L’oscar 2009 per il migliore film va a The Millionaire, diretto da Danny Boyle (oscar anche per la migliore regia), una favola indiano-statuninense dal gusto di saga popolare e con tanto d’amore drammatico e impossibile che evolve sino al lieto fine. Ma il film, tratto da un romanzo di Vikas Swarup è anche altro. I miti principali della nostra epoca vi sono tutti rappresentati, con i grandi quiz a premi in denaro che hanno fatto la fortuna delle TV, aprendo la strada della persuasione occulta di milioni di telespettatori o con l’idea che ci si possa riscattare persino dalla condizione di paria solo che lo si voglia con tutte le proprie forze, come nel caso di Jamal (Dev Patel), purché si resti nel giusto e nel buono e non si pretenda di usare la violenza, perché in tal caso si finisce male come suo fratello Salim. E ancora: l’impossibilità della lotta di classe come l’impossibilità di combattere le mafie, la possibilità invece di farsi strada da soli nella vita anche al costo di subire le ingiustizie del potere costituito, delle sue leggi e delle torture dei suoi sgherri, più o meno corrotti, preposti a difenderlo. E, sullo sfondo, il mito dell’amore unico e sempiterno, capace di resistere alla sfida del tempo come al destino avverso, purché la volontà del maschio franga gli ostacoli che trova sulla propria strada e si renda degno di meritare in premio la donna che ama, una creatura-oggetto debole e affascinante come la Latika (Freida Pinto) di Jamal. Perché il miracolo si compia, tuttavia, è necessario che il nostro eroe superi tutta una serie di prove che da ultimo si riassumono nella capacità di diventare milionario e popolare partecipando al Grande Quiz della televisione indiana. Come riuscirà Jamal, vissuto tra i paria di Mumbai, a rispondere alle domande pseudoculturali e ai trabocchetti che l’ambiguo e ottuso presentatore del programma gli sottopone? È semplice: egli troverà le risposte non già per averle tratte da libri che non ha letto, ma per aver fatto tesoro delle proprie esperienze. È questo l’ultimo mito che la favola propone, forse il più possente di tutti perché, in un mondo sempre più globalizzato che legge poco e molto vede e consuma, fa leva sull’idea diffusa in tutti gli strati sociali che libri e cultura siano balocchi di perditempo.
Ciò detto, non v’è dubbio che Danny Boyle abbia realizzato un prodotto di successo e di largo consumo, attingendo oltre che alla mitologia occidentale e alla ricca tradizione indiana di canti e danze (avvalendosi della collaborazione della regista indiana Loveleen e soprattutto di Allah Rakha Rahman, famoso compositore indiano di soundtracks ), alla ormai consumata abilità dei cineasti americani (ancora ignota purtroppo alla maggior parte di quelli italiani) di imporre al film un ritmo capace di dissuadere lo spettatore dal compulsare il proprio orologio e/o di sbadigliare, creando al tempo stesso effetti capaci di stupire e di imporre concetti mediante la forza dell’immagine, come nel caso delle riprese di Boyle che schiacciano ripetutamente le masse indiane su oggetti che le sovrastano, siano questi templi o grattacieli, piazze monumentali o binari dove stazionano lunghi e grossi treni affiancati, a manifestare la scarsa significanza nell’attuale società indiana (solo nell’indiana?) dell’individuo in quanto tale a meno che…egli non sia capace di diventare milionario e popolare come Jamal.
In tale prospettiva, non suscita meraviglia l’attribuzione a The Millionaire di ben otto celebri statuette compresa quella più importante di tutte, ottenuta spuntandola su film come The Reader e Il curioso caso di Benjamin Button, più inclini a sedurre lo spettatore attraverso la mente che rivolgendosi alle sue viscere.
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