Ieri, alla vigilia di Svizzera-Italia, avevo
parlato di mancanza di senso della realtà da parte di chi, vista l’apparente
facilità del Tabellone in cui era finita Italia, vagheggiava già l’approdo in
finale. Oggi parlo piuttosto di senso del ridicolo dei protagonisti fuori e
dentro il campo.
Per
la verità, nei primi venti minuti dell’incontro, qualcosa sembrava cambiato
rispetto alle precedenti esibizioni degli azzurri, ma forse era solo il timore
reverenziale degli avversari di fronte ai campioni d’Europa in carica. Quando
gli elvetici si sono resi conto di che pasta era fatta la nostra nazionale
hanno preso in mano il pallino della partita (si fa per dire) senza più
mollarlo: Di Lorenzo letteralmente saltato ha dato il via al primo goal degli
svizzeri, quando subito dopo è partito un tiro intercettato a rete da uno
stordito ancorché incolpevole Mancini; buchi al centro della difesa e ampio spazio
lasciato libero all’altro marcatore svizzero per segnare da lontano appena
all’inizio del secondo tempo, proprio quando si sperava in una reazione degli
azzurri dopo la delusione dell’ultima mezzora del primo tempo. Una squadra
quella italiana che camminava e non indovinava due passaggi di fila e che nelle
rare occasioni in cui ha tirato in porta, lo ha fatto per così dire con delle
incredibili mezze “ciabattate”; giocatori che allargavano le braccia non
sapendo cosa fare con la palla, nessuna carica agonistica tanto da far pensare
ai maligni che c’era tra i nostri un solo desiderio: andare in vacanza al più
presto! Su questo non sono d’accordo, perché il peggio si era già visto contro
la Spagna e nessuno può ragionevolmente pensare che gli azzurri pensassero al
ritorno a casa già alla seconda partita degli Europei! Parlerei dunque più di
senso del ridicolo che di senso della vergogna. Ma è tutta colpa dei giocatori
(escludendo il solo Donnarumma)?
Non
direi, perché è vero che Spalletti ha cambiato qualcosa in questa partita
decisiva, ma sembra averlo fatto a caso e senza avere in mente
un’organizzazione di gioco appena plausibile. Testardo come sempre nel
riproporre “suo figlio” Di Lorenzo che ha puntualmente confermato il rendimento
delle tre precedenti prestazioni e quelle di tutto l’anno nel Napoli; dietro ha
giocato a quattro, con un incerto Darmian terzino a sinistra (?!), un Mancini
apparso spossato già nelle ultime di Campionato al posto di Calafiori (non
Gatti come sarebbe stato auspicabile) e con Bastoni che alla vigilia aveva
avuto la febbre. A centrocampo l’unica vera novità è stata aver lasciato (finalmente?)
fuori Jorginho ma non poteva bastare, nonostante l’impegno mostrato da Fagioli,
vista la lentezza di Cristante, l’eccessivo individualismo di Barella, dolente
anche per un infortunio subito nella prima parte della gara, e lo scarso
rendimento complessivo della difesa. Il capolavoro Spalletti l’ha poi perfezionato
in attacco rinunciando a Zaccagni e schierando per la prima volta Al Shaarawy (peraltro,
si è saputo dopo, poco in condizione) però non in sostituzione di Chiesa a sinistra, magari nel secondo tempo,
quando il bianconero fosse stato stanco come spesso gli accade, ma sin
dall’inizio.
Perché
cambiare ancora modulo? Perché le idee sono state così poche e confuse? Perché
non giocare a tre dietro come nella precedente partita contro la Croazia, mettendo
finalmente da parte “suo figlio” e con due esterni veri come Bellanova e Di
Marco o Cambiaso? Perché far fuori Zaccagni che pure Spalletti aveva
abbracciato e baciato dopo il goal salvezza contro i croati? Perché insistere
per la quarta volta con Chiesa a destra? Interrogativi che resteranno senza
risposta, ma che lasciano l’amaro in bocca e più di una inquietudine in vista
delle prossime qualificazioni ai mondiali, dove sarebbe clamorosa la terza esclusione
di fila degli azzurri.
Inutile
ripetere i discorsi di sempre, forse però vale la pena di ricordarne le
tematiche ancora una volta: pochi anzi pochissimi i giocatori italiani
impiegati nel Campionato di serie A e persino di B, scarso o nullo in particolare
lo spazio lasciato ai giovani, nessuna politica per integrare nel calcio le
minoranze etniche, africane e non, ciò che pure è avvenuto per l’atletica dove
non è necessario, come nel calcio, frequentare costose scuole per farsi notare.
sergio
magaldi