lunedì 8 marzo 2021

Il MUSSOLINI di ANTONIO SCURATI, parte I (IL FIGLIO DEL SECOLO)


 

  Nel settembre del 2018, all’uscita del primo corposo romanzo edito da Bompiani (841 pagine): M IL FIGLIO DEL SECOLO dell’annunciata trilogia su Benito Mussolini (nel settembre del 2020 è uscito il secondo volume di cui parlerò in un prossimo post), Antonio Scurati dichiarava di aver raccontato il suo personaggio in un romanzo documentario, in cui – aveva specificato – fatti e personaggi non sono frutto della fantasia dell’autore.

 Non volendo ammettere di scrivere un romanzo storico che, data la fama del protagonista, avrebbe avuto scarso appeal, l’autore è ricorso a un ibrido che non ne fa un romanzo nel senso da lui auspicato, e nemmeno un saggio in virtù di pochi spunti dichiarati “verosimili”, della scarsità di documenti (nonostante la “mole” annunciata) e per la mancanza di un autentico approfondimento critico.

 Così, la questione non è tanto di bocciare il libro insieme al suo autore, per gli errori e gli anacronismi, come ha fatto Ernesto Galli della Loggia, quanto di prendere atto che quel volume, che per la sua mole si fatica a tenere in mano, non è un romanzo vero e proprio, né un saggio, ma appunto – come peraltro dichiara il suo autore – un romanzo documentario. Insomma, una categoria del romanzo storico. E in questa prospettiva il libro di Scurati ha il suo pregio, se non altro nella sua funzione didascalica di tratteggiare in un linguaggio semplice e accessibile a tutti eventi della storia del nostro Paese che non sembrano mai perdere di attualità.

 In definitiva, questo libro magari crea un genere nuovo, ma poco ha a che fare con la grande letteratura e al tempo stesso presenta scarsa dimestichezza con una saggistica di rilievo. Ma tant’è, il Mussolini di Scurati ha avuto la sua fortuna di vendite e nel luglio del 2019 ha vinto lo Strega, davanti a Il rumore del mondo di Benedetta Ciborio (Mondadori) e a La straniera di Claudia Durastanti (La Nave di Teseo).

 E proprio questo, da ultimo, sembrava lamentare Galli della Loggia nel suo articolo:

Voglio sperare – annotava sul Corriere della Serache ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato.

Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, «porta sulla coscienza sei milioni di morti» (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci «un politologo», avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a «Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede» (!!), e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura. O forse no, chissà. Infatti tutti gli svarioni citati (ce ne sarebbero altri minori, ma non mi sembra il caso di pignoleggiare) fanno bella mostra di sé nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani editore, da settimane in testa alle classifiche delle vendite […].

 Il libro di Scurati si articola in sei capitoli, ciascuno dei quali, a cominciare dal 1919 – segnatamente dalla Fondazione dei Fasci di combattimento – ripercorre gli eventi di ogni anno successivo sino a tutto il 1924, per poi concludersi con la ricostruzione della seduta parlamentare del 3 gennaio del 1925. Ciascun capitolo è preceduto da una parte documentale che comprende articoli di giornale, lettere e telegrammi, discorsi ufficiali, programmi di partito, diari e rapporti informativi della polizia e di altre autorità di pubblica sicurezza. Ma si tratta per lo più di frammenti, tali comunque da giustificare il filo della narrazione che ogni volta riprende da dove si era interrotta per far posto agli scarsi inserti. Troppo poco, tuttavia, per formulare giudizi esaustivi circa “le verità” annunciate dall’autore. Sufficiente però per farne un romanzo storico (etichetta rifiutata risolutamente da Scurati), corredato di scarne notizie tratte dall’attualità di quegli anni e poco più. 

 L’autore, nelle sue numerose interviste, ha rivendicato il merito di essere stato il primo a scrivere un romanzo sul fascismo e sul suo capo, senza accorgersi che il suo non è un romanzo stricto sensu, e dimenticando che dieci anni prima un libro del genere da lui auspicato aveva già vinto lo Strega.

Pur raccontando le vicende di una famiglia del ferrarese, vissuta durante la prima metà del Novecento, infatti, Antonio Pennacchi nel suo romanzo, Canale Mussolini, aveva parlato a lungo del fascismo, per così dire, osservandolo dal di dentro.

C’è comunque una profonda differenza tra i due autori. Scurati vede nel fascismo un’accozzaglia di agitatori di professione, di irregolari e di delinquenti abituali (che pure ci furono) in una Italia fiaccata dalla guerra e dalla miseria che il grande fiuto di Mussolini seppe mettere insieme, perché più di ogni altro egli fu capace di interpretare il proprio secolo: un giudizio che fa del duce un eroe al negativo, ma pur sempre assimilato all’individuo cosmico-storico di hegeliana memoria che incarna in sé lo spirito del tempo.

Il fascismo, nella narrazione di Pennacchi, non appare come un “incidente di percorso” della storia italiana, tra liberalismo e democrazia, di cui Mussolini si fa interprete, né soprattutto è soltanto una condizione inquietante dell’anima, secondo il noto giudizio di Benedetto Croce – l’intellettuale che ancora dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti continuava a sostenere il Presidente del Consiglio e che intervenendo in Senato in suo favore aveva parlato del voto “prudente e patriottico” che aveva salvato il governo – ma piuttosto come lo sbocco naturale delle tensioni sociali che si erano andate accumulando in Italia, durante i sessant’anni successivi all’unificazione. Non “un corpo estraneo”, dunque, ma purtroppo l’unico modo in cui una società arretrata, preindustriale ed elitaria, caratterizzata dall’analfabetismo, dalla miseria, dal brigantaggio e dalla corruzione, era riuscita malgrado tutto ad evolversi. In questo senso e solo in questo senso, il fascismo era stato “rivoluzionario”, dando così in parte ragione al suo capo, quello ormai sconfitto dalla Storia, che nell’ultima intervista, modificando alla sua maniera il concetto espresso da Benedetto Croce, pare avesse detto: “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”.

Non che gli italiani fossero da sempre abitati dai “mostri” del fascismo, giacché erano i mostri della fame e dell’ignoranza piuttosto a tenere il campo. L’unico senso accettabile di quella espressione era di aver saputo interpretare il malessere sociale e l’istinto di ribellione delle masse, saldandoli al disagio dei reduci della prima guerra mondiale per la cosiddetta “vittoria mutilata”. Il tutto condito dei confusi ideali di una piccola borghesia nazionalistica, frustrata e megalomane, talora vagamente intellettuale che, prima del fascismo, trovava spesso nella Massoneria il proprio punto di riferimento. Come si intuisce dal nome che assunse il massimo organo di rappresentanza politica del fascismo. Quel Gran Consiglio che annoverava in prevalenza massoni ed ex-massoni, segnatamente di Piazza del Gesù.

Primo fra tutti, Amerigo Dumini, maestro della Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù e che lavorava alle dirette dipendenze del capo della polizia Emilio De Bono. Fu lui ad essere riconosciuto, insieme ad altri sicari, come l’esecutore materiale del delitto Matteotti. De Bono, dal canto suo – come ricorda lo stesso Scurati –  era un gerarca piemontese, legato alla massoneria inglese e fedelissimo di casa Savoia. Del resto, anche Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni, Giovanni Marinelli, al vertice del Partito Nazionale Fascista e Cesare Rossi, capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, erano fascisti e massoni in collegamento con la massoneria britannica.

 È chiaro che senza mettersi al servizio della reazione, la cosiddetta “rivoluzione fascista” sarebbe fallita e di questo il primo a rendersene conto fu certamente il suo capo, nato socialista e abbastanza lungimirante da comprendere la sterilità di un movimento perpetuamente scissionista ed eternamente diviso tra una base proletaria e una classe dirigente di piccoli intellettuali sempre in lotta per il potere, ora riformisti, ora rivoluzionari, ora imbelli e opportunisti, sempre frazionisti.

 

sergio magaldi

 P.S. Il post riprende in parte il contenuto del capitolo «“M” come Mussolini» (pp. 94-98) che, insieme all’altro capitolo «A colloquio con il Duce» (pp. 99-118), fa parte del romanzo La Regione Sconosciuta.

 

 

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