L’ultimo film di Paolo Virzì sta raccogliendo in Italia unanime consenso di pubblico e di critica, almeno a giudicare dagli incassi e dalle recensioni della stampa e degli internauti. Né poteva essere diversamente. Già il titolo, La prima cosa bella – preso in prestito dalla omonima canzone popolare che, nell’interpretazione dell’allora esordiente Nicola Di Bari e dei Ricchi e Poveri, si classificò al 2° posto del Festival di Sanremo del ’70 – ricorda agli italiani, nati di donna, che “la prima cosa bella” che hanno ricevuto dalla vita è il “sorriso giovane” della propria madre. Del resto, la colonna sonora del film, nel canto dolce di Malika Ayane, risuona di quei versi sinceri, belli e per nulla retorici: “La prima cosa bella che ho avuto dalla vita è il tuo sorriso giovane, sei tu […]”
Appare dunque naturale che la narrazione si svolga tra il 1971 e il 2009, in un ritmo da sistole e diastole che finisce per interessare le viscere e che rimanda di continuo dal presente al passato senza soluzione di continuità e senza una vera e propria tecnica di flashback, ciò che avrebbe facilitato nello spettatore distratto dalle prime multicolori sequenze, la comprensione che non si stia parlando di due famiglie dello stesso condominio ma di un'unica famiglia rivisitata quarant’anni dopo.
La storia narrata da Virzì utilizza tutti gli strumenti utili a far risuonare le corde del cuore e della pancia, organi particolarmente sensibili negli spettatori attratti dai numerosi programmi nazional-popolari della TV, sia “classici”, tipo “Ballando sotto le stelle”(non a caso citato nel film) che vagamente “trasgressivi”, del genere “Grande fratello”. Senza voler considerare l'utilizzo dell’accento della sua terra, il livornese, che dalle labbra del sempre più accigliato e introspettivo Valerio Mastrandrea e ancor più da quelle di Claudia Pandolfi si diffonde suscitando più di una perplessità in chi ascolta.
Nondimeno, il tutto appare congegnato con mestiere e non c’è dubbio che alcuni personaggi siano convincenti, come la “madre giovane” – così solare e materna, così vittima del maschilismo di sempre – interpretata in modo più che convincente da Micaela Ramazzotti, che via via che procede la narrazione cerca sempre più di avvicinarsi alla “madre più che matura”, rappresentata da un'impeccabile Stefania Sandrelli. Anche se l’ingenuità della “prima madre” fa un po’ da contrasto con l’eccessiva arguzia e disinvoltura della seconda. E lo stesso Valerio Mastrandrea dimostra ancora una volta di trovarsi a proprio agio nei panni di un personaggio al quale non sia richiesta eccessiva mobilità espressiva, al di fuori del volto corrucciato, simbolo del disagio dell’anima (un po’ come in Giulia non esce la sera). Bravi i registi che così lo utilizzano.
Per il resto, la vicenda risente di una costruzione di maniera, con ingredienti garbatamente attinti dalla cucina popolare, con contrasti, liti e tradimenti familiari, con maldicenze di provincia e tradizionali luoghi comuni, con situazioni paradossali che dovrebbero emozionare lo spettatore, come nel matrimonio e nel trapasso consumati nella stessa giornata, a meno che non si tratti di un tributo a Jean-Jacques Roussseau che nel matrimonio vede la tomba dell’amore!
Un “polpettone”, dunque? Non proprio o non del tutto, perché alla fine la pietanza offerta appare comunque più discreta e misurata delle sostanze utilizzate.
sergio magaldi
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