Considerando che
dei quattro punti, solo il secondo è stato intuito correttamente, sembra lecito
chiedersi se Renzi, proponendo o almeno condividendo il “Rosatellum” per le
elezioni del 4 marzo ’18 [si veda in proposito il post La scelta elettorale del 4 marzo, cliccando sul titolo per leggere]
non abbia messo in campo la stessa ingenua spregiudicatezza utilizzata per il
voto referendario del 4 dicembre del 2016: allora sfidando con il suo 22 %
[al netto della percentuale di chi avrebbe dato vita a LEU], il 78%
dell’elettorato gestito dai partiti del No,
ora facendosi schiacciare da una parte dal M5S, dall’altra dalla coalizione di Centrodestra.
E non si venga a parlare di personalismo: anzi, fu proprio l’aver
personalizzato il referendum che gli valse il 40% di Sì a fronte di un potenziale 22%. Questa volta, infatti, senza
personalizzazioni, stando alle parole stesse del suo segretario, il PD si
attesta tra il 18 e il 19 %. Si possono rimproverare a Renzi alcuni errori
nella gestione del governo, altri nel rapporto con le minoranze e con i padri
nobili del suo partito, ma ciò che decide della sua trasformazione da leader nazionale in cui la gente aveva creduto e sperato, in un comune politico dagli
orizzonti regionali, sono appunto le scelte che sono alla base del voto referendario e
della legge elettorale.
Eppure, una battuta paradossale di Michele Emiliano fa
riflettere: il PD è il vero vincitore delle elezioni, attenzione, il partito,
non Matteo Renzi. Già, perché il PD diventa l’ago della bilancia di questa
legislatura. Schiacciato tra M5S e Centrodestra, resta indispensabile per il
governo. E qui veniamo al piano B: astuzia di quel tanto di sangue
democristiano che continua a circolare nel partito democratico, un paracadute
pensato non da Renzi ma dagli Zanda, i Rosato, i Letta, i Franceschini ecc… Se
tutto fosse andato male [come poi è stato] il Partito democratico avrebbe
comunque raggiunto cinque obiettivi fondamentali: 1) liberarsi una volta per
tutte del mancato enfant prodige, 2)
ricompattare il partito tra minoranza e maggioranza, forse addirittura
riassorbendo i fuoriusciti di Leu, 3) essere comunque decisivo per la
formazione di qualsiasi governo, 4) mantenere il più a lungo possibile il
governo Gentiloni, sia pure per la cosiddetta “normale amministrazione”, che intanto
gli ha consentito di mettere a segno la riforma penitenziaria e che presto
potrebbe fargli avere voce in capitolo nella nomina dei grand commis di stato. Bastando a questo fine rivendicare il diritto
di stare all’opposizione e lasciando (ipocritamente) ai vincitori (M5S e Lega)
il compito di governare, ben sapendo che l’introduzione del reddito di cittadinanza (M5S), che
comporta l’inevitabile e ulteriore salasso fiscale delle classi medie, mal si concilia
con la flat tax (Lega) con la quale,
al contrario, ci si propone di tagliare le tasse soprattutto a vantaggio delle
imprese, 5) tranquillizzare l’Europa e i mercati con uno stallo premeditato
della politica italiana che di fatto impedisce iniziative “pericolose” di
qualsiasi segno, come dimostra il fatto che sino ad oggi, al di là delle
preoccupazioni espresse dal valletto della Merkel, i mercati non si siano mossi.
Teoricamente, si dà
un solo caso in cui il piano B potrebbe fallire: qualora si decidesse di
tornare a votare prima dell’estate. Ipotesi improbabile perché sul Colle spira
ancora la brezza democristiana e tutti i partiti confidano nella saggezza del
presidente della Repubblica, il quale prendendosi un po' di tempo e muovendosi con circospezione
e passo felpato alla fine saprà trovare la giusta soluzione alla crisi, laddove
per correttezza non ha speso una sola parola per impedire il varo di una legge
elettorale a dir poco machiavellica. Così, mentre il governo Gentiloni resterà
in carica, sia pure sminuito nelle sue funzioni (ciò che non dispiace ai
mercati), la politica italiana si aggirerà dalle parti del Quirinale per un
lungo periodo e senza praticamente occuparsi di altro, con l’alibi che ai
tedeschi sono occorsi sette mesi per varare un nuovo governo e che perciò se
agli italiani ne occorresse anche qualcuno di più non si potrebbe certo gridare
allo scandalo. Certo, alla fine, una soluzione bisognerà trovarla e qui le
ipotesi sono almeno tre: 1) un governo di “larghissime” intese per tornare alle
urne con una nuova legge elettorale, ma non prima di un anno o addirittura due:
il tempo giusto perché la situazione decanti e perché l’elettorato del sud,
disilluso dalla mancata introduzione del reddito di cittadinanza, scelga
rapidamente un altro cavallo come ha sempre fatto in passato: in massa
democristiano, poi con Forza Italia, quindi con l’Ulivo, ancora col
Centrodestra del PDL, poi con il PD di Renzi nel voto europeo del 2014, ora con
il M5S, 2) un governo del PD con uno dei due contendenti [M5S o Centrodestra],
reso possibile dalla rinuncia all'opposizione, dopo diversi mesi, per l’appello
del Capo dello Stato, per spirito di sacrificio e magari in cambio di ministeri “chiave”,
3) un governo M5S e LEGA per qualche minuta riforma e per varare una nuova
legge elettorale in tempi brevi.
Poco probabili le soluzioni 1 e 3 non fosse
altro per la difficoltà di trovare una nuova legge elettorale con premio di
maggioranza, l’unica che consentirebbe il governo del Paese. A chi dovrebbe
andare il premio, alle liste o alle coalizioni? Problema insolubile perché con
il premio alle liste vincerebbe il M5S, con il premio alle coalizioni a vincere
sarebbe il Centrodestra. In particolare poi, la soluzione n.3 appare anche più
improbabile perché la Lega, rompendo ogni legame con le altre forze del
Centrodestra, si consegnerebbe di fatto nelle mani dei pentastellati e
difficilmente da sola potrebbe raggiungere una percentuale di voti superiore a
quella del M5S. E nell’eventualità che anche Berlusconi finisse per
assecondare Salvini nell’alleanza a scopo elettorale con i Cinquestelle, si ripresenterebbe intatta la questione: premio di maggioranza
alle liste dei singoli partiti o alle coalizioni? In conclusione, tutto lascia
pensare alla soluzione n.2, anche se l’esperienza di scuola democristiana
insegna che le vie del potere sono infinite.
sergio magaldi
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