martedì 11 aprile 2017

LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

  

 La crisi della democrazia rappresentativa sembra ormai prossima a raggiungere il suo punto culminante e le ragioni sono molteplici. I cosiddetti rappresentanti del popolo sono spesso ostaggio delle segreterie di partito o, quando vengono scelti mediante le preferenze, del denaro che finanzia le loro campagne elettorali. Il potere legislativo è sempre più appannaggio del potere esecutivo, quando addirittura non finisce per essere “disciplinato” dal potere giudiziario a seguito dei numerosi casi di corruzione di chi è stato chiamato a rappresentare i cittadini. Gli eletti non hanno spesso la necessaria competenza per legiferare e non sono tenuti a rispondere del loro operato di fronte al popolo sovrano. Alcuni di loro diventano così sempre più di frequente “merce” per il maggiore offerente nel mercato ormai consolidato del trasformismo parlamentare. 
 Tutto ciò è persino naturale dal momento che l’istituto della democrazia rappresentativa, nella forma in cui lo conosciamo – rivoluzionario nella sua genesi come risposta all’ancien régime, dove la rappresentanza politica era concepita per classi o “stati”: clero, nobiltà e borghesia – è vecchio di circa due secoli e mezzo nel continente europeo e negli Stati Uniti d'America e di oltre tre secoli e mezzo in Inghilterra, basandosi senza soluzioni di continuità sui principi del liberalismo classico in base ai quali il deputato, promosso al rango di “onorevole”, diventa un rappresentante privilegiato della nazione, absolutus, sciolto cioè da ogni riferimento alla volontà politica dei suoi elettori. Si aggiunga a tutto ciò – e forse questo è l’aspetto che ha contribuito al precipitare della crisi della democrazia rappresentativa – che l’occidente europeo vive attualmente in una condizione in cui la maggior parte delle decisioni degli stati dell’Unione sono prese da una Banca Centrale [BCE] del tutto autonoma dai parlamenti nazionali e dalla volontà dei cittadini; vive cioè in una condizione feudale simile a quella in cui si trovava la Francia prima della rivoluzione del 1789, allorché la sovranità si divideva tra clero e nobiltà. Oggi, il potere si divide tra alta finanza e governance europea e neppure è assente la nuova schiavitù prodotta da una immigrazione selvaggia, generata da una globalizzazione altrettanto selvaggia e da una delocalizzazione delle imprese a caccia di una forte riduzione del costo del lavoro.
 Biagio de Giovanni in un articolo pubblicato ieri mattina su Il Messaggero, a commento del Convegno pentastellato di Ivrea, riconosce la crisi attuale della democrazia rappresentativa, ma tutto preso com’è dalla critica della democrazia diretta prospettata dal Movimento Cinque Stelle, si dimentica poi di indicare la soluzione del problema, se non attraverso un generico appello alla ‘ricostituzione di un tessuto rappresentativo’ che a guardar bene significa poco e niente. Scrive, tra l’altro, Biagio de Giovanni: “[…] la crisi della democrazia rappresentativa è la crisi dello Stato-nazione che la ha contenuta dentro di sé, ma la risposta non è lo sfasciamento delle mediazioni e l’appello al popolo. È piuttosto la ricostituzione di un tessuto rappresentativo che sappia tener conto della nuova sintesi da creare tra nazione ed Europa”. E significa poco e nulla perché continuando a leggere l’articolo non si auspica minimamente una riforma che muti la natura attuale dell’Europa da “Unione monetaria” a “Unione di popoli”, ma si mette in guardia contro lo spettro del populismo: “La crisi c’è, è evidente, i movimenti nascono da questo, si è aperto un nuovo capitolo di psicologia delle folle che può condurre ovunque”.
 La crociata contro il cosiddetto populismo cresce ogni giorno di più ed è bene intendersi. Populista fu detto anche Pericle, in un’età che pure va annoverata come quella di maggior splendore di Atene, della polis e dell’isonomia, cioè dell’eguaglianza di tutti i cittadini liberi di fronte alla legge. Insomma, se per populismo s’intende una concezione etico-totalitaria dello Stato che non ammette diversità di opinione e che addirittura persegue il dissenso, allora siamo già nel fascismo; se, viceversa, con populismo si richiama il concetto di sovranità popolare – che persino nei termini fu una conquista relativamente tarda della storia umana [il primo a parlarne fu Johannes Althusius nei primi decenni del XVII secolo] – allora si vuole semplicemente dire che a nessun altro potere è lecito l’esercizio della sovranità, perché questa appartiene al popolo per diritto di natura, un diritto umano per il cui riconoscimento nel corso dei secoli, così come per tanti altri diritti, uomini e donne hanno versato il proprio sangue.
 Come giustamente osserva Hegel nelle sue lezioni berlinesi [Lezioni sulla Storia della Filosofia, La Nuova Italia, Firenze, 1964, vol.III,2, pp. 259-262], col porsi il problema della giustificazione dello Stato,  Rousseau introduce nella Storia un elemento sino ad allora sconosciuto: il principio della libertà. Il suo merito consiste nel pretendere che il principio di libertà, che per natura appartiene ad ogni essere umano, trovi finalmente il giusto riconoscimento nello Stato, divenendo insieme l’elemento fondativo e giustificativo di ogni patto sociale.
 La rinuncia alla libertà, anche se fatta a vantaggio di un’assemblea, è di per sé un atto contro natura, perché – annota ancora Jean-Jacques Rousseau nel Contratto Sociale [libro III, cap.XV] – “La sovranità non può essere rappresentata per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta; essa è la medesima o è un’altra; non c'é una via di mezzo. I deputati del popolo, dunque, non sono né possono essere i suoi rappresentanti; essi non sono che i suoi commissari e non possono concludere nulla in via definitiva […] L'idea dei rappresentanti è moderna; proviene a noi dal governo feudale, da quell'iniquo e assurdo governo nel quale la specie umana viene degradata e il nome stesso di uomo era un disonore. Nelle antiche repubbliche e persino nelle monarchie, il popolo non ebbe mai rappresentanti: la parola stessa era ignorata […] a Roma, dove pure i tribuni erano sacri, non si è neppure immaginato che essi potessero usurpare le funzioni del popolo […]. Presso i Greci, tutto quello che il popolo doveva fare, lo faceva da sé e si adunava di continuo sulla piazza, in pubblica assemblea”.
 Rousseau non ha mai ignorato le obiezioni – non si sa se più ironiche o più spaventate – dei suoi contemporanei, circa la possibilità di rendere effettivo l’esercizio della democrazia diretta in un grande stato e non più soltanto in una città-stato dell’antichità dove, peraltro, le donne e gli schiavi non godevano dei diritti politici. Nelle Considerazioni sul governo della Polonia del 1772, egli dichiara esplicitamente che in un grande stato “il potere legislativo non può essere esercitato che mediante i deputati del popolo” [cap.VII], alla condizione tuttavia che questi siano cambiati di frequente e che siano unicamente i portavoce di decisioni prese altrove dal popolo e con la massima precisione, al fine di evitare, egli dice, “il male terribile della corruzione”.
 Gli argomenti utilizzati ancora oggi contro il pensiero politico di Rousseau riguardano non solo la mitizzazione dello stato di natura, la critica del progresso, il vincolo di mandato per i parlamentari e l’istituzione della democrazia diretta – ritenuta utopistica e/o dannosa e di cui Rousseau è considerato l’antesignano – ma anche e soprattutto la mancata distinzione dei poteri all’interno dello stato, nel nome di una sovranità popolare che si manifesta mediante quella volontà generale che sarebbe alla base dello stato etico e totalitario. Si rimprovera infine a Rousseau la critica che egli fa delle leggi costituzionali.
 L’accusa fatta a Rousseau di contrapporre alla società civile, il mito del “buon selvaggio”, in uno stato paradisiaco di natura che non è mai esistito, nonché di sostenere la tesi di come il progresso delle scienze e delle arti abbia peggiorato i costumi, in luogo di migliorarli, si basa su una lettura superficiale e destoricizzata del Discorso sulle scienze e sulle arti [1750] e del Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini [1754. Il buon selvaggio non è altro che un paradosso da contrapporre all’uomo malvagio di cui aveva parlato Hobbes per giustificare il patto sociale e il potere, così dello Stato liberale come dello Stato assoluto. Insomma, l’uomo primitivo e virtuoso non è altro che un’astrazione utilizzata da Rousseau per valutare la condizione dell’uomo socializzato del suo tempo, come riconosce lui stesso in una lettera del 1762 all’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont:Quest'uomo non esiste, voi direte. E così sia; ma quest'uomo può esistere come ipotesi, essenziale per giudicare la condizione attuale degli individui nella società”. Quanto alla tesi che  il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a peggiorare il costume umano  è abbastanza evidente che si tratti di un altro paradosso. Rousseau ha sotto gli occhi la società francese della metà del XVIII secolo, con il suo regime assolutistico e corrotto, peraltro non più tenuto insieme dal carisma del Re Sole, ma governato dall’imbelle Luigi XV [1715-1774] che affidò il potere nelle mani del suo precettore, il cardinale de Fleury, per una politica di sprechi, di corruzione e di privilegi ad esclusivo appannaggio della nobiltà e del clero. In tale contesto, scienze ed arti erano per Rousseau come “le ghirlande di fiori poste sulle catene” che imprigionavano il terzo stato e il popolo minuto. Quel che sembra, ai malevoli interpreti di Rousseau, un discorso contro il progresso, è in realtà una presa di posizione contro le sovrastrutture che servivano ad abbellire l’ancien régime.
 Continuando, il vincolo di mandato parlamentare si rivela necessario per sopperire alla mancanza di democrazia diretta, laddove questa risulti di difficile attuazione in un grande stato. La divisione dei poteri non è negata da Rousseau perché la sovranità indivisibile e inalienabile riguarda unicamente il potere legislativo del popolo, laddove le competenze esecutive, amministrative e giurisdizionali vanno ripartite tra organismi e soggetti diversi, ancorché il potere esecutivo debba sempre essere subordinato a quello legislativo, nel senso che quest’ultimo ha il compito di controllarlo ed eventualmente sostituirlo quando le leggi approvate non siano effettivamente applicate. E ancora: la cosiddetta volontà generale non si identifica per Rousseau con un potere statuale che trascenda la volontà e la libertà dei cittadini nel nome di un’astratta sacralità, fosse pure quella rappresentata dalla sovranità popolare – ciò che ne farebbe uno Stato etico e totalitario – la volontà generale va intesa piuttosto come l’espressione di una complessità democratica in cui a nessun individuo è impedito l’esercizio della sovranità. Infine, la critica fatta a Rousseau di non amare le leggi costituzionali si rivela faziosa, perché il grande ginevrino si limita a dire che lo Stato può ben darsi una Costituzione ma deve valutare la possibilità di cambiarla velocemente e semplicemente col mutare stesso di quella volontà generale che è la condizione stessa della legittimità e dell’unità dello Stato.
 Rousseau non fu amato nel suo tempo che di rado seppe comprenderlo e più spesso lo condannò come sovversivo, relegandolo in una condizione di indigenza e di solitudine e bruciando pubblicamente i suoi scritti, ancorché su di lui resti l’elogio di in grande contemporaneo come il filosofo inglese David Hume: “È simile a un uomo che si sia spogliato non solo dei suoi vestiti, ma della sua stessa pelle e che, in quelle condizioni, si sia buttato a combattere contro i violenti e tempestosi elementi che perpetuamente agitano questo basso mondo”. E soprattutto resta di lui l’apprezzamento di due colossi del pensiero occidentale come Kant ed Hegel. Male interpretato da Robespierre, egli conobbe anche gloria postuma negli anni cruenti della rivoluzione francese e per onorarlo i giacobini ne traslarono i resti dalla tenuta di Ermenonville, di proprietà del marchese René-Louis de Girardin – dove era stato ospite dal mese di aprile del 1778 al 2 luglio, giorno della morte e della provvisoria sepoltura – al Panthéon di Parigi.
 La fama di pensatore giacobino e radicale ha accompagnato Rousseau nel corso degli ultimi due secoli. I circoli accademici non lo hanno mai studiato a fondo, preferendo soffermarsi sulla sua figura di pedagogo, più spesso per sottolinearne le utopie educative. Sulla scia di Voltaire si preferì vedere in lui la contraddizione tra uomo pubblico e privato, più degno di essere studiato dalla psicanalisi che dalla filosofia e dalla politica. Marx, ignorando la lezione di Hegel, ne fa l’espressione tipica della borghesia giacobina, i politici, in particolare i politici italiani di destra, di centro e di sinistra non lo hanno mai avuto in simpatia per il suo radicalismo e la sua “pericolosità sociale” che giunge sino a delegittimare quello Stato in cui la sovranità non appartenga al popolo o vi appartenga solo formalmente.
 In tale prospettiva, grande merito va riconosciuto a Roberto Casaleggio, a Beppe Grillo e al M5S, per aver riscoperto politicamente la figura di Jean-Jacques Rousseau. Nel descrivere la natura umana, nell’individuare la fonte stessa del liberalismo, nell’intuire il fondamento della sovranità popolare e la legittimità del suo potere, non c’è dubbio che Rousseau sia un autentico precursore della modernità e della post modernità. La questione semmai è il rischio di fare del ginevrino niente di più che una bandiera e/o di ridurlo ad una “piattaforma”, valida in sé ma ancora generica e fuorviante. Louis Althusser definì l’opera di Jean-Jacques Rousseau un capolavoro complicatissimo, labirintico, apparentemente contraddittorio. Ebbene, nell’apparente contraddizione tra il vagheggiamento della polis antica, vista come mirabile connubio di esigenze individuali e sociali, e l’impossibilità di utilizzare le forme della democrazia diretta in un grande stato, Rousseau fornisce più di un elemento per superare l’apparente inconciliabilità tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. 
 Per quanto riguarda il nostro Paese non si tratta di ricorrere alla democrazia cosiddetta partecipativa, ingannevole e illusoria se non addirittura demagogica, né di ricercare forme ibride in cui il cittadino e il suo rappresentante siano entrambi solo apparentemente legislatori, come avviene oggi con il referendum, opportunamente filtrato e pilotato per esigenze di potere. L’istituto referendario va mantenuto, ma senza condizionamenti di sorta, né relativi ad un eccessivo numero di richiedenti, né subordinati ad un quorum prestabilito. Neppure si tratta soltanto della democrazia elettronica del nostro tempo, dove è possibile manifestare rapidamente la propria volontà, ma con il rischio di decisioni prese per spirito di fazione o magari senza la dovuta informazione e con scarsa riflessione, ricreando condizioni di consenso simili a quelle tradizionali. Si tratta invece di immaginare una forma nuova di espressione democratica in cui ogni cittadino, se davvero lo desidera, sia messo nella condizione di decidere della cosa pubblica.
 Nel recente Convegno sulle forme della democrazia organizzato a Roma dal Movimento Roosevelt nei giorni 8 e 9 Aprile, è emersa l’esigenza di approfondire il dibattito su soluzioni alternative a quelle dell’attuale democrazia rappresentativa, sempre più divenuta un guscio vuoto, non più in grado di rappresentare i cittadini nel nome dei quali riceve la propria legittimità. A tal fine, al termine dei lavori del convegno, l’Assemblea del movimento ha approvato la formazione di due gruppi di studio – che potranno essere unificati e in cui confluiranno anche non iscritti al Movimento Roosevelt – per giungere alla formulazione di una proposta per ottimizzare e legalizzare gli strumenti digitali di manifestazione della volontà dei cittadini, nonché per individuare forme concrete di riforma costituzionale in grado di dare nuovo vigore e nuova legittimità al potere legislativo di uno stato autenticamente democratico.

sergio magaldi




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