non diversamente da altre fonti] attribuiscono ai partiti del
No una percentuale oscillante tra il 68,2 e il 68,7 [M5S-Lega Nord-Forza
Italia-Fratelli d’Italia-Sinistra Italiana-Pd minoranza] e ai partiti del Sì
una percentuale tra il 28,5 e il 28,6 [Pd maggioranza-Ncd-Udc]. Il risultato
referendario modifica soltanto in parte le potenzialità elettorali degli
schieramenti in campo: circa 9 punti in meno per il fronte del No [59,11%] e circa 12 punti in più per il fronte del Sì [40,89%].
Nella sostanza, dunque, il popolo italiano,
com’è nella sua storia, si conforma alle indicazioni dei partiti.
La riflessione, banale quanto si vuole e per questo poco esercitata dagli
addetti ai lavori, non è senza conseguenze. La prima è che il popolo sovrano
non ottiene alcun vantaggio da questa “straordinaria” vittoria. La seconda è
che neppure un mago avrebbe potuto quasi raddoppiare la percentuale di base di
cui disponeva il fronte del Sì e averlo creduto possibile da parte di Renzi non
è stato solo un peccato di ubris e di
temerarietà, che in fin dei conti riguarda solo il suo destino personale, ma è
prima di tutto ciò che ne fa un uomo politico di una ingenuità sconcertante che
ha finito col vendere illusioni ai suoi stessi elettori e a quanti avevano creduto
di vedere in lui il volto finalmente nuovo della politica italiana. Nulla è per
sempre e può darsi benissimo che per il futuro egli faccia tesoro della
lezione. La terza è che si parli di grande sorpresa per il risultato da parte
di chi [e sono in tanti] non era accecato dal cupio dissolvi del premier. Quando Forza Italia, come sempre
inaffidabile per la natura stessa di chi la guida e di chi ne fa parte, lo ha
lasciato col cerino in mano – dopo aver fatto parte della maggioranza
parlamentare che aveva approvato la riforma costituzionale – saggezza avrebbe
voluto che il Referendum fosse “spacchettato” – come avevano proposto i
radicali – in tre o quattro quesiti: 1)Superamento del bicameralismo perfetto,
togliendo al Senato rimasto elettivo solo l’approvazione delle leggi ordinarie,
2)Soppressione del CNEL, 3)Riforma del titolo V, parte II, della Costituzione,
4)Riforma sui referendum
costituzionali e le leggi di iniziativa popolare.
Con molta probabilità su tre dei
quattro quesiti avrebbe prevalso il Sì, mentre il No avrebbe bocciato la
riforma del titolo V perché contraria agli interessi di campanile. Comunque
sia, sarebbe stato un voto molto più referendario che politico e il governo non
ne sarebbe stato toccato. Ma Renzi ha preferito “tutto o niente” e al sistema
partitocratico, giocando la facile partita del “tutti contro uno”, non è parso
vero invitare i propri elettori a rispondere “niente”.
sergio magaldi