THE MASTER, film di Paul Thomas Anderson, U.S.A., 2012, 137 minuti |
The Master,
premiato con il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia e con la
Coppa Volpi per i suoi due grandi interpreti [Philip Seymour Hoffman nella
parte di Lancaster Dodd e Joaquim Phoenix in quella del marinaio Freddie]
ha appena ricevuto tre nomination all’Oscar. E subito mi chiedo se il
gran parlare che si fa di questo film, il successo già ottenuto e che quasi
sicuramente lo porterà a vincere almeno un Oscar, dipenda da intrinseche
qualità oggettive o non piuttosto dal fatto di essere la parziale ricostruzione
della vita del fondatore di un’organizzazione settaria, divenuta così popolare
negli Stati Uniti, tanto da approdare alla costituzione di una vera e propria
chiesa, la Church of Scientology, più nota in tutto il mondo
semplicemente col nome di Scientologia, che letteralmente implica un
discorso sulla conoscenza e che, da L.Ron Hubbard, suo capo carismatico e dai
suoi seguaci, fu definita di volta in volta come una filosofia religiosa, un
corpo organizzato di conoscenza, una filosofia religiosa applicata, una vera e
propria chiesa con i suoi riti e i suoi ministri.
Prescindendo da questo interrogativo, e dalla curiosità di sapere
cosa sia realmente Scientology e cosa rappresenti ancora oggi a
sessant’anni dalla sua costituzione [informazioni facilmente reperibili in
rete], converrà giudicare il film di Paul Thomas Anderson, regista e
sceneggiatore, per quello che realmente è. La critica appare divisa. Per lo più
entusiasta quella americana, con punte di esaltazione, come nel giudizio di
A.O. Scott sul New York Times: “Un film imponente,
contraddittorio e alla fine meraviglioso. Una storia che mostra l’inganno e la
follia della grandezza. La cosa più vicina a un grande film che abbia visto
recentemente”; o come
in quello di Brian Henry Martin [UTV]:“Per me è un capolavoro, un’esplosione di cinema puro. Se siete annoiati da questo film allora siete annoiati dalla vita”. E in effetti, se dovessi scegliere un aggettivo per definire questo film, non direi che è noioso. Anche se di noia parla Gianni Rodolino sulla Stampa: “[…]Anderson, che ha realizzato alcuni film indubbiamente meritevoli, in
particolare il precedente Il petroliere del 2007, non è riuscito a
rendere affascinante e soprattutto avvincente una storia che appare, nella
durata di due ore e mezza, piuttosto noiosa”. Parlerei semmai di un film narcisistico o “troppo
innamorato di se stesso” come l’ha
definito Rene Rodriguez del Miami Herald.
L’interpretazione superba di due grandi interpreti – l’uno nella
parte del Maestro, pieno di sé, dogmatico, bizzarro poligrafo, sognatore e
opportunista al tempo stesso, l’altro in quella del discepolo selvatico,
ignorante, misterioso e alcolizzato, reclutato tra i reduci di guerra, agli
inizi degli anni Cinquanta – dà luogo ad una vicenda che esclude la noia, ma
rimanda all’interrogativo se sia sufficiente da sola a rendere intrigante
l’intero racconto. E la risposta è negativa non tanto per le motivazioni
“ideologiche” che Curzio Maltese ne dà su Repubblica: “The
Master di Paul Thomas Anderson non è purtroppo il capolavoro annunciato.
Dimenticate la potenza de Il Petroliere. La storia, per quanto negato
dall’autore, è del tutto ispirata alla figura di Ron Hubbard, fondatore di
Scientology, la
potente setta para religiosa che da 60 anni miete soldi in mezzo al mondo, ma
in particolare ad Hollywood, all’insegna del pagare per credere. Amici di
Hubbard erano i regimi fascisti e razzisti e i milionari spostati. Nemici
giurati il comunismo, gli omosessuali, la scienza ufficiale, i medici veri e la
psicanalisi, avvertita come una minaccia perché toglieva i clienti migliori”.
Perché la storia
narrata nel film non riesce ad interessare più di tanto, o almeno a non
interessare tutti alla stessa maniera? La ragione è forse nelle scelte del
regista. In luogo di costruire una storia pregna di significati politici,
culturali e religiosi, di osservare il fenomeno Scientology
dall’esterno, Anderson sceglie di vederlo dall’interno, con una lente di
ingrandimento grazie alla quale osserva da vicino una iniziazione, e lo
fa ricorrendo ad un rapporto paradossale fondato su una scommessa del Maestro:
domare lo spirito ribelle del neofita più distante dalle idee che egli
professa. Così facendo, la prospettiva si modifica e capita spesso che il
maestro diventi il discepolo e viceversa.
In questo senso, mi sembra che il regista
abbia ragione nel sostenere che il suo film non è propriamente o compiutamente
la storia di Scientology e del suo fondatore, né è – come più di un
critico si è affrettato a concludere – la vicenda di una manipolazione delle
coscienze e/o del controllo di una mente sull’altra. Tant’è che il marinaio
Freddie, sebbene ad un certo punto introietti le tecniche del maestro per
avvicinare la psiche degli altri, non rinuncia all’atteggiamento riottoso e
dissacrante che gli appartiene da sempre, forse dai milioni di anni in cui,
secondo la prospettiva di Scientology, il suo spirito si è venuto
reincarnando. E Dodd, il maestro, mentre cerca di domare l’animalità del
discepolo, non disdegna l’utilizzo di certe sue misteriose pozioni [che poi
tanto misteriose non sono…] per ritrovare la perduta energia né, pur
rimproverandolo, evita di sorridere di fronte alle “lezioni” che Freddie,
ubbidendo alla propria naturale animalità, impartisce a chi dissente dalla “Causa”
o si pronuncia contro il Maestro.
Maestro e discepolo s’incontrano anche sul
tema della dissacrazione. Dodd cerca di estirparla dall’animo del
discepolo che non esita a manifestarla pubblicamente. E quanto più il maestro
cerca di volare in alto, con discorsi eloquenti dettati dal suo spirito, il
pupillo gli ricorda la terra e l’animalità della natura umana: per esempio con
un peto sonoro o con un biglietto che egli passa furtivamente ad una giovane
segretaria dell’Organizzazione, mentre
tutti pendono dalle labbra del Maestro, chiedendole semplicemente se lei ha
voglia di scopare con lui.
Di contro, nella scena in cui i membri della
“Causa” fanno e ascoltano musica – una delle modalità più elevate dello spirito
– tra nudi femminili e corpi di maschi interamente vestiti, più che liberalità,
desiderio e gioia dell’unione sessuale, traspare un palese richiamo alla
categoria dell’osceno, misto ad un inquietante senso del potenziale
asservimento di cui la carne umana può essere vittima. Ma è anche un’occasione
per riflettere: mentre Freddie vive alla luce del sole la propria istintualità,
Dodd e la sua Organizzazione costruiscono prigioni per l’istinto che la forza
tremenda dell’inconscio non tarda ad abbattere. Sotto questo profilo, anche la
fisicità dei due interpreti, oltre alla loro notevole bravura, c’insegna
qualcosa. Dodd, con tutta la sua proclamata spiritualità e che sorridendo
chiama spesso “maiale” il discepolo, ha qualcosa nell’espressione del volto
rubicondo che, del maiale, richiama idealmente le fattezze. Freddie, con gli
occhi semichiusi, il fare vagamente misterioso, il rimpianto e la nostalgia di
un amore perduto, la cicatrice di un taglio sopra il labbro, il riso che
sottolinea di frequente, più di tanti discorsi, il suo stupore o la sua
delusione, ha qualcosa insieme
dell’angelo e della bestia.
Blaise Pascal, per intenderci, e
ricorda la “Querelle de l’existentialisme”, nell’immediato dopoguerra, di
Maurice Merleau-Ponty, nel difendere Sartre dall’ “orribile e sozzo” episodio
di L’Age de raison, allorché Ivitch, dopo aver bevuto sino a star male,
vomita e Sartre narratore osserva: “Un aspro odore di vomito
emanava dalla sua bocca così pura, Mathieu respirò appassionatamente
quell’odore”. Notava allora in
proposito Merleau Ponty [Sens et non sens, Nagel, Paris, 1948]: “Senza
alzare il tono e senza cercare il paradosso, si può trovare nella frase di L'Age
de raison che tanto urta Emile Henriot come un piccolo sublime, senza
eloquenza e senza illusioni, che è, credo, un'invenzione del nostro tempo. Si
parla da un pezzo dell'uomo come angelo e animale insieme, ma la maggior parte
dei critici sono meno arditi di Pascal. Trovano ripugnante mescolare l'angelico
e l'animale nell'uomo. Occorre loro un al di là del disordine umano e, se non
lo trovano nella religione, lo cercano in una religione del bello”.
Insomma, ho
l’impressione che Anderson non volesse realizzare una “rappresentazione aperta
a una serie di interpretazioni storiche e culturali, politiche e
ideologiche, religiose e atee”, come avrebbe auspicato Gianni Rondolino.
Neppure penso che egli abbia sciupato un’occasione, potendo disporre di due
talenti come Philip Seymour Hoffman e Joaquim Phoenix. Il suo film è altro: non
è né vuole essere la versione cinematografica più o meno edificante di una
storia compiuta, è piuttosto la
descrizione di un incontro tra due esistenze inconsuete, portate a vivere
casualmente e in modo radicale la loro condizione, l’una di Maestro, l’altra di
iniziato. Il film non è bello, né gradevole, bensì fastidioso e
dissacrante, irritante e compiaciuto di sé. Gli basterà sicuramente per vincere
almeno un Oscar.
sergio magaldi
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