La crisi della democrazia rappresentativa sembra
ormai prossima a raggiungere il suo punto culminante e le ragioni sono molteplici.
I cosiddetti rappresentanti del popolo sono spesso ostaggio delle segreterie di
partito o, quando vengono scelti mediante le preferenze, del denaro che
finanzia le loro campagne elettorali. Il potere legislativo è sempre più
appannaggio del potere esecutivo, quando addirittura non finisce per essere
“disciplinato” dal potere giudiziario a seguito dei numerosi casi di corruzione
di chi è stato chiamato a rappresentare i cittadini. Gli eletti non hanno
spesso la necessaria competenza per legiferare e non sono tenuti a rispondere
del loro operato di fronte al popolo sovrano. Alcuni di loro diventano così sempre
più di frequente “merce” per il maggiore offerente nel mercato ormai
consolidato del trasformismo parlamentare.
Tutto ciò è persino naturale dal
momento che l’istituto della democrazia rappresentativa, nella forma in cui lo
conosciamo – rivoluzionario nella sua genesi come risposta all’ancien régime, dove la rappresentanza politica era
concepita per classi o “stati”: clero, nobiltà e borghesia – è vecchio di circa
due secoli e mezzo nel continente europeo e negli Stati Uniti d'America e di oltre tre secoli e mezzo in
Inghilterra, basandosi senza soluzioni di continuità sui principi del
liberalismo classico in base ai quali il deputato, promosso al rango di
“onorevole”, diventa un rappresentante privilegiato della nazione, absolutus,
sciolto cioè da ogni riferimento alla volontà politica dei suoi elettori. Si
aggiunga a tutto ciò – e forse questo è l’aspetto che ha contribuito al
precipitare della crisi della democrazia rappresentativa – che l’occidente
europeo vive attualmente in una condizione in cui la maggior parte delle
decisioni degli stati dell’Unione sono prese da una Banca Centrale [BCE] del
tutto autonoma dai parlamenti nazionali e dalla volontà dei cittadini; vive
cioè in una condizione feudale simile a quella in cui si trovava la Francia
prima della rivoluzione del 1789, allorché la sovranità si divideva tra clero e nobiltà. Oggi, il potere si divide tra alta finanza e governance
europea e neppure è assente la nuova schiavitù
prodotta da una immigrazione selvaggia, generata da una globalizzazione
altrettanto selvaggia e da una delocalizzazione delle imprese a caccia di una forte
riduzione del costo del lavoro.
La crociata contro il cosiddetto
populismo cresce ogni giorno di più ed è bene intendersi. Populista fu detto
anche Pericle, in un’età che pure va annoverata come quella di maggior
splendore di Atene, della polis e dell’isonomia,
cioè dell’eguaglianza di tutti i
cittadini liberi di fronte alla legge. Insomma, se per populismo s’intende una
concezione etico-totalitaria dello Stato che non ammette diversità di opinione
e che addirittura persegue il dissenso, allora siamo già nel fascismo; se,
viceversa, con populismo si richiama il concetto di sovranità popolare – che persino nei termini fu una conquista
relativamente tarda della storia umana [il primo a parlarne fu Johannes
Althusius nei primi decenni del XVII secolo] – allora si vuole semplicemente dire
che a nessun altro potere è lecito l’esercizio della sovranità, perché questa appartiene al popolo per diritto di natura,
un diritto umano per il cui riconoscimento nel corso dei secoli, così come per
tanti altri diritti, uomini e donne hanno versato il proprio sangue.
Come
giustamente osserva Hegel nelle sue lezioni berlinesi [Lezioni sulla Storia
della Filosofia, La Nuova Italia, Firenze, 1964, vol.III,2, pp. 259-262], col
porsi il problema della giustificazione dello Stato, Rousseau introduce nella Storia un elemento
sino ad allora sconosciuto: il principio della libertà. Il suo merito consiste
nel pretendere che il principio di libertà, che per natura appartiene ad ogni
essere umano, trovi finalmente il giusto riconoscimento nello Stato, divenendo insieme l’elemento fondativo e giustificativo di ogni patto sociale.
La rinuncia
alla libertà, anche se fatta a vantaggio di un’assemblea, è di per sé un atto
contro natura, perché – annota ancora Jean-Jacques Rousseau nel Contratto
Sociale [libro III, cap.XV] – “La sovranità non può essere rappresentata per la
stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente
nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta; essa è la medesima o è
un’altra; non c'é una via di mezzo. I deputati del popolo, dunque, non sono né
possono essere i suoi rappresentanti; essi non sono che i suoi commissari e non
possono concludere nulla in via definitiva […] L'idea dei rappresentanti è
moderna; proviene a noi dal governo feudale, da quell'iniquo e assurdo governo
nel quale la specie umana viene degradata e il nome stesso di uomo era un
disonore. Nelle antiche repubbliche e persino nelle monarchie, il popolo non
ebbe mai rappresentanti: la parola stessa era ignorata […] a Roma, dove pure i
tribuni erano sacri, non si è neppure immaginato che essi potessero usurpare le
funzioni del popolo […]. Presso i Greci, tutto quello che il popolo doveva
fare, lo faceva da sé e si adunava di continuo sulla piazza, in pubblica
assemblea”.
Rousseau non ha mai ignorato le obiezioni –
non si sa se più ironiche o più spaventate – dei suoi contemporanei, circa la
possibilità di rendere effettivo l’esercizio della democrazia diretta in un
grande stato e non più soltanto in una città-stato dell’antichità dove,
peraltro, le donne e gli schiavi non godevano dei diritti politici. Nelle Considerazioni
sul governo della Polonia del 1772, egli dichiara esplicitamente che in un
grande stato “il potere legislativo non può essere esercitato che mediante i deputati
del popolo” [cap.VII], alla condizione tuttavia che questi siano cambiati di
frequente e che siano unicamente i portavoce di decisioni prese altrove dal
popolo e con la massima precisione, al fine di evitare, egli dice, “il male
terribile della corruzione”.
Gli argomenti utilizzati ancora oggi contro il
pensiero politico di Rousseau riguardano non solo la mitizzazione dello stato
di natura, la critica del progresso, il vincolo di mandato per i parlamentari e
l’istituzione della democrazia diretta – ritenuta utopistica e/o dannosa e di
cui Rousseau è considerato l’antesignano – ma anche e soprattutto la mancata
distinzione dei poteri all’interno dello stato, nel nome di una sovranità
popolare che si manifesta mediante quella volontà generale che sarebbe
alla base dello stato etico e totalitario. Si rimprovera infine a Rousseau la
critica che egli fa delle leggi costituzionali.
L’accusa fatta a Rousseau di contrapporre alla
società civile, il mito del “buon selvaggio”, in uno stato paradisiaco di natura
che non è mai esistito, nonché di sostenere la tesi di come il progresso delle
scienze e delle arti abbia peggiorato i costumi, in luogo di migliorarli, si
basa su una lettura superficiale e destoricizzata del Discorso sulle scienze
e sulle arti [1750] e del Discorso sulle origini e i fondamenti
della disuguaglianza tra gli uomini [1754. Il buon selvaggio non è altro
che un paradosso da contrapporre all’uomo malvagio di cui aveva parlato Hobbes
per giustificare il patto sociale e il potere, così dello Stato liberale come dello
Stato assoluto. Insomma, l’uomo primitivo e virtuoso non è altro che
un’astrazione utilizzata da Rousseau per valutare la condizione dell’uomo
socializzato del suo tempo, come riconosce lui stesso in una lettera del 1762
all’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont: “Quest'uomo
non esiste, voi direte. E così sia; ma quest'uomo può esistere come ipotesi,
essenziale per giudicare la condizione attuale degli individui nella società”. Quanto alla tesi che il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito
a peggiorare il costume umano è abbastanza evidente che si tratti di un altro paradosso.
Rousseau ha sotto gli occhi la società francese della metà del XVIII secolo,
con il suo regime assolutistico e corrotto, peraltro non più tenuto insieme dal
carisma del Re Sole, ma governato dall’imbelle Luigi XV [1715-1774] che affidò
il potere nelle mani del suo precettore, il cardinale de Fleury, per una
politica di sprechi, di corruzione e di privilegi ad esclusivo appannaggio della
nobiltà e del clero. In tale contesto, scienze ed arti erano per Rousseau come
“le ghirlande di fiori poste sulle catene” che imprigionavano il terzo stato e
il popolo minuto. Quel che sembra, ai malevoli interpreti di Rousseau, un
discorso contro il progresso, è in realtà una presa di posizione contro le
sovrastrutture che servivano ad abbellire l’ancien régime.
Continuando,
il vincolo di mandato parlamentare si rivela necessario per sopperire alla
mancanza di democrazia diretta, laddove questa risulti di difficile attuazione
in un grande stato. La divisione dei poteri non è negata da Rousseau perché la
sovranità indivisibile e inalienabile riguarda unicamente il potere legislativo
del popolo, laddove le competenze esecutive, amministrative e giurisdizionali
vanno ripartite tra organismi e soggetti diversi, ancorché il potere esecutivo debba
sempre essere subordinato a quello legislativo, nel senso che quest’ultimo ha
il compito di controllarlo ed eventualmente sostituirlo quando le leggi
approvate non siano effettivamente applicate. E ancora: la cosiddetta volontà generale non si identifica per
Rousseau con un potere statuale che trascenda la volontà e la libertà dei
cittadini nel nome di un’astratta sacralità, fosse pure quella rappresentata
dalla sovranità popolare – ciò che ne farebbe uno Stato etico e totalitario –
la volontà generale va intesa piuttosto come l’espressione di una complessità
democratica in cui a nessun individuo è impedito l’esercizio della sovranità.
Infine, la critica fatta a Rousseau di non amare le leggi costituzionali si
rivela faziosa, perché il grande ginevrino si limita a dire che lo Stato può
ben darsi una Costituzione ma deve valutare la possibilità di cambiarla
velocemente e semplicemente col mutare stesso di quella volontà generale
che è la condizione stessa della legittimità e dell’unità dello Stato.
Rousseau non fu amato nel suo tempo che di
rado seppe
comprenderlo e più spesso lo condannò come sovversivo, relegandolo in una
condizione di indigenza e di solitudine e
bruciando pubblicamente i suoi scritti, ancorché su di lui resti l’elogio di in
grande contemporaneo come il filosofo inglese David Hume: “È simile a un uomo che si sia spogliato non
solo dei suoi vestiti, ma della sua stessa pelle e che, in quelle condizioni, si
sia buttato a combattere contro i violenti e tempestosi elementi che
perpetuamente agitano questo basso mondo”. E soprattutto resta di lui l’apprezzamento di due
colossi del pensiero occidentale come Kant ed Hegel. Male interpretato da
Robespierre, egli conobbe anche gloria postuma negli anni cruenti della
rivoluzione francese e per onorarlo i giacobini ne traslarono i resti dalla tenuta di Ermenonville,
di proprietà del marchese René-Louis de Girardin – dove era stato ospite dal
mese di aprile del 1778 al 2 luglio, giorno della morte e della provvisoria
sepoltura – al Panthéon di Parigi.
La fama di
pensatore giacobino e radicale ha accompagnato Rousseau nel corso degli ultimi
due secoli. I circoli accademici non lo hanno mai studiato a fondo, preferendo
soffermarsi sulla sua figura di pedagogo, più spesso per sottolinearne le
utopie educative. Sulla scia di Voltaire si preferì vedere in lui la
contraddizione tra uomo pubblico e privato, più degno di essere studiato dalla
psicanalisi che dalla filosofia e dalla politica. Marx, ignorando la lezione di
Hegel, ne fa l’espressione tipica della borghesia giacobina, i politici, in
particolare i politici italiani di destra, di centro e di sinistra non lo hanno
mai avuto in simpatia per il suo radicalismo e la sua “pericolosità sociale”
che giunge sino a delegittimare quello Stato in cui la sovranità non appartenga
al popolo o vi appartenga solo formalmente.
In tale
prospettiva, grande merito va riconosciuto a Roberto Casaleggio, a Beppe Grillo
e al M5S, per aver riscoperto politicamente la figura di Jean-Jacques Rousseau.
Nel descrivere la natura umana,
nell’individuare la fonte stessa del liberalismo, nell’intuire il fondamento
della sovranità popolare e la legittimità del suo potere, non c’è dubbio che
Rousseau sia un autentico precursore della modernità e della post modernità. La
questione semmai è il rischio di fare del ginevrino niente di più che una
bandiera e/o di ridurlo ad una “piattaforma”, valida in sé ma ancora generica e
fuorviante. Louis Althusser definì l’opera di Jean-Jacques Rousseau un
capolavoro complicatissimo, labirintico, apparentemente contraddittorio. Ebbene,
nell’apparente contraddizione tra il vagheggiamento della polis antica,
vista come mirabile connubio di esigenze individuali e sociali, e
l’impossibilità di utilizzare le forme della democrazia diretta in un grande
stato, Rousseau fornisce più di un elemento per superare l’apparente
inconciliabilità tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.
Per
quanto riguarda il nostro Paese non si tratta di ricorrere alla democrazia
cosiddetta partecipativa, ingannevole e illusoria se non addirittura
demagogica, né di ricercare forme ibride in cui il cittadino e il suo
rappresentante siano entrambi solo apparentemente legislatori, come avviene oggi con il referendum,
opportunamente filtrato e pilotato per esigenze di potere. L’istituto
referendario va mantenuto, ma senza condizionamenti di sorta, né relativi
ad un eccessivo numero di richiedenti, né subordinati ad un quorum prestabilito. Neppure si tratta soltanto della democrazia
elettronica del nostro tempo, dove è possibile manifestare rapidamente la
propria volontà, ma con il rischio di decisioni prese per spirito di fazione o
magari senza la dovuta informazione e con scarsa riflessione, ricreando
condizioni di consenso simili a quelle tradizionali. Si tratta invece di
immaginare una forma nuova di espressione democratica in cui ogni cittadino, se
davvero lo desidera, sia messo nella condizione di decidere della cosa
pubblica.
Nel recente Convegno sulle forme della democrazia organizzato
a Roma dal Movimento Roosevelt nei
giorni 8 e 9 Aprile, è emersa l’esigenza di approfondire il dibattito su
soluzioni alternative a quelle dell’attuale democrazia rappresentativa, sempre
più divenuta un guscio vuoto, non più in grado di rappresentare i cittadini nel
nome dei quali riceve la propria legittimità. A tal fine, al termine dei lavori
del convegno, l’Assemblea del movimento ha approvato la formazione di due
gruppi di studio – che potranno essere unificati e in cui confluiranno anche
non iscritti al Movimento Roosevelt – per giungere alla formulazione di una
proposta per ottimizzare e legalizzare gli strumenti digitali di manifestazione
della volontà dei cittadini, nonché per individuare forme concrete di riforma
costituzionale in grado di dare nuovo vigore e nuova legittimità al potere
legislativo di uno stato autenticamente democratico.
sergio magaldi
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