Il frazionismo è la malattia congenita della
sinistra italiana sin dalla culla: dalla scissione di Livorno del 1921, con la
nascita, da una costola del Partito Socialista, del Partito Comunista
d’Italia [poi PCI] e via via con la
fuoriuscita della frazione trotskista con il nome di Partito Comunista
Internazionalista [poi “internazionale”] già alla fine della seconda guerra mondiale
e la nuova scissione dalla destra del PSI con il Partito Socialista dei
lavoratori italiani del 1947.
A partire dal 1960 abbiamo: la breve apparizione del
Partito Socialista Unitario [PSU], di nuovo separato con la rinascita del
Partito Socialdemocratico, Il Partito Socialista di Unità Proletaria [PSIUP]
che poi confluirà nel PCI, la scissione dal PCI di alcuni intellettuali che
danno vita al Manifesto, la formazione del Partito di Unità Proletaria
[PDUP]. Nel 1975 nasce Democrazia Proletaria che unisce insieme i principali
movimenti della cosiddetta sinistra extraparlamentare e che, in vita sino al
1991, non raggiungerà mai il 2% dei voti, pur ottenendo sempre rappresentanti
in Parlamento, grazie ad un legge elettorale fortemente proporzionale. Dopo gli
anni novanta e la trasformazione nominalistica del vecchio PCI, prima in
Partito democratico della sinistra [PDS], poi in DS o democratici di sinistra
sino alla confluenza nell’attuale Partito Democratico [PD] con la Margherita
[ex DC], si assiste a tutta una fioritura di sigle che si richiamano alla
tradizione comunista o più in generale a quella della sinistra: Rifondazione
Comunista, Comunisti Unitari, Sinistra Ecologia e Libertà [SEL], Sinistra
Italiana [SI]. Ho volentieri omesso la vicenda di tanti altri minori
frazionismi all’interno della sinistra. Nota a tutti la cronaca delle attuali
vicende scissionistiche: da Sinistra Italiana si stacca il gruppo di Arturo
Scotto che insieme ai fuoriusciti del PD dà vita ad una nuova formazione
politica che, a quanto pare, si chiamerà Movimento dei democratici e dei
progressisti, DP [democratici e progressisti] nella sigla speculare al PD [da
non confondersi con la stessa sigla che apparteneva a Democrazia Proletaria] e
nella quale resta difficile comprendere chi siano i democratici e chi i
progressisti.
Il frazionismo della sinistra italiana ha
avuto sempre due componenti: quella personalistica, ineliminabile perché fa
parte delle logiche di potere, ancorché si sia sempre sostenuto che nella
sinistra contano le idee e le forze sociali e non le persone, e quella legata
all’obiettivo della trasformazione sociale, prima con la rivoluzione, poi con
le riforme. Il paradosso è che il frazionismo, marginale quando ancora si crede
nella rivoluzione, diviene frequentissimo quando si comincia a parlare di
riforme. Analogamente, la componente personalistica e di potere aumenta di pari
passo col restringersi del campo delle riforme compatibili in una società
dominata dal capitalismo finanziario e caratterizzata dal fenomeno della
globalizzazione che, attraverso la delocalizzazione delle imprese, le
migrazioni più o meno indotte con la relativa abbondanza di manodopera a basso
costo, e i processi di automazione industriale, toglie linfa alla tradizionale
dialettica capitale-lavoro, di cui la sinistra si era sempre alimentata. Quando
si dice che ormai non c’è più distinzione tra destra e sinistra, si afferma,
certo qualcosa di falso – perché le vecchie bandiere, ancorché arrotolate e
riposte sono sempre in grado di sventolare di nuovo in difesa di valori e di diritti fondanti e irrinunciabili – ma
si intende sostenere che la realtà nella quale viviamo non è più comprensibile
alla luce delle vecchie categorie del secolo scorso. Avviene così che le
scissioni a sinistra siano sempre più piccole lotte di potere e che le riforme
[quali riforme?!] cui si richiamano gli scissionisti si sostanzino solo di
parole, quando addirittura non siano frutto di conservazione e dell’incapacità
di cogliere l’attuale dialettica sociale.
Nei giorni scorsi, con ’annuncio della
scissione nel Partito Democratico, si è subito parlato di nuova separazione,
per così dire, dei due mazzi di carte [ex PCI ed ex DC] che dieci anni fa
furono mescolati assieme nell’intento di dar vita ad una nuova formazione,
anche tenendo conto della legge elettorale maggioritaria, allora vigente. Oggi
che si profila il voto con una legge proporzionale, l’amalgama mal riuscito non
ha più ragione di essere, si sente dire da più parti. L’analisi non mi sembra
convincente e prefigura il tentativo di nobilitare
l’ennesimo frazionismo di sinistra. Se ne vanno – è vero – Bersani e D’Alema,
che facevano parte della vecchia nomenklatura, e con loro se ne va una parte
degli epigoni, ma restano nel PD tutti gli altri: ex comunisti o comunque
quadri autorevoli degli ex DS.
Le maggiori scissioni del passato ebbero una
loro funzione e si dimostrarono utili, a prescindere dal giudizio soggettivo e
di valore, per le lotte dei lavoratori o per la governabilità del Paese. Fu
così quando dalla costola di sinistra di un Partito Socialista imbelle e
rissoso nacque il Partito Comunista o quando dalla costola di destra dello
stesso PSI si formò il Partito socialdemocratico, funzionale all’allenza con la
Democrazia Cristiana per governare nel clima della guerra fredda. La nuova
scissione dalla sinistra del PSI con la nascita del PSIUP fu la naturale
conseguenza dell’alleanza storica tra DC e PSI nel periodo del cosiddetto
miracolo economico che avrebbe trasformato l’Italia in una delle maggiori
potenze industriali del mondo. I psiuppini furono la risposta con cui si guardò
con scetticismo, a torto o a ragione, ad un benessere economico che,
appannaggio delle classi dominanti, avrebbe finito col ritorcersi contro i
lavoratori. L’utilità del PSIUP, giudicato addirittura più a sinistra del PCI,
partito nel quale più tardi finirà per confluire, fu di mantenere aperto, in
area socialista, il fronte delle rivendicazioni popolari.
Le scissioni dagli anni settanta in poi furono
determinate dall’avvicinamento tra DC e PCI, dall’idea di compromesso storico
di Berlinguer e dai tentativi di Aldo Moro di cementare l’intesa storica tra
cattolici e socialisti, allargandola ai comunisti. Il proliferare dei movimenti
extraparlamentari fu anche la naturale conseguenza del Maggio francese e delle
lotte operaie guidate da avanguardie intellettuali che processarono la società
borghese sotto ogni riguardo, determinando in tutta Europa non già una
rivoluzione economica, com’era nelle aspirazioni, ma certamente una rivoluzione
di costume e di valori. Da allora, i dirigenti dei partiti comunisti
tradizionali furono tacciati di essere diventati i difensori dell’ordine
costituito e il frazionismo all’interno della sinistra divenne quasi la regola.
Dopo la caduta del muro di Berlino e la critica del comunismo sovietico che in
Italia era cominciata almeno vent’anni prima, il PCI tolse dal suo nome ogni
riferimento alla parola “comunista” e la conseguenza inevitabile fu la nascita
di tanti piccoli partiti che quello stesso nome, vuoi per nostalgia dei vecchi
ideali, vuoi per ritagliarsi uno spazio elettorale, se lo misero al proprio
occhiello, anche se con scarsa fortuna.
[segue]
sergio magaldi
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