Nel settembre del 2018, all’uscita del primo corposo romanzo edito da Bompiani (841 pagine): M IL FIGLIO DEL SECOLO dell’annunciata trilogia su Benito Mussolini (nel settembre del 2020 è uscito il secondo volume di cui parlerò in un prossimo post), Antonio Scurati dichiarava di aver raccontato il suo personaggio in un romanzo documentario, in cui – aveva specificato – fatti e personaggi non sono frutto della fantasia dell’autore.
Non volendo ammettere di scrivere un romanzo storico che, data la fama del protagonista, avrebbe avuto scarso appeal, l’autore è ricorso a un ibrido che non ne fa un romanzo nel senso da lui auspicato, e nemmeno un saggio in virtù di pochi spunti dichiarati “verosimili”, della scarsità di documenti (nonostante la “mole” annunciata) e per la mancanza di un autentico approfondimento critico.
Così, la questione non è tanto di bocciare il libro insieme al suo autore, per gli errori e gli anacronismi, come ha fatto Ernesto Galli della Loggia, quanto di prendere atto che quel volume, che per la sua mole si fatica a tenere in mano, non è un romanzo vero e proprio, né un saggio, ma appunto – come peraltro dichiara il suo autore – un romanzo documentario. Insomma, una categoria del romanzo storico. E in questa prospettiva il libro di Scurati ha il suo pregio, se non altro nella sua funzione didascalica di tratteggiare in un linguaggio semplice e accessibile a tutti eventi della storia del nostro Paese che non sembrano mai perdere di attualità.
In definitiva, questo libro magari crea un genere nuovo, ma poco
ha a che fare con la grande letteratura e al tempo stesso presenta scarsa
dimestichezza con una saggistica di rilievo. Ma tant’è, il Mussolini di Scurati
ha avuto la sua fortuna di vendite e nel luglio del
E proprio questo, da ultimo, sembrava lamentare Galli della
Loggia nel suo articolo:
“Voglio sperare – annotava sul Corriere della Sera – che ancora oggi
se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci
l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la
coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia), e definisse Benedetto
Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il
disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu
l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato
correrebbe seri rischi di essere bocciato.
Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati
significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale
italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di
riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la
data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio
che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, «porta sulla
coscienza sei milioni di morti» (un antesignano pugliese di Hitler insomma),
avesse poi definito Antonio Gramsci «un politologo», avesse scritto che alla
Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale
ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a
commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a
«Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede» (!!), e
a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse
citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando
l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il
suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura. O forse no, chissà. Infatti tutti gli svarioni citati (ce
ne sarebbero altri minori, ma non mi sembra il caso di pignoleggiare) fanno
bella mostra di sé nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani editore, da settimane in
testa alle classifiche delle vendite […].
Il libro di Scurati si articola in sei capitoli, ciascuno dei quali, a cominciare dal 1919 – segnatamente dalla Fondazione dei Fasci di combattimento – ripercorre gli eventi di ogni anno successivo sino a tutto il 1924, per poi concludersi con la ricostruzione della seduta parlamentare del 3 gennaio del 1925. Ciascun capitolo è preceduto da una parte documentale che comprende articoli di giornale, lettere e telegrammi, discorsi ufficiali, programmi di partito, diari e rapporti informativi della polizia e di altre autorità di pubblica sicurezza. Ma si tratta per lo più di frammenti, tali comunque da giustificare il filo della narrazione che ogni volta riprende da dove si era interrotta per far posto agli scarsi inserti. Troppo poco, tuttavia, per formulare giudizi esaustivi circa “le verità” annunciate dall’autore. Sufficiente però per farne un romanzo storico (etichetta rifiutata risolutamente da Scurati), corredato di scarne notizie tratte dall’attualità di quegli anni e poco più.
L’autore, nelle sue numerose interviste, ha rivendicato il merito di essere stato il primo a scrivere un romanzo sul fascismo e sul suo capo, senza accorgersi che il suo non è un romanzo stricto sensu, e dimenticando che dieci anni prima un libro del genere da lui auspicato aveva già vinto lo Strega.
Pur raccontando le vicende di
una famiglia del ferrarese, vissuta durante la prima metà del Novecento,
infatti, Antonio Pennacchi nel suo romanzo, Canale
Mussolini, aveva parlato a lungo del fascismo, per così dire, osservandolo
dal di dentro.
C’è comunque una profonda differenza tra i due autori.
Scurati vede nel fascismo un’accozzaglia di agitatori di professione, di
irregolari e di delinquenti abituali (che pure ci furono) in una Italia
fiaccata dalla guerra e dalla miseria che il grande fiuto di Mussolini seppe
mettere insieme, perché più di ogni altro egli fu capace di interpretare il
proprio secolo: un giudizio che fa del duce un eroe al negativo, ma pur sempre
assimilato all’individuo cosmico-storico di hegeliana memoria che incarna in sé
lo spirito del tempo.
Il fascismo, nella narrazione di
Pennacchi, non appare
come un “incidente
di percorso” della storia italiana, tra liberalismo e democrazia, di
cui Mussolini si fa interprete, né soprattutto è soltanto una condizione inquietante dell’anima,
secondo il noto giudizio di Benedetto Croce – l’intellettuale che ancora
dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti continuava a sostenere il Presidente del
Consiglio e che intervenendo in Senato in suo favore aveva parlato del voto
“prudente e patriottico” che aveva salvato il governo – ma piuttosto come lo sbocco
naturale delle tensioni sociali che si erano andate accumulando in Italia,
durante i sessant’anni successivi all’unificazione. Non “un corpo estraneo”,
dunque, ma purtroppo l’unico modo in cui una società arretrata, preindustriale
ed elitaria, caratterizzata dall’analfabetismo, dalla miseria, dal brigantaggio
e dalla corruzione, era riuscita malgrado tutto ad evolversi. In questo senso e solo in
questo senso, il fascismo era stato “rivoluzionario”, dando così in parte ragione al suo capo, quello ormai sconfitto dalla
Storia, che nell’ultima intervista, modificando alla sua maniera
il concetto espresso da Benedetto Croce, pare avesse detto: “Io non ho creato il fascismo,
l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”.
Non che gli italiani fossero da sempre abitati dai
“mostri” del fascismo, giacché erano i mostri della fame e dell’ignoranza
piuttosto a tenere il campo. L’unico senso accettabile di quella espressione era di aver saputo interpretare il
malessere sociale e l’istinto di ribellione delle masse, saldandoli al disagio
dei reduci della prima guerra mondiale per la cosiddetta “vittoria mutilata”.
Il tutto condito dei confusi ideali di una piccola borghesia nazionalistica,
frustrata e megalomane, talora vagamente intellettuale che, prima del fascismo,
trovava spesso nella Massoneria il proprio punto di riferimento. Come si
intuisce dal nome che assunse il massimo organo di rappresentanza politica del
fascismo. Quel Gran Consiglio che annoverava in prevalenza massoni ed
ex-massoni, segnatamente di Piazza del Gesù.
Primo fra
tutti, Amerigo Dumini, maestro della Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù e
che lavorava alle dirette dipendenze del capo della polizia Emilio De Bono. Fu
lui ad essere riconosciuto, insieme ad altri sicari, come l’esecutore materiale del delitto
Matteotti. De Bono, dal canto suo – come ricorda lo stesso Scurati – era un gerarca piemontese, legato alla
massoneria inglese e fedelissimo di casa Savoia. Del resto, anche Aldo
Finzi, sottosegretario agli Interni, Giovanni Marinelli, al vertice del Partito
Nazionale Fascista e Cesare Rossi, capo ufficio stampa della Presidenza del
Consiglio, erano fascisti e massoni in
collegamento con la massoneria britannica.
sergio magaldi
P.S. Il post riprende in parte il contenuto del capitolo «“M” come Mussolini» (pp. 94-98) che, insieme all’altro capitolo «A colloquio con il Duce» (pp. 99-118), fa parte del romanzo La Regione Sconosciuta.
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