Human Capital, il romanzo pubblicato da Stephen Amidon e giudicato da Jonathan
Yardley, critico del “Washington Post”, tra i migliori cinque romanzi del 2004,
non risente negativamente della trasposizione cinematografica realizzata da
Paolo Virzì, benché siano trascorsi dieci anni dalla sua uscita e l’ambiente in
cui si svolge la narrazione non sia quello del Connecticut ma quello della
Brianza. Il film si adatta bene all’Italia dei nostri giorni e più in generale
a questa fase storica della globalizzazione, in cui il capitale finanziario
detta tempi e modi delle dinamiche sociali. Con la realtà che è sotto gli occhi
di tutti: tassare sempre di più il cittadino divenuto ormai suddito, perché lo
stato possa mantenere il suo apparato senza finire in bancarotta, disinvestire
nella produzione di beni, creando disoccupazione e di conseguenza forza lavoro
a buon mercato, aumentare in modo esponenziale il tasso di povertà perché la
ricchezza si concentri nelle mani dei pochi che detengono il capitale
finanziario.
Il contrasto tra il cosiddetto capitale
umano – inteso come il valore monetario attribuito alla vita umana dalle
compagnie di assicurazione – e il capitalismo
produttivo, c’è sempre stato, secondo una logica che ubbidiva alla
contrapposizione storica tra capitale
e lavoro. Il fatto nuovo e sotto gli occhi di tutti è l’insorgere di una
nuova e sempre più preponderante forma di organizzazione e distribuzione della
ricchezza: il capitalismo finanziario, di fronte al quale il capitale
umano si riduce a pochi spiccioli.
La dialettica
hegeliano-marxiana [tesi-antitesi] si è infine risolta in una sintesi che non è
quella vagheggiata dal materialismo storico e/o dall’idealismo metafisico e
ubbidisce ad una logica prima d’ora sconosciuta che cementa di fatto l’alleanza
tra capitalismo delle merci e lavoro salariato contro il capitalismo
finanziario dell’età della globalizzazione. La lotta è impari, perché alla
piccola e media imprenditoria viene a mancare il credito gestito dalle banche
per conto dell’alta finanza e il lavoratore sarà costretto ad accettare la
diminuzione di valore della forza lavoro che è anche l’unico bene di cui
dispone. Può così accadere che l’imprenditore si trasformi a sua volta in
lavoratore salariato o sia portato a disinvestire dalla produzione di beni,
merci e servizi per investire nel mondo della finanza. Incentivato anche dal
diverso sistema di tassazione che, per esempio, in Italia è di circa il 50% sul
capitale produttivo e il reddito da lavoro e tra il 12 e il 20% sul capitale
finanziario.
È un
po’ quello che accade a Dino Ossola [Fabrizio Bentivoglio], l’agente
immobiliare brianzolo del film di Paolo Virzì che investe nella finanza tutto
quello che ha e anche quello che non ha. L’occasione gli viene dal rapporto di
amicizia sentimentale che lega sua figlia Serena [Matilde Gioli, in una
interpretazione efficace e tanto più sorprendente trattandosi quasi di
un’esordiente] al figlio di uno squalo della finanza. Dino Ossola e Giovanni
Bernaschi [Fabrizio Gifuni] cominciano con una partita di tennis insieme
per poi legarsi in un rapporto d’affari dove, fin dall’inizio, è sin troppo
evidente chi finirà per perdere e sarà disposto a tutto pur di non soccombere.
La Lega Nord non ha gradito la
rappresentazione della Brianza quale emerge dal film di Verzì, tra speculatori
arricchiti e piccoli imprenditori che si aggrappano ai primi con ogni mezzo,
lecito e illecito, pur di sfuggire alla crisi. E soprattutto non ha sorriso
della macchietta del consigliere di amministrazione del teatro che Carla
Bernaschi [Valeria Bruni Tedeschi, in una interpretazione fisicamente ed
emotivamente inappuntabile], moglie di Giovanni, intende restaurare dopo averlo
ricevuto in dono dal marito. Col fazzoletto verde che gli spunta dal taschino,
il cellulare che lo avverte delle chiamate con il Va’ Pensiero, e
con la proposta di far inaugurare il
teatro dal coro della Padania. Mancanza di spirito di alcuni dirigenti leghisti
e/o rifiuto di accettare una realtà che l’esigenza dello spettacolo porta di
necessità ad estremizzare?
Non meno interessante – ancorché si svolga su
un terreno positivo in cui, a differenza degli uomini, si muovono tutte le donne del film – è il
confronto tra Roberta [Come sempre un’ottima Valeria Golino] la compagna
di Dino, e Carla, la moglie di Giovanni.
Dove la prima, anche in virtù della sua professione, si dimostra
particolarmente sensibile verso il mondo che la circonda, la seconda, benché
appaia china su se stessa e si conceda momenti di bovarismo – per evadere dalla
gabbia d’oro in cui l’ha chiusa il cinismo del marito – manifesta un interesse
culturale che sa di nostalgia per il “tempo perduto” e un bagliore di coscienza
nel rimproverare al marito di essere tra quelli che hanno scommesso sulla
rovina dell’Italia e che hanno vinto. Salvo poi a sentirsi rispondere da
Giovanni: “Siamo… tra quelli che hanno scommesso…”.
Giovanna Trinchella su Il Fatto Quotidiano
del 12 Gennaio parla del lavoro di Virzì come di un film imperfetto: “ […]
fa lasciare la sala cinematografica con un senso di insoddisfazione frustrante
perché, nonostante la bravura del cast, il nitore della fotografia, la regia
equilibrata, risulta monco. La divisione in quattro capitoli – Dino, Carla, Serena
e il Capitale umano – trascura emotivamente e narrativamente proprio quella che
avrebbe dovuto essere la figura più importante delle pellicola ovvero il
ciclista che muore dopo essere stato investito. Un personaggio questo – con cui
il regista avrebbe dovuto farci entrare in empatia – e che invece viene
relegato nello spazio di una figurina; inserito a stento nell’album principale.
Un tassello quasi
insignificante, neanche un comprimario. Messo lì in una
tabella, come quella della quantificazione del risarcimento dei danni.”
Più
che di “insoddisfazione frustrante”, parlerei di sospensione temporanea del
giudizio, al momento di uscire dal cinema, per un film che ha tutti gli
ingredienti per essere considerato ottimo, cui pure manca qualcosa per emozionare.
E non si tratta di quello che la Trinchella immagina perché, se Virzì avesse
aggiunto al film un capitolo intestato al cameriere-ciclista, alla vittima,
avrebbe finito probabilmente con lo sminuire proprio ciò che ha inteso
sottolineare: l’insignificanza che la vita ha nel nostro tempo, simbolicamente
espressa dalla cifra che le compagnie di assicurazione assegnano al capitale
umano.
Perché allora un film, cui non manca nulla, e
che mette il dito efficacemente sulla crisi italiana ed europea, non arriva ad
emozionare lo spettatore? Intanto perché, con l’eccezione del finale [e del
“finale del finale” diverso da quello del romanzo] appare talora scontato nelle
sequenze narrative e soprattutto perché ha l’aria di un compito ben fatto,
impeccabile persino, dove tuttavia è assente il colpo d’ala della fantasia, che
è parte integrante della finzione cinematografica e di ogni espressione
artistica.
sergio
magaldi
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