lunedì 21 dicembre 2009

IL GIOCO DELL'ANGELO di CARLOS RUIZ ZAFON






 Leggendo Il gioco dell’angelo (EL JUEGO DEL ÁNGEL, 2008) ho avuto l’impressione, almeno per circa una buona metà delle oltre 600 pagine, che l’abilità narrativa di Carlos Ruiz Zafón fosse venuta maturando rispetto al romanzo di sette anni prima, L’ombra del vento (LA SOMBRA DEL VIENTO) che pure gli era valso un ampio consenso di critica e di pubblico, con la vendita di più di 8 milioni di copie.

 Mi è sembrato che il “guazzabuglio” di successo, come ho definito il romanzo del 2001, avesse lasciato il posto ad un lavoro più maturo e raffinato, senza la velleità di ricreare l’atmosfera dei grandi classici della letteratura e mescolare tra loro alla rinfusa una pluralità di generi letterari.

 La ricostruzione della Barcellona anni ’20 funziona abbastanza, come pure appare convincente il dialogo interiore del giovane scrittore David Martin, lacerato e diviso da una duplice esigenza: quella della propria sopravvivenza che lo induce a scrivere sotto pseudonimo libelli per la serie intitolata “La città dei maledetti” di un piccolo editore senza scrupoli, e l’altra, cui aspira con tutte le sue forze, di scrivere finalmente un libro degno di questo nome. Probabile effetto di questa personale scissione della mente e dell’anima è la malattia mortale che lo colpisce e che lo porterebbe alla tomba senza l’intervento dell’ “angelo”, alias l’editore Andreas Corelli che, in cambio di una grossa somma di denaro e della guarigione, gli propone di scrivere un libro in grado di proporsi come il testo sacro di una nuova religione.

 Di quale religione si tratti, Zafón non dice, non tanto per permettere al lettore di liberare la propria fantasia, quanto perché questa cosiddetta nuova religione in realtà c’è già nota sin dai tempi biblici. E cosa se ne fa il diavolo di un testo sacro, visto che le pagine sulle quali egli scrive più volentieri sono quelle del mondo? Una volta almeno stipulava contratti di eterna giovinezza e successo in cambio dell’anima, mentre ora pare si accontenti di un libro…

 L’eterno “patto col diavolo” (come si sa il diavolo è un angelo decaduto) è comunque trattato abilmente da Zafón in una prospettiva seducente e singolare. Ciò che alimenta un clima di suspense e induce a proseguire nella lettura del romanzo. Come pure, la descrizione della spettrale “casa della torre”, in cui Martin finisce col ritirarsi, è gestita con abilità narrativa ancorché né nuova né originale per questo genere letterario.

 Poi, ad un certo punto, ecco riapparire “il guazzabuglio” nel quale Zafón s’era già mosso in L’ombra del vento, con figure improbabili e stereotipi che fanno “molto rumore per nulla”. Insomma, ancora una volta si ha l’impressione che i personaggi dello scrittore catalano non sappiano vivere di vita propria ma abbiano bisogno del filo doppio del burattinaio per muoversi in un labirinto di situazioni e di intrighi. Tutti, per la verità, con l’eccezione di David Martin e di Isabella, la ragazza che gli fa da assistente, la cui figura è tratteggiata con sufficiente perizia da farla apparire di carne e sangue e non semplice marionetta. Sposata ad un amico di Martin, Isabella concepirà un figlio di nome Daniel Sempere, lo stesso nome, cioè, del protagonista di L’ombra del vento. Bizzarrìa gratuita, introdotta probabilmente per incrementare il “passa parola” sul nuovo romanzo, giacché non esiste alcun motivo plausibile per la duplice attribuzione dello stesso nome. Esiste invece più di un collegamento nell’intreccio narrativo dei due romanzi, entrambi dalla trama esile e pretestuosa, entrambi zavorrati di improbabili quanto noiose avventure.
sergio magaldi

martedì 8 dicembre 2009

JOEL e ETHAN COEN, A SERIOUS MAN, 2009






 La critica ufficiale di A serious man (L’uomo serio), regia e sceneggiatura dei fratelli Coen, è incline a vedere nel prologo del film – un racconto Yiddish d’altri tempi – uno strumento utile ad introdurre una “storia ebraica”, senza tuttavia attinenza con la successiva narrazione.

 In un villaggio innevato dell’Europa centrale, sul finire dell’Ottocento, una coppia di contadini riceve nella propria dimora la visita di un anziano personaggio che il contadino ha invitato a cena ma che sua moglie ha visto morire di tifo tre anni prima. La donna è convinta che si tratti di un Dybbuk e che la maledizione di Dio (Ha Shem, “Il Nome”, come per lo più è chiamato Dio durante tutto il film) stia per abbattersi sulla loro casa di ebrei devoti.
Il Dybbuk è nella tradizione religiosa degli ebrei, lo spirito di un defunto proveniente dalla Gehenna (l’inferno ebraico) che “ritorna” per “attaccarsi” a un vivente al fine di riscattare dal peccato la propria vita o, secondo una versione parallela, è comunque uno spiritello che cerca d’insinuarsi nella mente dei vivi.

 Non a caso nella Qabbalah la parola Dybbuk vale 122 (somma che si ricava addizionando il valore numerico delle singole lettere dell’alfabeto ebraico che compongono la parola: Daleth 4+Yud 10+Beth 2+Waw 6+Qof 100 = 122) e per Ghematria (parole o frasi con lo stesso valore numerico) si associa tra l’altro a Egel Ha Zahav, “vitello d’oro” e a Koach Ha Medameh, “potenza dell’immaginazione”.

 Il prologo termina senza che il dilemma sia sciolto, lasciando libero lo spettatore di credere alle parole dell’ospite, che invoca un’interpretazione razionale della fede, dichiarando di essere guarito dal tifo, oppure a quelle della donna che continua a ritenerlo un Dybbuk e reagisce impulsivamente, spinta da motivazioni irrazionali.

 L’utilità del prologo, nell’economia del film, si rivelerà allo spettatore solo alla fine, col concludersi delle vicende di Larry Gopnik (interpretato da un ottimo Michael StuhlBarg), novello Giobbe “americano” del Minnesota.

 Siamo nel 1967 e sulle spalle di Larry, uomo serio e timorato di Dio, si abbatte tutta una serie di iatture (la moglie lo tradisce con un amico di famiglia e chiede il “divorzio rituale”, il figlio si droga, il fratello è arrestato per gioco d’azzardo e adescamento da sodomia, lettere anonime per denigrare la sua reputazione giungono all’Università dove insegna Fisica, uno studente coreano tenta di corromperlo, perde la casa, è oppresso da debiti non imputabili a lui, ha un incidente automobilistico ecc…) che non si giustificano sul piano della fede razionale, giacché, proprio come il Giobbe biblico della terra di Uz, egli di nulla si è reso colpevole di fronte a Dio.

 Nel disperato tentativo di “uscire dall’angolo”, Larry si rivolge ai rabbini della Comunità. Il primo, il più giovane, gli consiglia di provare a vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto a come le ha sempre viste. D’altronde, Ha Shem lo aiuterà se lui si aiuterà! Il secondo gli racconta la storiella di un dentista che sui denti di un paziente lesse la parola “aiutami”. Il terzo, il rabbino Marshak, che è il più anziano ed è considerato il più saggio di tutti, si rifiuta d’incontrarlo.

 La morale che se ne trae è che religione e fede non sono in grado di dare consigli su questioni di coscienza, né di risolvere il mistero del perché un uomo serio e timorato di Ha Shem venga così duramente provato. Ciascuno deve trovare in se stesso la risposta. D’altronde, neppure Dio accetta di rispondere al Giobbe biblico: “Chi sei tu? – gli chiede il Signore (Giobbe, 38, 2ss.) – Perché rendi oscure le mie decisioni con ragionamenti da ignorante? Rispondi tu piuttosto alle mie domande: Dov’eri quando gettavo le fondamenta della Terra? […]”

 Il senso delle numerose domande che Ha Shem rivolge a Giobbe è duplice. Per un verso, Dio rimprovera Giobbe di pretendere una risposta, mentre non è in grado né sembra preoccuparsi di rispondere ad una qualsiasi delle tante domande che Lui gli rivolge. Per altro verso, Dio sembra voler dire a Giobbe: Tu che hai sotto gli occhi la sapienza e la grandezza delle mie opere, perché hai smesso d’aver fiducia in me?

 Il merito dei fratelli Coen è di aver dato al proprio racconto, nonostante la serietà dell’argomento, una struttura leggera e arricchita di gags che, in piena comicità Yiddish, inducono lo spettatore a sorridere quasi di continuo. Ciascun personaggio è al posto giusto: Judith (Sari Lennick) moglie di Larry, aggressiva donna americana fine anni Sessanta e al tempo stesso madre ebrea che si commuove al Bar Mitzvah del figlio, e ancora: il vicino di casa razzista o la vicina provocante, per non parlare dei tre rabbini o di altri personaggi della comunità ebraica.

 Restano alla fine del film, esattamente come nel prologo, almeno tre interrogativi: “Può la fede preservarci dalle sventure o, almeno, è in grado di soccorrerci?” E ancora: “L’approccio alla fede cancella il ruolo della ragione?” E infine: “Quando l’irrazionale bussa alla nostra porta, siamo in grado di riceverlo e d’intrattenerci con lui?”.

 Come per Giobbe, anche per Larry tutto infine si ricompone e sembra risolversi passabilmente. Il “Giobbe americano”, tuttavia, reso edotto dall’esperienza, è propenso a riconsiderare in modo originale (è l’ultima sottolineatura ironica dei fratelli Coen) la nota massima di senso comune dell’aiutati che Dio ti aiuta… mentre, proprio nell’ultima inquadratura del film, il cielo si fa nero all’orizzonte e si annuncia un uragano.

sergio magaldi

martedì 1 dicembre 2009

Quentin Tarantino, BASTARDI SENZA GLORIA, 2009,








 Inglourious Basterds, “Bastardi senza gloria” – che Tarantino fa uscire (2009) con titolo sgrammaticato per differenziarlo dal film di Enzo G. Castellari: “Quel maledetto treno blindato” del 1977 (sugli schermi americani apparso col titolo di Inglorious Bastards) – è una favola ben congegnata sugli eventi più drammatici della seconda guerra mondiale. Non a caso, inizia con la didascalia classica “C’era una volta…” e si conclude con un finale a sorpresa, in apparenza moraleggiante, etico in realtà.

 L’azione si svolge nella campagna vicina a Parigi. Siamo nel 1941, in piena occupazione nazista della Francia. Il colonnello delle SS, Hans Landa, noto col nome di “cacciatore di ebrei” – stupendamente interpretato dal poco conosciuto attore austriaco Christoph Waltz (Premio per la migliore interpretazione maschile all’ultimo Festival di Cannes) – si reca con un manipolo di soldati nella fattoria di un contadino e delle sue figlie. Come si è osservato da più parti, la location è da western, lo sono gli oggetti, il volto del contadino, l’abbigliamento delle figlie e la musica che accompagna le immagini.

 La scena del colloquio-interrogatorio del contadino da parte del colonnello delle SS è un piccolo capolavoro. La scelta delle parole giuste è importante, come pure quella della lingua, e alla fine il “cacciatore di ebrei” verrà a sapere dove si nascondono da diverso tempo i Dreyfus. Unica della famiglia, Shosanna (Mélanie Laurent), che ha 18-19 anni, riesce a fuggire e a mettersi in salvo. La ritroviamo tre anni dopo a Parigi, proprietaria di un cinema e con false generalità ariane. Neppure l’aguzzino nazista può riconoscerla. L’ha vista di spalle nella fuga, ha fatto per colpirla con la pistola ma poi ha desistito. Eppure lo spettatore ha come l’impressione, nel colloquio (mirabile e “addolcito” con la panna) che tre anni dopo si svolge tra il colonnello delle SS e la ragazza, che il diabolico “cacciatore” sospetti qualcosa. E inoltre, l’ufficiale nazista non ha sparato perché la ragazza era già fuori della sua mira o perché il suo inconscio sapeva in anticipo che Shosanna un giorno gli sarebbe tornata utile? Interrogativi, paradossi forse, lasciati allo spettatore e che ognuno risolverà a modo suo, fermo restando la bravura di Tarantino e di Christoph Waltz nel suscitare il dilemma.

 Il destino del colonnello Hans Landa e di Shosanna s’incrocia con quello dei cosiddetti bastardi, soldati ebrei americani, catapultati in Francia e guidati dal tenente Aldo Raine, interpretato da un Brad Pitt che taluno in questo film vede come “strepitoso” (Lorenzo Macello, XL Repubblica) talaltro giudica nella “peggiore performance della sua vita”(Peter Bradshaw, The Guardian). Personalmente, trovo esagerate entrambe le valutazioni. E’ un fatto, tuttavia, che il noto attore non sempre si trovi a proprio agio e sarà magari anche a causa della stupenda interpretazione di Christoph Waltz.

 I “bastards” hanno il compito di dare la caccia e uccidere il maggior numero di nazisti. Il tenente Aldo Raine, che vanta antenati pellirosse, chiede ad ognuno dei suoi uomini almeno cento scalpi nazisti. E qui naturalmente la favola si tinge di colori e di immagini che tanto piacciono a Tarantino e al suo pubblico più affezionato, con la visione di crani fatti a pezzi da una mazza da baseball e di scalpi recisi tra sangue e materia cerebrale.

 La vendetta personale di Shosanna e quella del Bene (i “bastardi”) contro il Male (i nazisti) si fondono, inconsapevole l’una degli altri e viceversa, nella cosiddetta operazione Kino. Nel cinema di Shosanna si svolge la prima del film Orgoglio della Nazione che celebra “l’eroismo” di un soldato tedesco capace da solo di uccidere centinaia e centinaia di nemici. Alla rappresentazione saranno presenti, “come in un cesto di mele marce”, oltre a Göbbels, Göring e Bormann ed altri capi nazisti, un goffo e grottesco Adolf Hitler, dal regale mantello bianco e spesso ripreso accanto ad un mappamondo che ricorda quello di Chaplin nel Grande dittatore.

 Il finale della favola smaschera l’illusione dei protagonisti, benché ciascuno di loro raggiunga a caro prezzo (più alto o più basso come sempre avviene nella vita) il fine prefisso: Shosanna immagina di veder bruciare i capi nazisti con la certezza che la “vendetta degli ebrei” si è infine consumata, i “bastardi” ritengono di aver cagionato la caduta del nazismo e la fine della guerra grazie all’esplosivo introdotto nel cinema, il colonnello Hans Landa s’illude che sia stato il ruolo da lui avuto nella vicenda a fargli ottenere un salvacondotto, la cittadinanza americana e una ricca proprietà ove celarsi. Ciò che, tuttavia, non gli evita anche di ricevere, da parte del tenente Aldo, impresso sulla fronte in modo indelebile, il simbolo stesso del Male in nome del quale ha massacrato migliaia di ebrei.

 Il film, proprio come una favola, ha diverse morali. La prima, la propone lo stesso Tarantino: “In un film tutto è possibile, anche far finire una guerra di colpo e di colpo togliere di mezzo i grandi criminali al potere; il cinema ha questa grande forza, far riflettere su come un solo gesto, una sola persona, potrebbero cambiare la storia”

Al “negativo”, questa verità ne contiene implicitamente un’altra e cioè che non sono le masse a fare la storia, ma – come Hegel sostiene – i cosiddetti individui cosmico-storici con la loro stretta cerchia di collaboratori, i quali, tutti insieme – e questo lo aggiungo io – si rivelano spesso e purtroppo come altrettante “cricche di potere”.

 Un’altra morale, che poi caratterizza ogni favola che si rispetti, è che alla lunga il Bene trionfi sul Male. Dalla quale massima tuttavia discende un corollario che non si trova nelle fiabe: il Male non è mai sconfitto definitivamente, si cela e riappare in mille forme, senza contare che persino i suoi vecchi interpreti possono farla franca se, come nel caso degli ufficiali nazisti, del Male smettono semplicemente la divisa. Così – sembra la logica spietata di Tarantino – occorre marcarli in modo indelebile. Esattamente come farà la ormai celebre Lisbeth Salander dei romanzi di Stieg Larsson, incidendo sulla carne del suo stupratore il solo nome che gli convenga. Certo, questo è il linguaggio della vendetta che nella finzione narrativa e cinematografica, oltre a solleticare il nostro istinto e le nostre passioni, ha anche una funzione catartica. Usato nella realtà, tuttavia, questo linguaggio ci lascia sgomenti!

sergio magaldi

giovedì 26 novembre 2009

PD-PDL. CENTRO-SINISTRA e CENTRO-DESTRA. CEDOLARE SECCA O COMARE SECCA?

Ho un amico che da un po’ ha smesso di votare “a sinistra”, come sempre aveva fatto in passato vuoi – dice lui – per naturale moto dell’anima e anelito di maggiore giustizia sociale vuoi, forse, per nostalgie di gioventù. Da quando ha visto che i governi di centro-sinistra gli aumentavano le tasse, mentre quelli di centro-destra promettevano ad ogni vigilia elettorale di abbassarle, ha deciso, sia pure a malincuore, di “saltare il fosso”. Con un certo rimorso si è reso conto che, nonostante le promesse, neanche il centro-destra ha mai ritoccato in basso le aliquote IRPEF. Si è poi consolato osservando che almeno i governi Berlusconi-Fini-(Casini, quando c’era)-Lega Nord le tasse non le hanno aumentate. Anzi, di recente è tornato a sperare, quando ha saputo che era in cantiere la cosiddetta cedolare secca sugli affitti, con un’aliquota unica del 20% sui canoni di locazione, non concorrendo più, questi ultimi, alla determinazione del reddito complessivo delle persone fisiche (così come avviene nella maggior parte dei paesi europei).

Con grande meraviglia (ma anche con rinnovata speranza verso quella che era sempre stata la sua parte politica) ha appreso che i primi a portare in Parlamento l’auspicata cedolare secca non sono stati deputati del centro-destra, bensì parlamentari del PD (Paola De Micheli e Alberto Fluvi, capogruppo PD in Commissione Finanze della Camera), ai quali si sono presto accodati Mario Baldassarri (PDL) presidente della Commissione Finanze, Calderoli (Lega Nord) ed esponenti UDC e IDV, con una proposta trasversale del disegno di legge.

Quel che il poverino non sa è che la proposta di cedolare secca “bipartisan” è concepita unicamente a vantaggio degli inquilini e dei proprietari di “appartamenti locati ad abitazione principale”, mentre il proprietario di locali adibiti a studio o ufficio, nell’illuminata proposta bipartisan e in ossequio al 3° principio della Costituzione Italiana (!), è considerato alla stregua di un minus habens. Così, il mio amico, che affitta un piccolo locale ad una Banca ed è persona che ha sempre rispettato la legge e intende continuare a rispettarla, dovrà rassegnarsi a veder gravare ancora sul proprio reddito personale il canone che percepisce, col risultato che “il profitto” che egli continuerà a trarre dal locare il proprio bene sarà di pochi (anzi pochissimi!) euro annui, con sommo gaudio di quel povero inquilino che è la Banca, che da anni, ormai, non si vede aumentare il canone d’affitto. Già, perché se ciò avvenisse, il mio amico, per via dell’imposta progressiva, si accorgerebbe addirittura di affittare il bene in perdita!

Ora che ha saputo, il mio amico è amareggiato, ma io l’ho subito consolato, informandolo che è proprio di ieri (25 Novembre 2009) la decisione dell’illuminato governo di centro-destra (all’interno del quale continua a tutto campo il “gioco del potere” e/o “il gioco delle parti e dei ruoli”) di affondare la cedolare secca per darla in pasto alla comare secca, come noi chiamiamo la morte da questa parte del Tevere.

domenica 22 novembre 2009

PEDRO ALMODOVAR, GLI ABBRACCI SPEZZATI




  L’ultimo film di Pedro Almodóvar, Los abrazos rotos, Gli abbracci spezzati, ha il pregio di mettere in evidenza l’importanza del montaggio nella finzione cinematografica, tanto da rendere evidente come il successo o meno di un film dipenda dall’abilità con cui si ricompongono tra loro, in sintesi armonica, le scene girate. Non diversamente funziona la vita: Jean Paul Sartre diceva che è solo con la morte che l’esistenza si muta in destino, nel duplice senso che l’uomo è libero delle proprie scelte finché vive, ma che ogni storia personale si colora di senso solo a partire dalla scena finale, allorché il “nastro” dell’esistenza viene per così dire riavvolto all’indietro, ricostruendo la vita secondo i significati che un determinato artefice ha inteso assegnarle. Trattasi, naturalmente di artefice umano, perché “la trama” di un eventuale artefice divino non siamo in grado di cogliere.

 A ciegas, alla cieca, è stato montato il film che il regista Mateo Blanco, interpretato da Lluis Homar, ha girato grazie al denaro del ricco e vecchio Ernesto Martel (José Luis Gomez), improvvisatosi produttore per soddisfare il desiderio di recitare da parte di Lena, la sua giovane amante (una Penélope Cruz sempre brava e splendida, ma più cinica e fredda del solito, secondo quanto richiede il suo ruolo). E il film di Blanco viene montato “alla cieca”, ma col preciso intento di sabotarlo, da parte del produttore allorché egli scopre il tradimento dell’amante e la fuga di Lena e Mateo sulle spiagge di Lanzarote. Complice del sabotaggio è Judit, la donna con cui Blanco ha avuto una fugace avventura, che ha tuttavia lasciato tracce profonde nella vita di entrambi.

 Un tragico incidente cambia completamente le carte in tavola: divenuto cieco, Mateo Blanco che ormai si ritiene morto rispetto al passato, muta il suo nome in quello di Harry Caine e detta, in virtù del prestigio acquisito nella “precedente esistenza”, soggetti, romanzi e sceneggiature. Lo assistono in qualità di agente “tuttofare” Judit (una Blanca Portillo che conferma la notevole interpretazione di Augustina in Volver), e Diego (Tamar Novas), il figlio di lei. Entrambi assumono improvvisamente una funzione catartica, quanto annunciata, nella vita di Mateo Blanco alias Harry Caine. Judit ha conservato una copia delle scene del film girato da Mateo, sottraendola al materiale prima utilizzato per sabotare, poi distrutto dal fuoco. Diego, entrato in rapporto sempre più confidenziale con Mateo, scopre in un cassetto frammenti di foto strappate di Mateo con Lena. Così, il film potrà essere nuovamente montato e le fotografie della storia d’amore ricomposte, saldando l’esistenza di Mateo Blanco con quella di Harry Caine e dandole un senso che prima non aveva.

 Come in Volver (2006), dunque, famiglia e “fuoco purificatore” sembrano le uniche vie di salvezza, ma di Volver, il film non raggiunge il patos né l’abilità narrativa e stilistica e talora appare persino noioso. Resta la testimonianza della cifra artistica di Almodóvar, capace come sempre di “scherzare” col cinema e con la vita, al ritmo di una zambra andalusa: A ciegas, di Quintero, León e Quiroga del 1953, che alla fine del film riecheggia a lungo nel canto di Miguel Poveda:

 “Yo muchas noches sentía /Cercano ya el día /Tu pasos en la sala. /Gracias a Dios que has llegato/Que no te ha pasado/Ninguna cosa mala.
En tu manos un aroma/Que transminaba como el clavel,/Pero yo lo echaba a broma/Porque era esclava de tu querer./ « Que me he entretenido…/ Las cosas del juego » /Y yo te decía cerrando los ojos/Lo mismo que un ciego:
No tienes que darme cuentas/A ciegas yo te he creído, /Yo voy por el mundo a tientas/Desde que te he conocido. /Llevo una venda en los ojos/ Como pintan a la fe/ No hay dolor como esta gloria/De estar creyendo sin ver. /Mi corazón no me engaňa/Ya tu caritad se entrega/Duerme tranquillo sentraňa/Que te estoy quierendo a ciegas (…)


sergio magaldi

martedì 27 ottobre 2009

Woody Allen, Basta che funzioni (Whatever Works),2009

 

 Ad un anno di distanza da Vicky Cristina Barcelona, Woody Allen torna sugli schermi con la regia di Whatever Works (BASTA CHE FUNZIONI) ed è sempre un piacere per gli spettatori. Torna a New York, con una sceneggiatura vecchia di oltre 30 anni – così dichiara lui stesso – scritta per l’attore Zero Mostel (brillante interprete di The Front – IL PRESTANOME del ‘76), morto nel 1977. Occhio e croce, tuttavia, ritengo Larry David più adatto al ruolo di alter-ego di Woody Allen, di quanto sarebbe stato il pur bravo Zero Mostel. E ciò rivela ancora una volta l’abilità del regista nella scelta degli attori, giacché il film poggia, oltre che sul personaggio femminile di Melodie, quasi per intero sulla figura tragicomica di Boris Yellnikoff (perfetta sintesi di Woody Allen-Larry David campioni di umorismo yiddish), docente universitario a riposo riciclatosi come insegnante di scacchi che, con buona dose di cinismo mascherato d’ironia, giudica l’esistenza con lo stile del Woody Allen intellettuale di Manhattan (1979). Con la differenza che sono passati trent’anni e la vita dell’uomo nel pianeta appare al protagonista l’eterno scacco matto di “una specie fallita” ad opera di un Dio assente o al massimo “arredatore di interni”. Rispetto ad allora, c’è in meno forse la curiosità di vivere, ci sono in più le tematiche care al Woody Allen degli ultimi anni: il ruolo potente del fato, della fortuna e del caso.

 In tale contesto, la sceneggiatura sembra meno ispirarsi ad una storia pensata da oltre trent’anni e più vicina al filone inaugurato con Mighty Aphrodite (LA DEA DELL’AMORE del ’95), approfondito magistralmente dieci anni più tardi nei 124 minuti di Match Point, continuato, forse con minore efficacia, nelle tre successive pellicole: Scoop (2006), Vicky Cristina Barcelona (2008) e questo Whatever Works, accomunate tra loro dalla durata minima per un lungometraggio e soprattutto dall’esilità della trama. C’è tuttavia una differenza in Whatever Works rispetto ai due precedenti lavori. Non solo, infatti, si torna a New York, cioè ad un habitat che il regista ben conosce, si torna anche alla freschezza di Mighty Aphrodite e al teatro greco. I temi del destino, della fortuna, dell’amore e del caso vengono trasposti in una cornice che nulla lascia all’improvvisazione. Chi, vedendo la Melodie (Evan Rachel Wood) di Basta che funzioni non pensa subito alla Linda Hash in arte Judy Orgasm (Mira Sorvino) di La dea dell’amore, nella versione italiana l’una e l’altra doppiate con straordinaria efficacia dalla voce di Ilaria Stagni? Prostituta l’una (Judy), ingenua fanciulla del sud degli Stati Uniti l’altra (Melodie), entrambe accomunate da una visione semplice e innocente (nonostante tutto) del vivere e destinate a raccogliere il premio finale (o quasi) della fortuna e dell’amore, secondo un concetto caro all’ultimo Woody Allen: “Non sappiamo perché siamo al mondo e persino la nascita è legata al caso. Tutto ciò che può rendere più accettabile l’esistenza della persona è benvenuto. Basta che funzioni”.

 Nelle due pellicole, questa sorta di filosofia del carpe diem, segue uno schema quasi identico. Tutto si annuncia in un clima di tragedia greca per volgersi in commedia, quasi che un benevolo burattinaio, un occulto deus ex machina, a certe condizioni, s’incarichi di garantire alla “specie fallita” un minimo di felicità. E se nel film del ’95 il finale sembra più l’antefatto di una commedia di Plauto, allorché i due protagonisti s’incontrano dopo tanto tempo – ignaro Larry che la figlia di Linda è sua figlia, ignara Linda che il bambino allevato da Larry è il figlio che aveva abbandonato – in Basta che funzioni il finale è costellato di festose maschere plautine con Boris nel ruolo (così come fa per tutto il film) di colui che di tanto in tanto si separa dagli attori per intrattenersi col pubblico, con battute che a rifletterle appaiono scontate (come quella che Marx e Gesù hanno ragione in via di principio, ma anche il torto di trascurare che l’uomo, una sorta di vermetto nel migliore dei casi, non è buono…), ma che ad udirle, per l’efficacia e la semplicità con cui sono dette, arrivano allo spettatore come altrettante pillole di saggezza.

 Ed è proprio la seconda parte del nuovo film di Woody Allen, tutta intesa a preparare il finale, a zoppicare. Non solo per un calo di ritmo e di stile, ma anche e soprattutto per aver il regista attinto a piene mani dal bagaglio dell’ovvio e della post-modernità, quasi un tributo da pagare alla facile psicologia dei cosiddetti vermetti: il padre e la madre di Melodie che le diverse circostanze mutano da bigotti di provincia in spregiudicati e appagati fruitori della propria libertà, consentendo a Marietta (Patricia Clarckson) di mettere a nudo, per così dire, il proprio talento fotografico assaporando insieme le delizie di un ménage à trois, e al marito di scoprirsi felicemente gay. Melodie e Boris, dal canto loro, per gli intrighi di Marietta e il disegno improbabile della Fortuna e del Caso, tornano ad una normalità che li rende improvvisamente meno interessanti, ma con la possibilità, se tutto funziona, di percorrere un maggiore tratto di felicità.

 Film, comunque, da non perdere perché opera di uno, forse, degli ultimi grandi maestri del Cinema. 

sergio magaldi

giovedì 9 luglio 2009

IL POTERE AL FEMMINILE


Olimpia Maidalchini Pamphilj, una delle protagoniste del mio ultimo romanzo (Sergio Magaldi, LA TINOZZA DI RAME, EdiGiò, Pavia, 2009,pp.272,euro 18. Si può acquistare anche in rete su http://www.unilibro.it/ . Maggiori notizie sul libro si trovano nel precedente post di narrativa), governò Roma per 10 anni sostituendosi di fatto al cognato Innocenzo X. E' forse venuto il momento di rivalutare la figura di questa donna disprezzata dal popolo, che la chiamava Pimpaccia, e dalla Storia.
La vicenda di Olimpia si lega più in generale alla "questione femminile"apertasi in Europa con la crisi del modo di produzione feudale, allorché tra il XV e il XVIII secolo si assiste ad una serie interminabile di Querellas e Tertulias (Dispute e Chiacchiericci) cosiddette dalle spagnole Christine de Pisan e Teresa de Cartagena, vere e proprie pioniere di una "battaglia al femminile".
Tra il XVI e il XVII secolo, molte donne salgono sui troni europei, come regine o come reggenti di sovrani ancora fanciulli. E, se per un verso, col diffondersi dei valori dell'Umanesimo e della Riforma si viene sempre più accentuando negli strati più illuminati della società l'idea di un'educazione femminile per nulla diversificata da quella maschile; per altro verso resta del tutto estranea, non solo nell'Europa cattolica ma anche in quella protestante, la tesi di un potere esercitato dalle donne con pieno diritto. Persino un giusnaturalista come Jean Bodin (1529-1596) che si adopera per fare dello stato rinascimentale uno stato di diritto e per dare alla monarchia assoluta un fondamento giuridico, persino lui che nei Sei libri della Repubblica si batte contro ogni forma di machiavellismo e sostiene la necessità della tolleranza religiosa, quando si tratta di discutere sul "potere al femminile", diviene intransigente, sostenendo con forza che la ginocrazia -intesa come degenerazione del potere in quanto gestito dalle donne- è contraria alle leggi di natura.
Nel fatto, tuttavia, il potere femminile entra non di rado nella Storia, dando costantemente prove di sé non inferiori, se non addirittura superiori, a quelle offerte dal modello maschile, soprattutto se si tiene conto delle difficoltà oggettive che talora impediscono persino l'affermazione di un'identità femminile. Questo fu appunto il caso di Olimpia Maidalchini Pamphily. Il giudizio della critica mi è sempre apparso ingeneroso verso di lei, sia per le scelte della donna nel privato che per la sua conduzione del potere pubblico. Ma questa è storia del XVII secolo. La questione del potere al femminile può dirsi oggi completamente risolta? Che ne pensate?

LA VENERE LESA DI MARILYN MONROE




  La mitologia di Afrodite, divinità d’origine orientale, si fonde presto con quella di un’antica dea italica, l’ALMA VENUS dei latini. Tre erano in Roma i santuari di Venere: presso il Circo Massimo, ai piedi dell’Aventino, sorgeva il tempio di Venere Murcia o Murtea che addolcisce la vita dell’uomo e ne asseconda le voglie, ma anche dea del mirto, simbolo di amore casto; nell’area dove la Cloaca Maxima entrava nel Foro, il tempio dedicato a Venere Cloacina a ricordo della pace tra Romani e Sabini dopo il famoso ratto delle donne sabine; e infine, in un luogo ignoto, l’edificio sacro a Venere Libitina, divinità del piacere (libet) ma anche della morte, per l’associazione che da sempre la psiche umana fa tra amore e morte. S’aggiunse poi il culto di VENUS VICTRIX (vincitrice) onorata in un tempio sul Campidoglio e più tardi quello di VENUS GENITRIX (genitrice), venerata da Giulio Cesare, che da lei faceva discendere la propria famiglia tramite l’eroe troiano Enea, e celebrata dal poeta latino Lucrezio nell’invocazione che apre il DE RERUM NATURA:

“Aeneadum genetrix,hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quondam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum…”

 

Madre della stirpe di Enea, che il desiderio susciti
negli uomini e negli dei, alma Venere,
tu che rendi navigabile il mare con celesti segni,
e rechi alla terra abbondanti messi,
tu che causi la vita d’ogni essere animato
che nascendo si rallegra dei raggi del sole:
te, dea, fuggono i venti,
dileguano le nubi del cielo al tuo apparire,
per te la terra lucente fa spuntare fiori,
per te la distesa del mare sorride
e brilla di luce splendente il cielo sereno…” (trad. mia)


 I significati generali della Venere astrologica sembrano dunque ormai delinearsi nelle principali caratteristiche di Venere-Afrodite. La dea configura genericamente in astrologia i valori della vitalità e della cosiddetta solarità di una persona, le sue eventuali doti di fascino, bellezza, capacità d’amare, maternità, paternità, fecondità, dolcezza, tenerezza ed una carriera tendenzialmente votata all’arte, alla musica e alla danza (ma anche alle “minori” professioni di ostretica, estetista, parrucchiera, commerciante di abbigliamento intimo e così via). In omaggio a Venus Victrix (Venere vittoriosa) il pianeta è anche considerato simbolo di FORTUNA MINOR in rapporto alla FORTUNA MAIOR, per l’astrologo, a quanto pare, dispensata da Giove e di cui parleremo più avanti. Naturalmente purché non si tratti di una VENERE LESA, come gli astrologi definiscono l’infelice posizione di Venere in un tema di nascita, perché in tal caso tutte le qualità positive del pianeta si mutano come per magia nel loro contrario, e la grande capacità di amare diventa frigidità, gelosia e possesso, o intrigo di cortigiana, la vitalità si volge in malattie frequenti, la solarità in tetraggine o pratiche segrete di magia, la fortuna nelle piccole cose della vita in sfortuna ecc… Un esempio letterario al riguardo lo fornisce un romanzo di Paolo Maurensig che per l’appunto s’intitola VENERE LESA, edito da Mondadori alcuni anni fa. Nel risvolto di copertina del romanzo si trova scritto tra l’altro:

 




 “Questo amore che si nutre del possesso come della sottrazione, dell’attaccamento come della rivalsa, trova il suo simbolo in una figura dell’astrologia, quella Venere LESA cioè incrinata, afflitta, ferita, che allude a un’ansia immedicabile, all’impossibilità della durata, a un gioco straziante che di eterno ha solo le regole che la governano".


L’autore del romanzo premette poi alla narrazione una citazione di J. Péladan che bene esemplifica la condizione per eccellenza di una Venere FORTE (così l’astrologo definisce un pianeta presente in un oroscopo, in positivo o in negativo, per la molteplicità degli aspetti e/o la sua particolare presenza in determinati e significativi luoghi del tema di nascita) e LESA in un tema femminile:

 “La sua sfrontatezza viene immediatamente rivelata, a meno che non sia nata nell’ambito di un’alta classe sociale e che l’educazione non l’abbia fornita di una potente capacità di dissimulazione. La si incontra a tutte le gradazioni della galanteria professionale che è il suo vero destino. Cortigiana per vocazione, sa risvegliare i sensi e identificarsi in essi con un’arte prodigiosa. Ella chiama il fango che si nasconde nell’uomo e l’incatena attraverso un sapiente uso della lussuria. È lei che si ama fino ad uccidersi e che si disprezza fino all’omicidio…”


 Farò ora solo qualche esempio pratico d’interpretazione. Quando, in un tema zodiacale, Venere non sia in esilio o in caduta (nei segni dello Scorpione, di Ariete e Vergine, né in una casa astrologica decisamente sfavorevole, cioè Ascendente, Sesta e Ottava casa) e si trovi congiunta al Sole, e la Luna nell’oroscopo non sia decisamente ostile, si può ragionevolmente argomentare da parte dell’interprete che il soggetto avrà vita lunga. D’altra parte, la presenza di Venere in Scorpione o nella Ottava casa, induce a far pensare a forti appetiti sessuali ancorché distorti (naturalmente anche in funzione di altri aspetti), come pure Venere Ascendente o nel segno dell’Ariete, fa pensare al fascino del nativo. Esemplare per quest’ultimo riguardo il cielo di nascita di Marylin Monroe.








  La famosa attrice – vero e proprio mito di bellezza femminile anche ai nostri giorni – nasce a Los Angeles alle 9.30 del 1 Giugno 1926, con Venere agli ultimi gradi di Ariete, in Nona casa, posizione questa non sfavorevole e addirittura stimolante per trovarsi in analogia col segno di FUOCO TERZO del Sagittario. Venere, inoltre, è congiunta al Mediocielo in Toro dove il pianeta ha il suo domicilio, il che rafforza ulteriormente il fascino della donna e rende comprensibile per l’astrologo anche la sua fortunata carriera di attrice (Com’è noto, infatti, il luogo privilegiato dall’interprete per osservare lavoro, carriera ed eventuale successo è appunto la Decima casa di nascita o Mediocielo). 



  Tuttavia, la non felice posizione della Luna (opposta a Nettuno, quadrata a Saturno ecc…) nonché la dominante Marte-Plutone, Nettuno Ascendente e altre configurazioni planetarie rendono probabile anche e purtroppo la brevità della vita di Marylin e le tristi modalità della sua fine.





  Il grafico astrologico di Venere-Afrodite, formato di un cerchio che sovrasta una croce, sul piano meramente figurativo fa pensare ad uno specchio e/o ad una chiave T. È lo specchio con cui la dea rimira la propria bellezza e si compiace di sé. “Chi è la più bella del reame?”. Quale la dea che a buon diritto può fregiarsi del titolo di regina dell’Olimpo? Di sicuro è lei, che si vide assegnare da Paride la mela d’oro della più bella fra le dee.


 Com’è noto, nella mitologia greca, i miti sono tutti collegati tra loro. La mela, seconda per fama solo a quella che il serpente offre ad Eva nell’Eden, colta dal giardino delle Esperidi (e a questo punto si dovrebbe parlare della dodicesima e ultima fatica di Ercole), fu gettata al banchetto nuziale di Peleo e Teti da Eris, dea della discordia e sorella del dio della guerra (Marte) per vendicarsi di non essere stata invitata alle nozze. Eris accompagnò il lancio con la dichiarazione che dovesse essere assegnata alla più bella tra tutte le dee convenute al banchetto. Il risultato fu l’immediata contesa fra: Era-Giunone, Atena-Minerva ed Afrodite-Venere. Arbitro del giudizio fu designato il troiano Paride che assegnò il pomo a Venere. Scelta che avrebbe provocato più tardi la guerra di Troia, per la ricompensa accordatagli dalla dea che lo premiò con l’amore di Elena, considerata la donna più bella dell’epoca sua, moglie di Menelao e cognata del re greco Agamennone.


 Significati astrologici collegati al glifo dello specchio di Venere si trovano nei due domicili del pianeta e cioè la terra prima del Toro e l’aria seconda di Bilancia, ma anche una Venere dominante nel tema di nascita rimanda agli stessi significati. 

 Per DOMINANTE s’intende in astrologia quell’elemento (pianeta, casa o segno) particolarmente forte nell’oroscopo, come per esempio può esserlo un pianeta che posto in una casa angolare, e particolarmente al Medio Cielo o all’Ascendente, intrattenga rapporti (con aspetti più o meno benefici) con tutti gli altri pianeti o con la maggior parte di essi. I significati sono quelli del fascino, della socievolezza, della buona fortuna, dell’amabilità, del talento artistico, del buon eloquio etc… in positivo (qualora cioè non sia collocata in posizione disarmonica con gli altri pianeti), ma anche: narcisismo, pigrizia, futilità, infedeltà, lussuria, dilapidazione di beni o denaro etc… in negativo.


 Quanto all’altra immagine della chiave, non c’è dubbio trattarsi della “chiave di vita” dell’immortalità, perché dall’amore che Venere rappresenta nasce e si riproduce di continuo la vita nel nostro universo.


 Se guardiamo poi ai significati che hanno ispirato la costruzione del glifo di Venere, notiamo subito che il cerchio che sovrasta la croce (impugnatura dello specchio, ma anche simbolo del quaternario, dei quattro elementi: fuoco-aria-acqua-terra, del sesso femminile, tratto orizzontale, e di quello maschile, tratto verticale) può rappresentare il Sole cioè lo spirito che sovrasta la materia oppure il cerchio della Luna che si lascia dominare da passione, emotività e accidia.


  Sul piano astrologico valgano qui le stesse considerazioni fatte sopra. Quando i luminari (Sole-Luna) sono in aspetto armonico con Venere è lecito parlare di longevità, giusto equilibrio di materia e spirito, di emozioni e ragione etc…, quando non lo sono, può essere vero il contrario...

sergio magaldi

DIVINITA' FEMMINILI NEL MITO E NELL'ASTROLOGIA




DIVINITA' FEMMINILI NEL MITO E NELL'ASTROLOGIA

   Non c’è dubbio che l’astrologia sia niente altro che astronomia cui si decida di prestare un’anima, traendola soprattutto dalla ricca e complessa mitologia degli dei olimpici, le divinità pagane decadute con l’avvento delle religioni monoteistiche.

 Sarebbe d'altra parte errato, sotto questo profilo, sostenere, per esempio, che essendo Venere un pianeta mirabile per lucentezza e splendore, si è inteso dedicarlo alla dea della bellezza e dell’amore. L’astrologia nasce dal presupposto di descrivere e interpretare le energie cosmiche che si muovono nell’universo, a cominciare dai luminari Sole e Luna che, come osserva Tolomeo nel Tetrabiblos, di tali energie sono i principali artefici e i responsabili. Dai Caldei e sino ai Greci, e ancor prima, non ci volle molto perché le forze o le energie dei corpi celesti dello spazio circostante la terra fossero personalizzate e identificate con altrettante divinità. La religione olimpica dei Greci ne è, da questo punto di vista, la sublimazione più evoluta e al tempo stesso più complessa. Gli dei pagani rappresentano così la personificazione di poteri cosmici presenti nella realtà manifesta, costituendo l’architettura stessa dell’universo, il “piano divino” concepito da un demiurgo o grande architetto che i Greci chiamavano “Ananche” o Necessità, ritenendolo superiore e inattaccabile da parte di tutti gli altri dei, Zeus-Giove compreso.

 In tale prospettiva, dunque, per tornare all’esempio precedente, Venere non è la dea dell’amore e della bellezza in virtù dello splendore del suo corpo celeste: è piuttosto vero il contrario. L’energia, motore del mondo, che induce i terricoli (uomini animali e piante) a riprodursi piacevolmente e a godere di tutto ciò che di bello e di sublime offre l’esistenza e che al tempo stesso è simbolo della natura, della giovinezza e della primavera, ha la sua veste fisica nel pianeta o corpo celeste più luminoso (Ésperos, Eosfóros, Fosfóros o portatrice di luce è stata volta a volta chiamata questa “stella”) e la sua anima nella dea della mitologia classica. Ma la veste fisica di Venere, oltre alla luminosità offre altri elementi a coglierne gli aspetti animici e le analogie astrologiche. È il pianeta più vicino alla Terra e dunque il più visibile ed è capace di riflettere circa il 70% della luce che riceve dal Sole. L’albedo di Venere, infatti, ovvero il suo potere riflettente è il più elevato dell’intero sistema solare. Venere è avvolta in una fitta coltre di nubi, che ostacolano la penetrazione della luce del Sole all'interno e la riflettono invece all'esterno, rendendola, oltre che splendente e luminosa, capace di un “effetto serra” che porta la temperatura in superficie a circa 475°centigradi. "La dea", allorché si libera delle vesti (la fitta coltre di nubi), suscita l’ammirazione “magica” di chi le sta attorno, persone animali e cose, e l’effetto serra che produce il suo corpo è il calore della passione che è in grado di suscitare. Attenzione, però, perché il pianeta alle altezze superiori, per via della radiazione solare, dissocia l'acido solforico (H2SO4) in acqua (H2O) e biossido di zolfo (SO2). Questi, insieme all'anidride carbonica, formano una nebbia uniforme che circonda le nubi. In questa regione esterna, la pressione è di circa 0,2 atmosfere e la temperatura precipita a - 83°C. La dea, sensibile al calore ed alle passioni, può all’occorrenza mostrare tutta la freddezza di cui è capace nei confronti dell'amante. Di contro, le sue “attenzioni” possono rivelarsi eccessive ed estremamente pericolose: il mito di Paride ne è l’esempio. Le sonde dei nostri giorni inviate su Venere hanno subito notevoli danni prima di poter trasmettere dati alla Terra, a causa delle alte temperature e della corrosività del pianeta, la cui atmosfera è composta per il 96 % di anidride carbonica e per il 4 % di azoto, con tracce di biossido di zolfo, argon e vapore acqueo. Sulla superficie di Venere, inoltre, sono presenti vaste depressioni e insieme grandi altopiani e monti di natura vulcanica, alcuni dei quali tuttora attivi: la dea a seconda che conceda i suoi favori o meno è in grado di suscitare emozioni possenti come eruzioni vulcaniche, vaghe aspettative o soltanto lacrimevoli depressioni.

 La bellezza, sorriso della terra, e l'amore, sorriso della vita, presero forma umana e femminile nel mito di Afrodite. La Dea dell'amore, figlia del Mare e del Cielo, nacque nei pressi dell'isola di Cipro dalla spuma galleggiante sul mare, frutto dei genitali recisi di Urano, a sua volta personificazione della volta celeste. Il suo nome greco [Afrodite], significa appunto nata dalla spuma:


“[...] E
rraron a lungo sul mare e d’intorno bianca spuma s’alzava dai membri immortali; dentro la spuma una fanciulla crebbe. E prima alla santa Citera fu spinta, donde poi giunse a Cipro cinta dal mare. Lì emerse adorabile e bella dea; sotto i suoi passi leggeri l’erba fioriva d’attorno. L’hanno chiamata Afrodite uomini e dei perché nacque da spuma…”
(Esiodo, Teogonia)

 In un mattino di primavera splendente di sole, apparve una meravigliosa creatura stillante rugiada, da un placido gorgo azzurro e ritta sopra una conchiglia iridata. La brezza marina faceva fremere i suoi capelli biondi e sbattere i veli che avvolgevano il suo corpo candido. Due Zefiri in forma di giovinetti alati e incoronati di fiori, la spinsero col soffio verso la riva. Le Ore [divinità minori] le vennero intorno in un molle ritmo di danza [nei suoi significati astrologici la danza e le arti sono sotto il governo di Venere] e detersero le sue membra dalla salsedine, pettinarono le sue chiome dorate e le intrecciarono di perle; poi le misero indosso una veste profumata e fecero brillare sul suo collo una splendida collana. Un carro d'alabastro tirato da candide colombe apparve all'improvviso e Venere-Afrodite vi salì sorridente.  Attraversando gli spazi luminosi giunse in breve alla reggia degli immortali.

 Non vorrei essere frainteso. È chiaro che gran parte dei significati che l’astrologia attribuisce a Venere derivano dai miti collegati alla dea ed è altrettanto vero che tali significati sono la proiezione fantastica che il corpo celeste, ovvero la sua veste fisica, ha generato nella psiche umana sin dai primordi e che la tradizione ha successivamente contribuito ad implementare. Naturalmente, non si tratta di miti isolati perché vanno sempre considerati in relazione alla complessa mitologia degli altri dei-pianeti e/o luminari ed alla particolare posizione che ciascuno di tali corpi celesti occupa nello spazio. Così, l’astrologo parlerà diversamente di un aspetto Venere – Marte piuttosto che di uno Venere – Giove e questo stesso aspetto sarà diversamente considerato in funzione del segno zodiacale in cui si colloca, delle cosiddette case di reciproca pertinenza, nonché della distanza espressa in gradi che intercorre tra i due astri e/o pianeti e dall'osservazione dei rapporti che ciascuno dei due intrattiene con altri corpi celesti. In proposito, per ciò che riguarda lo zodiaco, ricordo che Venere ha domicilio nel Toro e nella Bilancia, è esiliata nei segni opposti rispettivamente dello Scorpione e dell’Ariete, si esalta nei Pesci ed è in caduta nell’opposto segno della Vergine. Domicilio (o governo o maestria) ed esaltazione sono posizioni genericamente favorevoli di Venere, mentre l’esilio e la caduta genericamente sfavorevoli. 

 Molti sono coloro che oggi credono ciecamente nell’astrologia, pari almeno a quanti la considerano vana superstizione. Poi ci sono quelli che distinguono e che, sulla scia di una vaga suggestione rinascimentale, ritengono gli astri influenti ma non determinanti e infine chi, osservando che l’astrologia nell’antichità era praticata unicamente per avere lumi sui grandi eventi cosmici e magari sui principali accadimenti mondiali, dirige i suoi strali contro l’astrologia giudiziaria e la sua pretesa di fotografare per così dire, attraverso il tema zodiacale, tracciato al momento della nascita, il destino degli individui. Nella schiera di coloro che sopra ho appena nominato, c’è poi chi la condanna in pubblico ma la pratica in privato e chi si limita ad utilizzare il discorso astrologico per fini meramente simbolici o come succedaneo di altre tradizioni. Ora, benché l’astrologia ubbidisca – come già dicevo – ad una certa filosofia e ad una concezione, certo datata storicamente (ma cosa non è datato?), basata sulla corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, si deve tuttavia ammettere che non è una fede alla quale credere o non credere e che nel campo di sua pertinenza è possibile realizzare una verifica sperimentale che, se non è scienza propriamente intesa, può almeno lasciarsi apprezzare per la bontà o meno delle sue previsioni. Circa poi la diffusione dei pregiudizi contro l’astrologia giudiziaria va riconosciuto che una discreta mano l’ha data in tal senso la Chiesa allorché, con Bolla del 5 Gennaio 1586, Coeli Et Terrae Creator, Sisto V condanna oltre alla divinazione, non l’astrologia tutta, ma per l’appunto l’astrologia giudiziaria. Quanto ad altri pregiudizi si consideri quanto nel II Secolo d. C. scriveva Tolomeo:
 E poi, sotto il nome di astrologia i più ne gabellano un'altra per lucro; ingannano infatti i profani arrogandosi previsioni anche tecnicamente impossibili, mentre inducono chi ha la testa sul collo ad una condanna indiscriminata anche di pronostici effettivamente possibili. Anche qui non tornano i conti: non è la scienza astrologica da sconfessare, ma i ciarlatani che se ne fanno schermo. Va però detto che, anche a praticare l’astrologia in maniera, per quanto possibile, critica e legittima, spesso capita di prendere abbagli: non per i motivi suddetti ma per la natura della previsione e per la sua fragilità rispetto alla grandezza delle promesse.(Tetrabiblos, I,2, 13-14).

 Ancora una considerazione: tra i detrattori ci sono anche quelli che accusano l’astrologia di basarsi sulla concezione geocentrica e dunque su una teoria costruita sulla falsità dei suoi presupposti. Ma ci sono anche quelli che, da veri raffinati, sostengono che per una previsione attendibile del destino individuale si dovrebbe tracciare la carta del cielo al momento del concepimento, non della nascita. A tutti mi limito a rispondere che l’osservazione astrologica inizia con l'apparire del soggetto sulla Terra, che dunque è presa come simbolico punto di riferimento, a prescindere dalle verità dell'eliocentrismo. Aggiungo inoltre che, potendo conoscere con esattezza il momento esatto del concepimento, non sarebbe inutile disporre di entrambe le mappe: quella di nascita e quella dell'istante in cui siamo stati concepiti, come pure sostiene ancora Tolomeo:

 L’inizio della vita dell'uomo è, conforme a natura, l'istante in cui viene concepita, ma di fatto, e accidentalmente il momento del parto. Quando - per caso o anche per osservazione — c’è dato conoscere il tempo esatto del concepimento, per pronosticare le particolari caratteristiche del corpo e dello spirito sarà bene riferirci ad esso, analizzando l'influenza attiva degli aspetti dei corpi celesti in quel periodo. Infatti, al momento del concepimento il seme riceve in dote celeste una volta per sempre una sua peculiare fisionomia e, se pure subirà delle modifiche nei tempi successivi della formazione del feto, assimilando durante la crescita soltanto la materia che gli è naturalmente affine, assomiglierà sempre più strettamente al tipo della sua primigenia fisionomia. Se invece, come più sovente accade, non si conosce il tempo preciso del concepimento, bisognerà partire da quello della nascita, pure importantissima e secondaria solo al concepimento, in quanto esso permette di conoscere anche gli eventi anteriori alla nascita stessa. (Tolomeo, cit., III, 2, 1-3).

 Riprendendo il discorso che si faceva sopra, preciso che le case astrologiche sono una partizione dello zodiaco, resa necessaria dall’esigenza di determinare il momento dell’ascendente cioè del segno e del grado zodiacale che sorge ad est, là dove l’eclittica s’interseca con l’orizzonte al momento della nascita. L’ascendente è dunque il segno zodiacale che sorge all’orizzonte al momento della nascita, rappresentando il punto di partenza o cuspide della I Casa dal quale procede poi la cosiddetta domificazione del cielo di nascita. Le case si sovrappongono ai segni zodiacali avendo in analogia con loro i relativi significati (la I Casa con l’Ariete, la seconda col Toro ecc…) ma non necessariamente la stessa ampiezza. Sono 12 come i segni ma le case angolari sono considerate più importanti delle altre (I o Ascendente – IV – VII – X o Mediocielo). Per aspetti s’intendono invece le distanze che intercorrono tra i pianeti e quelle che ciascun pianeta intrattiene con i luminari (Sole-Luna), con Ascendente e Mediocielo e altri punti sensibili del cielo di nascita. L'aspetto principe, l'aspetto per eccellenza, è la congiunzione che si ha quando i due o più pianeti hanno la medesima longitudine zodiacale, quando, cioè, insistono su uno stesso grado zodiacale. La congiunzione può esser positiva a seconda della natura dei pianeti che si congiungono e del segno e della Casa entro i quali si produce la congiunzione stessa. Gli altri aspetti maggiori o principali si usano distinguere in aspetti armonici e aspetti dissonanti.


 Gli aspetti armonici maggiori sono il sestile ed il trigono. Il sestile corrisponde ad una distanza di 60° ed il trigono ad una distanza di circa 120°. I principali aspetti dissonanti, sono invece il quadrato (o quadratura) e l’opposizione. Il quadrato corrisponde ad una distanza angolare di 90° e l’opposizione ad una di 180°. La teoria degli aspetti si basa sulla concezione pitagorica che costruiva poligoni regolari all'interno del cerchio: gli aspetti appaiono fondati sui rapporti numerici per cui se la congiunzione vale 1, l’opposizione vale 2, il trigono 3 ed il quadrato 4. I pitagorici, attenti ai rapporti tra suoni e relazioni geometriche consideravano disarmoniche le divisioni del cerchio a base 2 e 4, ed armoniche quelle a base 3 e 6. Su questa impostazione di base intervenne in seguito Keplero considerando il cerchio zodiacale come una corda di strumento musicale corrispondente ad un'ottava, e studiandone la partizione dei toni ripartiti su 360°. Alla congiunzione rispondeva l’ottava, all’opposizione la quinta, al trigono la quarta e al quadrato la mediante maggiore.
 
 Rispetto alla distanza esatta dell’aspetto è tollerato un certo scarto d’orbita. Per la congiunzione e per l’opposizione tale scarto è di circa 10° (aumentando nel rapporto con i luminari Sole e Luna), per il trigono di 6°, per la quadratura di 5° e per il sestile di 4°. Così, per esempio, si considerano in opposizione due pianeti che sono distanti l'uno dall'altro da 170° a 190° (l'aspetto esatto è di 180°). Non mancano aspetti minori come il sesquiquadrato (135° di distanza), il quinconce (150°); il semisestile (30°) e il semiquadrato (45°). Ma qualsiasi distanza tra i pianeti, che si ottiene continuando a dividere il cerchio di 360°, può avere o non avere una sua significatività nella complessità dell’interpretazione.

 Ciò che dicevo a proposito di Venere vale per ogni altro corpo celeste e direi in modo ancora più manifesto per la Luna. Il luminare della notte dovette subito imporsi alla fantasia degli antichi per il candore della sua veste fisica, suscettibile tuttavia di cambiare velocemente nel colore e nella forma, determinando così una vasta scala di immagini cromatiche, ricche di significato. Né ci volle molto perché la mente primitiva proiettasse su altrettante divinità il fluttuare perenne dell’astro così simile al flusso della vita: nascita, crescita, pienezza, decadenza e morte. Unico satellite della Terra, chi coltiva i campi ne scopre subito l’influenza per la semina, chi naviga ne coglie la corrispondenza con le maree e l’intero ciclo femminile appare cadenzato su quello della Luna.
 
 È la casta Artemide (o Diana) al suo candido e primo apparire, protettrice delle partorienti e al tempo stesso custode del principio femminile che deve essere mantenuto intatto per essere preservato. Pronta ad uccidere e/o a generare la follia nelle menti di chi attenti all’equilibrio della natura (Orione colpito da uno scorpione, Atteone mutato in cervo e via dicendo). Così, tra i vari significati, l’astrologia attribuisce ad una certa configurazione del luminare nel cielo di nascita le morti improvvise e/o l’insorgere della follia.
 
 È Selene nella pienezza del suo fulgido splendore, a simboleggiare la bellezza delle forme femminili, che protegge le donne in gravidanza, favorisce la fecondazione; è Atena o Minerva dagli occhi di civetta che vede nel buio della notte ciò che altri non vedono e nella sua sapienza conosce ogni segreto; è Ecate la terribile, quando nel cielo scompare alla vista e si lega alle ombre degli spiriti e alle pratiche di magia nera. Insomma è il principio femminile nella varietà delle sue sfumature positive e negative. In qualche raro caso è però anche divinità maschile (è il caso di Shin, il dio assiro-babilonese), perché non più considerata per rapporto al Sole dal quale riceve la luce, ma in relazione alla Terra da fecondare. Sotto il femmineo e bianco manto l’astro cela infatti il rosso dardo della passione, per cui talora fu anche identificato con Venere-Afrodite.

 Gli dei rappresentano in forma personalizzata le forze gravitanti nell’universo e nella psiche umana, i miti raccontano di questi dei, attribuendo loro fatti reali e accadimenti umani. L’astrologo traduce miti e simboli in un universo di significato che differisce non solo in funzione di una molteplicità di variabili, ma in ragione di una complessità di cui è l’interprete, in definitiva, il solo responsabile. Giacché, per quanto egli si sforzi di considerare con oggettività le diverse energie dei corpi celesti presenti nel tema di nascita considerato, spetta sempre a lui ricomporre in sintesi ciò che a prima vista appare contraddittorio. Tanto per fare qualche esempio: la nascita con Luna nuova, crescente, calante o piena, al primo quarto, all’ultimo, in domicilio, in esilio, in esaltazione o caduta, in questo o quel segno, in questa o quella casa, armonica o disarmonica col Sole e con i pianeti ecc… assumerà significati diversi potendo idealmente richiamarsi a questa o quella divinità del mito lunare. Così, se congiunta a Marte, egli non avrà difficoltà, almeno a prima vista, a identificare la Luna con Artemide e i suoi significati guerrieri, se congiunta a Venere con la stessa Afrodite e la dolcezza venusina, se a Giove con Selene, cioè la possibilità di successo, l’immaginazione benefica, ma anche il rischio d’ingrassare...

 Per il rapporto tra musica-astrologia, infine, è chiaro che la musica, esprimendo nel linguaggio che le è proprio, le armonie o le disarmonie del reale, può ben rappresentare una metafora dell’astrologia, non solo per gli aspetti correlati agli accordi e ai toni musicali, ma più in generale per tutti i corpi celesti  simbolicamente presenti nella scala musicale.

sergio magaldi