Wulf Dorn, Follia profonda, Corbaccio, 2012, pp.432 |
Si è soliti dire che l’amore
contenga in sé un po’ di follia, è lecito affermare il contrario e cioè che
nella follia ci sia sempre anche un po’ d’amore?
Davvero ottimo, per gli amanti del genere e non solo, questo thriller
psicologico di Wulf Dorn, Dunkler Wahn [“Oscuro inganno”], reso in
italiano con il titolo di Follia profonda, genericamente definito
dall’autore un caso di stalking e che per la verità affronta, con ritmo
incalzante e colpi di scena, aspetti problematici che spaziano dalla comune
nozione di amore sino ai disturbi della dissociazione e della personalità
multipla.
Ronald David Laing [1927-1989], sulla scia della fenomenologia e
dell’esistenzialismo di Jean Paul Sartre, definisce il fenomeno della
dissociazione e della personalità bipolare una «accentuazione
dell'insicurezza ontologica comune a tutti gli uomini, per cui anche in
circostanze di vita ordinarie, un individuo può sentirsi più irreale che reale,
letteralmente più morto che vivo, differenziato in modo incerto e precario dal
resto del mondo, così la sua identità e la sua autonomia sono sempre in
questione. Può mancargli la sensazione della continuità temporale; può fargli
difetto il senso della propria coerenza o coesione personale. Si può sentire
come impalpabile, e incapace di ritenere genuina, buona e di valore la stoffa
di cui è fatto. Può sentire il suo io parzialmente disgiunto dal suo
corpo. » [R.D. Laing. L'Io diviso. Torino,
Einaudi, 1969. p. 50.]
Se il comportamento bipolare
maniaco-depressivo e la dissociazione, quando non degenerino nella schizofrenia
e si mantengano sul piano del disturbo schizoide che conserva la consapevolezza
del reale, possono a giusto titolo considerarsi “un’accentuazione
dell’insicurezza ontologica comune a tutti gli uomini” – secondo la definizione
di R.D. Laing – diverso è il caso in cui il soggetto separi drasticamente una
parte di sé e ne perda la consapevolezza al fine di sottrarsi ad una situazione
particolarmente difficile da vivere o nella prospettiva di un appagamento
esistenziale altrimenti irraggiungibile. Ciò che peraltro distingue
assolutamente lo schizofrenico, con i suoi deliri, le sue allucinazioni,
l’apatia, la mancanza di logica, i disturbi dell’attenzione, delle capacità
intellettive e della parola, dal soggetto affetto da DID [Dissociative
Identity Disorder] o disturbo di personalità multipla, dove due o più
distinte identità convivono nella stessa persona pur ignorandosi tra loro e
mantenendo intatta la capacità di relazionarsi con gli altri, ma ciascuna con
differenti e/o contraddittori modi di pensare e di agire. Talora, può anche
accadere che un’identità – senza poterla rapportare a se stessi – sia
consapevole dell’altra, ma non viceversa, e che manifesti per l’identità
inconsapevole compatimento o profondo disprezzo. Noto, negli anni Cinquanta del
secolo scorso, il caso di una giovane sofferente di emicrania che alternava con
lo psichiatra un atteggiamento ansioso e riservato [“Eva bianca”], ad uno
seduttivo e spiritoso [“Eva nera”],
consapevole e critico nei confronti di “Eva Bianca”, mentre quest’ultima
ignorava completamente l’esistenza dell’altra. Più clamorosa, sino a far
insorgere il sospetto di una finzione a scopo di lucro, la storia di Shirley
Ardell Mason, pseudonimo Sybil, scritta da Flora Rheta Schreiber e portata
sullo schermo per descrivere le sue 16 personalità:
Victoria
Antoinette Scharleau (Vicky), ragazza sofisticata
e d’origine francese.
Peggy Lou
Baldwin,
isterica e sempre in preda all’ira.
Peggy Ann
Baldwin,
l’amica di Peggy Lou.
Mary Lucinda
Saunders Dorsett, una perfetta casalinga.
Marcia Lynn
Dorsett,
dotata nella pittura. In proposito occorre ricordare che Shirley era una
studentessa di arte della Columbia University.
Vanessa Gail
Dorsett, preoccupata soprattutto di piacere come
donna.
Mike Dorsett, cioè un’identità maschile,
con il mestiere di carpentiere.
Sid Dorsett, altra identità maschile
fortemente unita in amicizia con la precedente.
Nancy Lou Ann
Baldwin,
timorata di Dio, con manie religiose e la ferma convinzione dell’imminente fine
del mondo.
Sybil Ann
Dorsett,
una ragazza completamente apatica.
Ruthie Dorsett, una bambina di 2 anni.
Clara Dorsett, molto religiosa come Nancy ma meno angosciata dal timor di Dio.
Helen Dorsett, una Shirley paurosa ma che
non esita a lottare per superare le
difficoltà.
Marjorie Dorsett, una ragazza divertente e
sempre curiosa intellettualmente.
La Bionda, una ragazza senza nome,
evanescente e ferma all’età di 18 anni.
Il romanzo di Wulf Dorn si apre con una
lettera anonima inviata a Jan Forstner, psichiatra della Waldklinik di
Fahlenberg. Credo sia abbastanza eloquente per inquadrare il personaggio
femminile al centro della narrazione:
Carissimo Jan,
nessuna storia ha un lieto fine. Richard
Gere può salire altre mille volte la scala antincendio e baciare la sua Pretty
Woman, ma è soltanto un’illusione.
Infatti, per quanto speriamo, per quanto
lo desideriamo, il bacio prima dei titoli di coda in realtà è una menzogna. È
il principio mascherato da fine. Quello che conta è ciò che segue.
Le fiabe che ci sono state raccontate da
bambini, invece, sono molto più sincere. Hai mai provato a riflettere sulla
frase che si trova in fondo a ogni fiaba?
E vissero per sempre felici e contenti.
Con una verità ineludibile. Infatti il per
sempre sta a indicare la fine della vita. In fondo c’è comunque la perdita.
L’aspetto più cinico è che risulterà tanto più lacerante quanto maggiore è
stata la felicità precedente. Quando un giorno riceverai questa lettera, avremo
sofferto entrambi e il dolore sarà indescrivibile. Sarà il momento in cui
capirai che cosa significa l’amore vero e che niente a questo mondo accade per
caso.
Credimi, per quanto soffrirai, mi
ringrazierai di questo dolore. Anzi, di più. Mi amerai per questo. Proprio come
io ti amo fin d’ora. Ora, che non sei neppure consapevole della mia esistenza.
Con il pensiero sono sempre insieme a te.
E ben presto nemmeno tu potrai più dimenticarmi.[pp.9-10].
Tutto
ha inizio quando Bettina, la graziosa infermiera di 21 anni, bussa allo studio
del dottor Jan Forstner per recapitargli un gran mazzo di rose rosse senza biglietto
e lo psichiatra crede erroneamente che a mandare le rose sia stata Carla
Weller, la giornalista che ha appena pubblicato un libro e che è in viaggio per
promuoverlo. Jan è felice, ma anche sorpreso, perché negli ultimi tempi ha
notato un certo distacco da parte della donna che è anche la sua compagna.
Scopre di essersi ingannato quando riceve due telefonate, quella di Carla e
quella di una sconosciuta voce femminile che gli sussurra al microfono “Senza
di te non ce la faccio”.
La descrizione dei sentimenti di questa donna
misteriosa che, in forma anonima entra a tratti ma costantemente nella
narrazione, consente allo scrittore tedesco di introdurci in un caso di Limerence
[ultrattaccamento], una patologia individuata dalla psicologa Dorothy Tennov
che, a seguito di uno studio scientifico e sperimentale sull’amore romantico,
pubblicò nel 1977, il libro Love and Limerence: The Experience of Being in
Love.
Con Limerence, la Tennov indica l’idealizzazione irrazionale della persona amata e l’attaccamento ossessivo-compulsivo nei suoi confronti, con il desiderio spasmodico che l’ amore sia ricambiato. La sindrome patologica si caratterizza con manifestazioni fisiche e psichiche, quali stati ansiosi, tachicardia, pensieri intrusivi che disturbano ossessivamente la mente, l’azione e la vita relazionale del limerent [del tipo: non riesco a combinare nulla perché penso sempre e solo a te…], con una particolare attenzione accordata alle azioni, ai pensieri e alle parole della persona amata, di volta in volta interpretati favorevolmente come segnali di un amore ricambiato o, viceversa, valutati come prova del non essere amati. Il disturbo, nella maggior parte dei casi presi in esame, è più intenso ma si esaurisce in più breve tempo nella donna-limerent, soprattutto se anche l’uomo nel frattempo è diventato limerent. Detta con altre parole, più facilmente dell’uomo, quando la donna affetta da “ultrattaccamento amoroso” si rende conto di essere ricambiata, cessa automaticamente di amare. In ogni caso, il limerence, sia nell’uomo che nella donna, non arriva mai a superare i tre anni, fatte salve le degenerazioni patologiche.
E certo una degenerazione in tal senso è nella
donna che ha inviato a Jan il mazzo di rose rosse, come si comprende nel
colloquio che, con il volto celato dal cappuccio di un impermeabile, ella intrattiene, nel confessionale della
Chiesa di San Cristoforo, con Felix Tanner, il parroco trentaduenne della
diocesi di Fahlenberg:
“Dei passi risuonarono
nella navata laterale e, attraverso la grata del confessionale, Thanner vide la
sagoma di una persona passargli davanti. Poi la porta laterale del
confessionale si aprì e subito dopo egli udì un fruscio di stoffa nel buio.
«Signore,
perdonami, perché ho peccato» bisbigliò una voce femminile.
Era una voce giovane, anche se era difficile
attribuirle un’età. Poteva essere tra i venti e i trentacinque anni. In ogni
caso era la prima volta che Thanner la sentiva.
«Il Signore che illumina il nostro cuore ti
conceda un sincero pentimento dai tuoi peccati» disse
Thanner, recitando la consueta formula di accoglienza, ma la donna lo
interruppe.
«Niente litanie!» sibilò.
«Non le sopporto.»
«D’accordo, niente
litanie. Dimmi che cosa ti cruccia.»
Thanner la sentì
respirare. Era come se dibattesse con se stessa se non fosse meglio andarsene
via subito.
«Io… non so se posso»
bisbigliò. «Però…»
«Sì?»
«Io… devo parlarne con
qualcuno. Altrimenti… mi strazierà.» […]
«Non avevo altra scelta»
sussurrò. «Ho dovuto farlo per salvarmi. Non ho visto altra via d’uscita…
perché non c’era altra via d’uscita.»
«Che cosa hai fatto?»
chiese Thanner, anche se era convinto di non voler sentire la risposta. Questa
donna gli incuteva timore, anche se non capiva perché. Era solo un oscuro
presentimento, e forse lei lo stava ingannando.
Oppure no
In ogni caso, nonostante tutti i timori, doveva spingere
questa donna a confessarsi, qualunque emozione lui provasse al riguardo. Era
suo dovere. Lui era solo un tramite con Dio.
«Dimmi, mia cara, quale
peccato ti angoscia così tanto?»
Dopo un breve istante di
esitazione, lei rispose, laconica e fredda.
«Ho ucciso.»
Felix Thanner trasalì.
Aveva previsto quella risposta. Che cos’altro poteva angosciarla tanto da non
poter essere neppure pronunciato?
«Ho ucciso una persona»
ripeté. «E non è stata la prima.»
[pp.72-74].
Entrando nel vivo della narrazione,
apprendiamo così che la ragazza dalle rose rosse ha già ucciso due volte, la
prima per un amore non corrisposto, la seconda per essere stata riconosciuta da
un testimone. Ora che è nuovamente affetta da limerence, questa volta
nei confronti del dottor Forstner che evidentemente conosce bene, anche se lui
non sa chi lei sia, siamo quasi sicuri che ucciderà ancora, per gelosia o
perché qualcuno si porrà sulla sua strada per impedirle di raggiungere il suo
“amore per sempre”. Ma chi è la donna che, per dimostrare tutto il suo
“vero amore”, al telefono dice a Jan di chiamarsi Jana?
sergio magaldi
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