A
parte l’atteggiamento del governo che contro il coronavirus propaganda sui
media l’adozione di misure eccezionali, sbagliando quasi tutto, come
soprattutto bloccando gli scali diretti dalla Cina, senza controllare tutti
quelli che dal continente asiatico hanno fatto ritorno in Italia per altre vie,
diffondendo il contagio, qual è l’atteggiamento degli italiani di fronte al
virus? Si dividono in “minimalisti”
che, rivendicando il diritto di libertà di movimento dentro e fuori i confini,
negano di trovarci di fronte ad una vera e propria epidemia, tant’è che
continuano a ripetere che fa più morti una comune influenza che il virus cinese,
i “catastrofisti” che vagheggiano di
milioni di morti, gli “incidentalisti”
che giurano sulla fuoriuscita incidentale del virus dal laboratorio di Wuhan, i
“complottisti” che si articolano in due
categorie: a) la diffusione del morbo è parte di una strategia cinese, b) di un
piano angloamericano. Spuntano ora anche i “normalizzatori”
– per lo più tra gente di scienza, di TV e di potere – che si affannano a
spiegare che i morti sono solo sessantenni, settantenni e ottantenni “per lo
più soggetti già malati che se ne vanno all’aldilà con il coronavirus non
per il coronavirus!”, e neppure mancano i “nazionalisti”
che spiegano il primato europeo dell’Italia per numero di contagi con il
maggior numero di controlli effettuati rispetto a Francia, Germania, Spagna
etc… Tesi smentita dal fatto che in circa 15 paesi europei ed extraeuropei si è
potuto accertare che la diffusione del morbo ha origine da “untori” italiani,
in movimento in quei paesi per turismo o per affari.
Intanto
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) parla non più di epidemia ma di
vera e propria pandemia, visto che il Sars-Cov-2
è ormai diffuso in oltre 50 paesi, mentre in Italia le cifre ufficiali parlano nell’ultima
settimana di un aumento dei contagiati da circa 50 agli 888 di questa mattina.
Di
seguito un breve estratto della ricostruzione che della peste del 1630 (già
iniziata sul finire dell’anno precedente) fa Alessandro Manzoni nel XXXI
capitolo de “I Promessi Sposi”. Mutatis
mutandis, anche allora l’atteggiamento popolare fu di scetticismo e
incredulità, di denuncia delle libertà conculcate dalle autorità sanitarie, poi
di fronte all’evidenza dell’epidemia cominciarono a circolare panico e tesi di
complotto.
«[...]Il tribunale allora si
risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo,
prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati.
Tutt'e due, "o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un
vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era
Peste" (Tadino, ivi.); ma, in alcuni luoghi, effetto consueto
dell'emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de' disagi e
degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione
fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Ma arrivando senza posa altre e
altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e
a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi
giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza
che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina,
le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la
Gera d'Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all'entrature,
altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o
dispersi: "et ci parevano, – dice il Tadino, – tante creature seluatiche,
portando in mano chi l'herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una
ampolla d'aceto". S'informarono del numero de' morti: era spaventevole;
visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili
marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al
tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre,
"si dispose", dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per
chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi dove il contagio
s'era manifestato; "et mentre si compilaua la grida", ne diede
anticipatamente qualche ordine sommario a' gabellieri.
[…] Siccome però, a ogni scoperta
che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in
sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare
quanta dovesse essere contro di esso l'ira e la mormorazione del pubblico,
"della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe", dice il Tadino; persuasi,
com'eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L'odio
principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala,
figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le
piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu
singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche
mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello,
d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d'incontrare ostacoli dove cercavano
aiuti, e d'essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della
patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti.
Di quell'odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti
come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di
comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di
credulità e d'ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala
ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato
professore di medicina all'università di Pavia, poi di filosofia morale a
Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a
cattedre d'altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il
rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli
del suo tempo. Alla riputazione della scienza s'aggiungeva quella della vita, e
all'ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel
beneficare i poveri […] Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi
ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di
coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in
ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per
dar da fare ai medici […] Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima
nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi
frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di
palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di
bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun
indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del contagio,
non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome
generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per
andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti:
miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno;
perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar
credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava
per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno,
principiarono a dare un po' più orecchio agli avvisi, alle proposte della
Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene
prescritte da quel tribunale.
[…]Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la
peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si
diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più
quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra' poveri, cominciò a
toccar persone più conosciute […] Ma l'uscite, i ripieghi, le vendette, per dir
così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che
fosse rimasta ferma e invitta, fino all'ultimo, contro la ragione e l'evidenza:
e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così
risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe
di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non
potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que'
mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand'inganno e una gran
colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona
qualunque ne venisse messa in campo […] Mentre il tribunale cercava, molti nel
pubblico, come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella
un'unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo
Fernandez de Cordova, per gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un
ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene
senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte
di Collalto, Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo milanese […] C'era,
del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci
fosse. E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne
guarivano, "si diceua" (gli ultimi argomenti d'una opinione battuta
dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi), "si diceua dalla plebe, et
ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero
morti" […] In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun
conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali:
l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire
peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non
si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto:
ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio».
sergio
magaldi