Il lettore si sente subito a proprio agio nell’elegante condominio parigino che pagina dopo pagina gli appare sempre più come una finestra sul mondo. Un’apertura questa, che ci permette di scorgere le contrapposizioni presenti nella realtà: storiche, esistenziali, culturali o addirittura metafisiche. Si comincia con quella tra Renée, la portinaia, e Paloma, la tredicenne figlia di un ministro. Qui, per la verità, il dualismo è solo apparente, perché si coglie abbastanza presto che le “confessioni” della portinaia e “il diario del movimento del mondo” di Paloma riflettono l’anima della scrittrice. E questo, certamente, è il compito più difficile che si assume la Barbery. Non solo e non tanto perché tutta la trama prende forma attraverso il racconto delle due donne, quanto perché l’una ha 54 anni ed è di estrazione proletaria, l’altra ha circa 13 anni e appartiene al mondo dell’alta borghesia. Dopo aver letto il libro una sola volta non sono ancora sicuro di poter dire che l’operazione sia riuscita. Spesso, infatti, mi è sembrato come di avvertire uno “slittamento di piani” e mi sono chiesto se a parlare fosse Renée piuttosto che Paloma. Senza contare che la filiale e materna corrispondenza tra l’adolescente e la donna matura sboccia quasi per incanto, non troppo suffragata dallo svolgimento della narrazione. E, a meno di voler dire che “le anime belle si riconoscono subito fra di loro”, una ragione in più per chiedersi se Renée e Paloma, pur presentate con tante differenze, non siano in realtà che una voce sola.
Una cosa tuttavia è certa: l’abilità con la quale la scrittrice (evidentemente consapevole del rischio di appiattire le due donne l’una sull’altra), anticipa ogni possibile critica del lettore, fornendo lei stessa “la prova” che Renée e Paloma, conosciute nelle loro contraddizioni, finiscono con l’essere una sola persona o quantomeno sono accomunate dal medesimo “sentire”. E infatti, Renée non è l’oscura e ignorante portinaia che a tutti i costi vuole mostrare di essere per incarnare il ruolo che da lei si richiede e Paloma – che ha solo due strade avanti a lei: imitare Colombe, la sorella, perfettamente integrata nel proprio mondo oppure dare fuoco alle cose che sono i simboli dell’ambiente cui appartiene e suicidarsi – finisce con l’intravedere una terza via: potenza della cultura, delle “anime belle” e delle “affinità elettive”, ma anche del deus ex machina che irrompe nella narrazione, sottoforma di un nuovo condomino ricco, attempato e affascinante che, manco a dirlo, è un giapponese, tale Kakuro Ozu.
Per una contrapposizione che si risolve, ricomposta nell’unità dialettica dell’anima della scrittrice, tutte le altre permangono intatte e ci inducono a riflettere, sia pure con amarezza lucida e consapevole, che di loro è tessuta la trama della realtà, ma non per questo la vita è indegna di essere vissuta, giacché, se riusciamo a vederli e sentirli, aspetti di bellezza e momenti di armonia sono presenti in questo mondo di contrasto e di lotte. Nonostante tutto, e malgrado il finale del libro ci avverta che il destino è in agguato proprio quando la felicità sembra ormai a portata di mano…
Ecco, credo, il messaggio più importante che ci consegna il romanzo di Muriel Barbery, scritto quasi sommessamente, con garbata ironia e in uno stile di cui s’era perso il segno.
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