Se il grande Esopo avesse messo in favola gli ultimi giorni della politica
italiana, sicuramente avrebbe narrato di un rospo tra lupi, falchi e finte colombe,
che fa lo sciacallo per essere il delfino di un re travicello.
È un fatto che i
recenti avvenimenti abbiano mostrato per l’ennesima volta la vera natura di
Silvio Berlusconi. Approssimandosi il momento della sua decadenza dal Senato,
ha lanciato una sfida: minaccia di dimissioni di tutti i parlamentari del PDL e,
un attimo dopo la ritorsione di Letta sull’IVA [vedi i post La politica italiana tra spettri e parassiti e Il Belpaese dismesso], le dimissioni
dei ministri del suo partito. Non l’ha fatto forte di una decisione scaturita
dal dibattito interno, né la prima né la seconda volta, secondo un principio
che dovrebbe guidare l’azione di ogni partito in uno stato democratico, dove le
opinioni si confrontano e la maggioranza ha il diritto di sostenere le proprie
finalità, fatto salvo il diritto della minoranza di rappresentare l’opposizione
all’interno dello stesso partito.
E, dopo il primo
errore di non aver indovinato il tempo giusto di apertura della crisi, le
modalità per aprirla sono state il suo secondo errore, perché con ogni
probabilità la maggior parte del PDL avrebbe accolto la sua proposta e la
minoranza sarebbe stata delegittimata ad agire in difformità di decisioni prese
a maggioranza. È vero che in tal caso, con altrettanta probabilità, il partito
si sarebbe spaccato, ma Berlusconi avrebbe avuto gioco facile nell’additare i
frondisti di fronte al proprio elettorato. Il terzo errore è stato di non
essere andato sino in fondo nella decisione annunciata sino ad un’ora prima
della votazione, togliere cioè la fiducia al governo Letta. Con un voltafaccia
incredibile – che non potrà non avere ripercussioni tra i suoi elettori, anche
se qualcuno si lascerà convincere che in questo modo ha salvato l’unità del
partito – Berlusconi ha annunciato il voto di fiducia di tutto il PDL. L’ha
fatto con poche e semplici frasi, seguite da molta commozione, per essere stato
costretto a cedere a delfino, lupi e colombe e per essere consapevole che
quelle era forse l’ultimo discorso che pronunciava in Senato.
L’uomo è questo,
incapace di una decisione risoluta da portare sino in fondo e sempre pronto a
rimangiarsi tutto, quando sia in questione il proprio potere personale e
l’interesse del momento. Lo abbiamo già visto all’opera per vent’anni, quando
proclamò il prossimo avvento di un’Italia liberale, con la fine delle
corporazioni, la riforma della giustizia e della pubblica amministrazione, lo
snellimento della burocrazia, un fisco più equo, la promessa di un milione di
nuovi posti di lavoro, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione
della spesa pubblica, la soppressione degli enti inutili e delle province,
l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Cosa resta di tante parole
e di tante promesse? Nulla! L’unico merito che forse gli va riconosciuto è
quello di essere riuscito ad abolire temporaneamente l’IMU sulla prima casa e
di essersi opposto, peraltro senza successo, allo smodato desiderio di
tassazione che da sempre anima il centro sinistra.
L’impressione è
che questa volta Berlusconi abbia fatto male i suoi calcoli, andando contro il
suo stesso interesse. Si dice che in Senato a voltargli le spalle sarebbero
stati in 23 sui 110 senatori di cui complessivamente dispone il PDL. Personaggi
senza carisma, alcuni dei quali già screditati presso l’opinione pubblica, per
lo più dal passato democristiano e senza alcuna presa tra gli elettori. Certo,
sarebbero bastati a Letta per ottenere la fiducia. Ma per fare che? Chi non ha
ancora capito che qualsiasi governo in Italia è destinato a correre su una
pista obbligata che è quella del rigore e delle tasse, secondo il volere
dell’Eurogermania, e che l’unica cosa che possiamo ottenere in cambio è il
contenimento dello spread, al prezzo
di una continua decrescita del PIL, di un aumento della disoccupazione e di una
recessione permanente?
L’unica cosa che
questo governo è in grado di fare è appunto varare la legge di stabilità, dando con ciò assicurazione ai mercati
finanziari che i titoli del debito pubblico italiano non sono ancora spazzatura.
Al massimo, oltre ad approvare nuove tasse a sostegno della cosiddetta
stabilità, l’esecutivo potrà varare una nuova legge elettorale per reintrodurre
il sistema proporzionale, con il duplice intento di colpire il Movimento Cinque
Stelle e gettare le basi per una rinascita della Democrazia Cristiana, forte di
Scelta Civica, UDC e colombe PDL, per un patto stabile di governo tra PD e
Nuova DC che alla lunga finirebbe per erodere voti al partito democratico, sia al centro
in favore dei nuovi democristiani, sia a sinistra in favore di SEL, CINQUE
STELLE e/o di altri movimenti. Naturalmente tutto questo finché i cittadini,
ridotti allo stremo, non decidessero di dire l’ultima parola.
Su questo disegno
del Grande Centro che in prospettiva, per qualche nostalgico, potrebbe anche
includere una parte del PD, personalmente nutro forti dubbi. Intanto perché lo
stesso PD è già stato egemonizzato dagli ex-democristiani i quali perciò,
almeno nell’immediato, non hanno alcun interesse a lasciare il partito. Poi
perché, quando sarà chiaro che l’azione di governo continuerà ad essere
caratterizzata dal nulla, peggiorando ancora di più tutti i parametri
economici, ogni prospettiva di nuove formazioni centriste cadrà
automaticamente, favorendo le ali più estreme dello schieramento politico, come
sempre accade in circostanze simili.
Per gli stessi
motivi, non credo che la rivolta dei 23 all’interno del PDL avrebbe avuto molta
fortuna sul piano elettorale. I sondaggi accreditano oggi le colombe di un
benevolo 7% per aver scongiurato le elezioni, ma un domani, alla prova dei
fatti, c’è da esserne sicuri, quella percentuale non supererebbe il 2-3%.
Possibile che Berlusconi, per quanto con l’acqua alla gola, sia stato incapace di questi calcoli, preferendo il ruolo di un re travicello? Si dice che l’abbia
fatto per non spaccare il partito da lui fondato. Può darsi, credo però che la
verità sul suo ripensamento sia un’altra e probabilmente scaturisce da tutta una
serie di considerazioni:
1) Berlusconi sa di non avere una
classe politica e un elettorato disposto a seguirlo sino in fondo sulla strada
dell’opposizione che, mai come oggi, significa sfida all’Eurogermania e alla
politica del rigore e dell’austerità, così come non fu seguito nel ’94, dopo
aver lanciato coraggiosamente il programma per un’Italia liberale in un partito
nato per difendere e consolidare le rendite di posizione e i privilegi
corporativi.
2) Berlusconi sa perfettamente che
questo governo non riuscirà a combinare nulla e che prima o poi anche le
colombe saranno costrette a mollare, allora potrà disporre dell’intero partito
per la campagna elettorale e del sostegno di tutto il suo elettorato, stanco del
governo delle larghe tassazioni.
3) Berlusconi non vuole un partito
articolato in correnti e la celebrazione di un congresso che ne sancisca
ufficialmente l’esistenza [secondo la proposta sensata di Raffaele Fitto],
perché in tal caso verrebbe meno il suo potere personale, fondato sulla
mediazione, e si accontenta per il momento di fare il re travicello, nella
speranza che il tempo lavori per lui.
4) Berlusconi, dopo un gesto
coraggioso, ma non impulsivo come si vorrebbe far credere – nella proposta di
sfiducia era infatti implicito l’auspicio dello scioglimento delle Camere e il
non pronunciamento politico sulla sua decadenza – ha capito che la sfida
sarebbe stata inutile se il governo avesse ottenuto comunque la fiducia.
5) Berlusconi, dunque, a conti fatti,
ha preferito “ingoiare il rospo”,
anche considerando che per le sue vicende personali e per la sorte delle sue
aziende, stare al governo, data la situazione, è più vantaggioso che stare all’opposizione.
E l’attuale dibattito su indulto e amnistia potrebbe alla fine premiare il
rapido voltafaccia.
D’altra parte e con non minore
perspicacia, il delfino, del quale
tuttavia si dice da più parti – per restare nella metafora esopea – che non sia
un’aquila, ha capito che proprio la
mancanza di un’articolazione democratica all’interno del PDL [senza la
celebrazione di un congresso che riconosca alle colombe il ruolo che gli
compete, cioè quello di una minoranza] gli sconsiglia di creare gruppi autonomi
in Parlamento e meno che mai una nuova formazione politica. Perché andarsene se
con le poche forze di cui dispone può dettare la linea politica del partito?
Tutta la vicenda mostra che
Berlusconi ha perso comunque l’occasione storica di poter essere altro da
quello che è stato per vent’anni – e non c’era quasi da dubitarne – ponendosi alla testa di un elettorato capace
di mettere da parte i propri interessi immediati per guardare in faccia il
futuro dell’Italia, avviata all’inesorabile decrescita economica, alla
crescente disoccupazione e alla perdita della sovranità nazionale a vantaggio
di un’Europa sempre più tedesca.
sergio magaldi
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