venerdì 11 ottobre 2013

ESOPO E LA RECENTE CRONACA POLITICA



  Se il grande Esopo avesse messo in favola gli ultimi giorni della politica italiana, sicuramente avrebbe narrato di un rospo tra lupi, falchi e finte colombe, che fa lo sciacallo per essere il delfino di un re travicello.







 È un fatto che i recenti avvenimenti abbiano mostrato per l’ennesima volta la vera natura di Silvio Berlusconi. Approssimandosi il momento della sua decadenza dal Senato, ha lanciato una sfida: minaccia di dimissioni di tutti i parlamentari del PDL e, un attimo dopo la ritorsione di Letta sull’IVA [vedi i post La politica italiana tra spettri e parassiti e Il Belpaese dismesso], le dimissioni dei ministri del suo partito. Non l’ha fatto forte di una decisione scaturita dal dibattito interno, né la prima né la seconda volta, secondo un principio che dovrebbe guidare l’azione di ogni partito in uno stato democratico, dove le opinioni si confrontano e la maggioranza ha il diritto di sostenere le proprie finalità, fatto salvo il diritto della minoranza di rappresentare l’opposizione all’interno dello stesso partito.

 E, dopo il primo errore di non aver indovinato il tempo giusto di apertura della crisi, le modalità per aprirla sono state il suo secondo errore, perché con ogni probabilità la maggior parte del PDL avrebbe accolto la sua proposta e la minoranza sarebbe stata delegittimata ad agire in difformità di decisioni prese a maggioranza. È vero che in tal caso, con altrettanta probabilità, il partito si sarebbe spaccato, ma Berlusconi avrebbe avuto gioco facile nell’additare i frondisti di fronte al proprio elettorato. Il terzo errore è stato di non essere andato sino in fondo nella decisione annunciata sino ad un’ora prima della votazione, togliere cioè la fiducia al governo Letta. Con un voltafaccia incredibile – che non potrà non avere ripercussioni tra i suoi elettori, anche se qualcuno si lascerà convincere che in questo modo ha salvato l’unità del partito – Berlusconi ha annunciato il voto di fiducia di tutto il PDL. L’ha fatto con poche e semplici frasi, seguite da molta commozione, per essere stato costretto a cedere a delfino, lupi e colombe e per essere consapevole che quelle era forse l’ultimo discorso che pronunciava in Senato.

 L’uomo è questo, incapace di una decisione risoluta da portare sino in fondo e sempre pronto a rimangiarsi tutto, quando sia in questione il proprio potere personale e l’interesse del momento. Lo abbiamo già visto all’opera per vent’anni, quando proclamò il prossimo avvento di un’Italia liberale, con la fine delle corporazioni, la riforma della giustizia e della pubblica amministrazione, lo snellimento della burocrazia, un fisco più equo, la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione della spesa pubblica, la soppressione degli enti inutili e delle province, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Cosa resta di tante parole e di tante promesse? Nulla! L’unico merito che forse gli va riconosciuto è quello di essere riuscito ad abolire temporaneamente l’IMU sulla prima casa e di essersi opposto, peraltro senza successo, allo smodato desiderio di tassazione che da sempre anima il centro sinistra.

  L’impressione è che questa volta Berlusconi abbia fatto male i suoi calcoli, andando contro il suo stesso interesse. Si dice che in Senato a voltargli le spalle sarebbero stati in 23 sui 110 senatori di cui complessivamente dispone il PDL. Personaggi senza carisma, alcuni dei quali già screditati presso l’opinione pubblica, per lo più dal passato democristiano e senza alcuna presa tra gli elettori. Certo, sarebbero bastati a Letta per ottenere la fiducia. Ma per fare che? Chi non ha ancora capito che qualsiasi governo in Italia è destinato a correre su una pista obbligata che è quella del rigore e delle tasse, secondo il volere dell’Eurogermania, e che l’unica cosa che possiamo ottenere in cambio è il contenimento dello spread, al prezzo di una continua decrescita del PIL, di un aumento della disoccupazione e di una recessione permanente?

 L’unica cosa che questo governo è in grado di fare è appunto varare la legge di stabilità, dando con ciò assicurazione ai mercati finanziari che i titoli del debito pubblico italiano non sono ancora spazzatura. Al massimo, oltre ad approvare nuove tasse a sostegno della cosiddetta stabilità, l’esecutivo potrà varare una nuova legge elettorale per reintrodurre il sistema proporzionale, con il duplice intento di colpire il Movimento Cinque Stelle e gettare le basi per una rinascita della Democrazia Cristiana, forte di Scelta Civica, UDC e colombe PDL, per un patto stabile di governo tra PD e Nuova DC che alla lunga finirebbe per erodere voti al partito democratico, sia al centro in favore dei nuovi democristiani, sia a sinistra in favore di SEL, CINQUE STELLE e/o di altri movimenti. Naturalmente tutto questo finché i cittadini, ridotti allo stremo, non decidessero di dire l’ultima parola. 

 Su questo disegno del Grande Centro che in prospettiva, per qualche nostalgico, potrebbe anche includere una parte del PD, personalmente nutro forti dubbi. Intanto perché lo stesso PD è già stato egemonizzato dagli ex-democristiani i quali perciò, almeno nell’immediato, non hanno alcun interesse a lasciare il partito. Poi perché, quando sarà chiaro che l’azione di governo continuerà ad essere caratterizzata dal nulla, peggiorando ancora di più tutti i parametri economici, ogni prospettiva di nuove formazioni centriste cadrà automaticamente, favorendo le ali più estreme dello schieramento politico, come sempre accade in circostanze simili.

 Per gli stessi motivi, non credo che la rivolta dei 23 all’interno del PDL avrebbe avuto molta fortuna sul piano elettorale. I sondaggi accreditano oggi le colombe di un benevolo 7% per aver scongiurato le elezioni, ma un domani, alla prova dei fatti, c’è da esserne sicuri, quella percentuale non supererebbe il 2-3%. Possibile che Berlusconi, per quanto con l’acqua alla gola, sia stato incapace di questi calcoli, preferendo il ruolo di un re travicello? Si dice che l’abbia fatto per non spaccare il partito da lui fondato. Può darsi, credo però che la verità sul suo ripensamento sia un’altra e probabilmente scaturisce da tutta una serie di considerazioni:

1)  Berlusconi sa di non avere una classe politica e un elettorato disposto a seguirlo sino in fondo sulla strada dell’opposizione che, mai come oggi, significa sfida all’Eurogermania e alla politica del rigore e dell’austerità, così come non fu seguito nel ’94, dopo aver lanciato coraggiosamente il programma per un’Italia liberale in un partito nato per difendere e consolidare le rendite di posizione e i privilegi corporativi.
2)  Berlusconi sa perfettamente che questo governo non riuscirà a combinare nulla e che prima o poi anche le colombe saranno costrette a mollare, allora potrà disporre dell’intero partito per la campagna elettorale e del sostegno di tutto il suo elettorato, stanco del governo delle larghe tassazioni.
3) Berlusconi non vuole un partito articolato in correnti e la celebrazione di un congresso che ne sancisca ufficialmente l’esistenza [secondo la proposta sensata di Raffaele Fitto], perché in tal caso verrebbe meno il suo potere personale, fondato sulla mediazione, e si accontenta per il momento di fare il re travicello, nella speranza che il tempo lavori per lui.
4) Berlusconi, dopo un gesto coraggioso, ma non impulsivo come si vorrebbe far credere – nella proposta di sfiducia era infatti implicito l’auspicio dello scioglimento delle Camere e il non pronunciamento politico sulla sua decadenza – ha capito che la sfida sarebbe stata inutile se il governo avesse ottenuto comunque la fiducia.
5) Berlusconi, dunque, a conti fatti, ha preferito “ingoiare il rospo”, anche considerando che per le sue vicende personali e per la sorte delle sue aziende, stare al governo, data la situazione, è più vantaggioso che stare all’opposizione. E l’attuale dibattito su indulto e amnistia potrebbe alla fine premiare il rapido voltafaccia.






D’altra parte e con non minore perspicacia, il delfino, del quale tuttavia si dice da più parti – per restare nella metafora esopea – che non sia un’aquila, ha capito che proprio la mancanza di un’articolazione democratica all’interno del PDL [senza la celebrazione di un congresso che riconosca alle colombe il ruolo che gli compete, cioè quello di una minoranza] gli sconsiglia di creare gruppi autonomi in Parlamento e meno che mai una nuova formazione politica. Perché andarsene se con le poche forze di cui dispone può dettare la linea politica del partito?

Tutta la vicenda mostra che Berlusconi ha perso comunque l’occasione storica di poter essere altro da quello che è stato per vent’anni – e non c’era quasi da dubitarne –  ponendosi alla testa di un elettorato capace di mettere da parte i propri interessi immediati per guardare in faccia il futuro dell’Italia, avviata all’inesorabile decrescita economica, alla crescente disoccupazione e alla perdita della sovranità nazionale a vantaggio di un’Europa sempre più tedesca.

sergio magaldi































 


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