In realtà, nel rispetto dei patti, subito dopo
il 4 marzo, il cavaliere aveva riconosciuto a Salvini il ruolo di leader, serbando
per sé quello di regista. E questa nomina autoreferenziale Berlusconi ha inteso esercitare quando
ha chiesto per Forza Italia la presidenza del Senato, cioè quando ha aggiunto
al patto stipulato con la Lega una clausola che non c’era nei patti alla
vigilia delle elezioni. Salvini, dando prova di lungimiranza politica, ha
accettato la condizione non pattuita nella prospettiva, tutta da verificare, di essere
chiamato a Palazzo Chigi. I candidati forzisti erano tre: Romani, Bernini e
Casellati. A questo punto sono intervenuti pesantemente i consiglieri del
regista, imponendo non solo il candidato unico [Romani], ma pretendendo che il
leader del M5S si sedesse allo stesso tavolo di Berlusconi per siglare
l’accordo, bastando per ogni trattativa la riunione di tutti i capigruppo
uscenti, come è sempre avvenuto e come era stato giustamente proposto dai
Cinquestelle.
La mossa di alcuni registi improvvisati e
consiglieri del principe – sventata all’ultimo momento dal buon senso di
Salvini e di Berlusconi – sembrava orientata verso un unico obiettivo: rompere
le trattative del leader della Lega con Di Maio o isolarlo, ben sapendo che i
pentastellati non avrebbero mai accettato di incontrare Berlusconi e che avevano
posto come unico vincolo che il candidato del Centrodestra non avesse una
condanna passata in giudicato [Romani]. Tanto è vero che poi, rispettando i
patti, i Cinquestelle hanno votato forse
compatti [240 i voti della Casellati a fronte del potenziale di 247 seggi –
fatti salvi gli assenti – di cui dispongono complessivamente M5S e Centrodestra
al Senato] per una candidata incensurata e membro politico del Consiglio
Superiore della Magistratura, ma fedelissima di Berlusconi e con la quale a suo
tempo aveva polemizzato Travaglio in Tv, ricordando tra l’altro alla Sottosegretaria
di Stato del Ministero della Sanità di aver assunto la figlia Ludovica a Capo
della propria segreteria. Delle intenzioni dei consiglieri del regista è
tuttavia rimasta traccia nell’elezione di Roberto Fico alla presidenza della
Camera dei deputati, dove Forza Italia certamente non ha votato compatta: del
potenziale di 481 voti, Fico ne ha ottenuti infatti 422, dunque, fatti salvi
gli assenti, 59 voti in meno.
A che si deve questa azione di disturbo?
Un’intesa segreta con una frazione di fantasmi? Ma fantasmi vecchi e nuovi non
si sono visti. Il loro ectoplasma si è manifestato solo a cose fatte per dire
che quello tra Cinquestelle e Centrodestra è stato un accordo da Prima
Repubblica [?!] e per ribadire l’opposizione ad un governo che ancora non c’è,
ripetendo come un mantra che “oneri e onori del governo spettano ai vincitori”.
Questo richiamarsi quasi ossessivo all’opposizione fa venire in mente che dopo
la battaglia referendaria condotta in nome del 22% dell’elettorato contro il
78% rappresentato dagli altri partiti, dopo una legge elettorale che voleva
essere astuta ma che di fatto ha finito con lo schiacciare i suoi maggiori
proponenti tra Cinquestelle e Centrodestra [Vedi in proposito il post Lo stallo premeditato della politica italiana e clicca sopra per leggere], ora si aneli alla terza e forse
definitiva disfatta, scegliendo una sorta di Aventino come mezzo per
rigenerarsi. Opposizione per fare che? Per sperare che il nuovo probabile
governo cosiddetto populista fallisca e che si possa tornare a fare i cani da
guardia di Bruxelles e della Merkel? E se così non fosse nelle intenzioni,
avendo percepito qualche vago segno di autocritica in merito alla politiche sin
qui perseguite sull’immigrazione, sulla sicurezza, sul lavoro, sugli
investimenti, sulla mancata riforma del fisco e su una distribuzione della
ricchezza che ormai condanna alla povertà oltre 12 milioni di italiani, quale
concrete possibilità avrebbero per essere concorrenziali con i Cinquestelle e
con la Lega? Nessuna!
L’inaspettato ottimismo con cui da sabato si
guarda alla formazione di un nuovo governo non deve trarre in inganno. È vero
che Giorgetti, Salvini e Di Maio hanno sostenuto negli ultimi giorni cose
abbastanza simili, persino rinunciando rispettivamente agli slogan della campagna elettorale, come
“flat tax” e “reddito di cittadinanza”, per sostituirle con espressioni più
accettabili e condivisibili da entrambe le parti. È vero altresì che lo stesso
Grillo subito dopo il voto del 4 marzo, ma ben prima dell’elezione dei
presidenti delle Camere, aveva chiarito essere il reddito di cittadinanza
niente altro che un aiuto alla disoccupazione e al lavoro, non diversamente da
quanto Salvini ha sostenuto poche ore fa. Il fatto è che anche in presenza di
un accordo sul programma resta l’incognita sulle persone, perché se è vero che
Salvini si è detto anche disposto a rinunciare alla leadership del nuovo
governo, i Cinquestelle oggi fanno sapere che senza Di Maio a capo dell’esecutivo
non parteciperanno al governo del Paese, mentre dal canto suo,
l’autoproclamatosi regista del Centrodestra – possibilista su un governo
Salvini o di una personalità terza [e incredibilmente viene fatto circolare il
nome di Franco Frattini] in cui siano presenti anche i Cinquestelle – respinge
con forza l’ipotesi di sostenere un governo presieduto da Di Maio. Al momento,
dunque, sembra godere di poche prospettive anche l’idea più accreditata nelle
ultime ore e cioè di Salvini e Di Maio
vicepresidenti di un governo affidato ad una personalità concordata da entrambi.
In tale contesto, a meno di rotture clamorose o di clamorosi ripensamenti
nell’area dei vincitori delle elezioni, c’è da supporre che il Gentiloni
cosiddetto minus reggerà ancora a
lungo le sorti del paese, con atti addirittura più impegnativi di quando era
nel pieno dei poteri: ha già varato la riforma penitenziaria, l’espulsione dei
diplomatici russi e si accinge ad un documento finanziario richiesto
espressamente e astutamente dai signori di Bruxelles. Nella prospettiva dei
veti incrociati e dei personalismi non sarà che i fantasmi, opportunamente
evocati dalla sapienza del Colle, tornino alla fine improvvisamente visibili,
memori di avere nel proprio DNA una vocazione al governo più che
all’opposizione?
sergio
magaldi
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