martedì 15 aprile 2014

IL PRIMO E L'ULTIMO LIBRO DI SARAMAGO

José Saramago, Lucernario, trad.it. di Rita Desti, UEF, Milano, Novembre 2013, pp.325




    Nel Novembre dello scorso anno, la Feltrinelli ha pubblicato nell’Universale Economica il libro che può a buon diritto considerarsi il primo e l’ultimo di José Saramago [1922-2010], premio Nobel per la letteratura.

 Nel 1953 lo scrittore inviò ad una casa editrice il manoscritto di CLARABÓIA [Lucernario] per proporne la stampa, senza ricevere in cambio alcuna risposta. Solo 41 anni più tardi [1994], gli giunse dalla stessa casa editrice la proposta di pubblicazione. Saramago dichiarò di non volerlo dare alle stampe, lui vivente, con la motivazione che ciò che aveva narrato in quel romanzo giovanile poteva ormai essere raccontato in altro modo. In realtà, la delusione provata allora [non aver ricevuto neppure una risposta qualsiasi dall’editore] ebbe la sua parte nella decisione dello scrittore, tant’è che dal silenzio della casa editrice passarono vent’anni prima che Saramago tornasse a scrivere un romanzo.

 Il libro esce dunque postumo, e il lettore avrà una sorpresa duplice. Da una parte, gli sembrerà che il romanzo non appartenga a Saramago, tanta è la diversità dello stile che caratterizza  la narrazione dello scrittore più maturo [Vedi in questo blog i post dedicati ad alcuni suoi romanzi, clicca sui titoli per leggere: Votare scheda bianca in democrazia è reato? del 3 Maggio 2012, L'impermanenza alla maniera di Saramago del 20 Luglio 2012 e La morte è una donna che non risponde alle lettere del 31 Luglio 2012]. Dall’altra, il medesimo lettore troverà nel racconto e nello stile narrativo un’incredibile contemporaneità. Insomma, se da una parte gli mancherà quella prosa complessa e originale che tra ironia, sarcasmo e riflessione, descrive uomini, donne e situazioni reali, proiettandole in una dimensione che sa di surreale distacco e quasi di trascendenza, dall’altra sarà gratificato da una prosa semplice e lineare che coglie i personaggi  nel loro ambiente quotidiano e alla luce di una immanenza che rende prevedibili i loro comportamenti. Senza che tutto ciò rappresenti una rottura di continuità tra il primo e il secondo Saramago, perché l’apparente fattualità narrativa dell’uno finirà con l’affluire nell’eloquente, lucida, ironica e talora paradossale espressione metafisica del secondo.



Lisbona, piazza del Rossio


  Il romanzo postumo prende il nome dal lucernario di un tetto che, illuminando le scale di un palazzo di un quartiere popolare di Lisbona, mette a nudo la vita degli inquilini che quelle scale scendono e salgono ogni giorno. L’ambiente squallido riflette quello della città lusitana alla fine degli anni Quaranta, quando Salazar e la spietata polizia politica [PIDE] controllano un Paese che, pur nella fortunosa mancata partecipazione alla seconda guerra mondiale, sconta con la miseria delle classi popolari, i privilegi della borghesia di regime.







  


















 Sei famiglie raccolte nell’edificio illuminato dal lucernario, ciascuna con una storia diversa, tutte accomunate dall’esigenza di sopravvivere in una dimensione in cui l’indigenza e l’incomprensione  amplificano il malessere fisico ed esistenziale. C’è Justina, una donna dalla “figura lunga e macilenta” che vive nel ricordo della piccola figlia morta, e suo marito Caetano “che aveva fama di essere un uomo rozzo, con quel corpaccione gonfio e i modi grossolani. Non aveva ancora quarant’anni e pareva più vecchio, con quel volto flaccido, gli occhi sporgenti e il labbro umido sempre penzolante. Nessuno capiva come e perché due esseri tanto diversi si fossero sposati. È pur vero che nessuno ricordava di averli mai visti insieme per la strada. E, altrettanto, nessuno comprendeva come da due esseri nient’affatto buoni (gli occhi di Justina erano belli e non buoni) fosse potuta nascere una figlia aggraziata quanto lo era la piccola Matilde. Si sarebbe detto che la Natura si era sbagliata e che, poi, scoprendo l’errore, lo aveva corretto facendo sparire la bambina.” [p.28].

   Ed ecco altre famiglie testimoniare, agli occhi del giovane Saramago, lo squallore del legame coniugale: Anselmo e Rosalía che vivono nella reciproca indifferenza, unicamente in funzione della loro figlia, la bella Claudinha. La quale, cercando una scorciatoia per togliersi dall’indigenza, farà tacere gli scrupoli morali e i tabù familiari, sull’esempio di un’altra inquilina dello stabile, Lídia, la mantenuta di un funzionario, vittima a sua volta di una madre cinica e poco affettuosa. E ci sono i coniugi Carmen ed Emilio, con il figlio Henriquinho, che si odiano apertamente e meditano reciprocamente la fuga per sottrarsi ad una convivenza divenuta insostenibile. Pure, in questa cruda rappresentazione del matrimonio, c’è la speranza rappresentata dal calzolaio-filosofo Silvestre e da sua moglie Mariana, una coppia che, nella consapevolezza degli strali del tempo, sembra aver trovato le ragioni di un’esistenza degna ancora di essere vissuta insieme: “Silvestre era tanto orgoglioso del proprio corpo quanto Mariana distaccata da ciò che la Natura le aveva dato. Nessuno dei due si faceva illusioni sull’altro e sapevano bene che il fuoco della gioventù era spento per sempre, ma si amavano teneramente, proprio come trent’anni prima, quando si erano sposati. Oggi il loro amore era forse più grande, perché non si nutriva più di perfezioni reali o immaginate.” [p.18].

 Nella sesta famiglia che occupa l’edificio, convivono quattro donne: le giovani sorelle Adriana e Isaura e le anziane  sorelle Cândida e Amelia, entrambe vedove, rispettivamente madre e zia delle due ragazze. Anche qui l’indigenza è di casa e l’unico passatempo è l’ascolto della musica sinfonica dalla radio. Tra le mura dell’abitazione è forse custodito un segreto che riguarda le più giovani e la zia Amelia cercherà di scoprirlo tradendo la fiducia e violando la vita privata delle nipoti.

 E infine nel caseggiato c’è Abel, l’irrequieto impiegato che ha preso in affitto una stanza nell’appartamento di Sivestre e Mariana. Ritratto autobiografico del giovane Saramago, Abel rappresenta l’incertezza e insieme la speranza dell’avvenire. Il suo dialogo costante con il calzolaio-filosofo ci fa partecipi dei sentimenti che agitavano l’animo dello scrittore, allora trentenne e futuro militante del Partito Comunista clandestino, nell’era di Salazar.

 “- Ascolti, Abel! Quando sentirà parlare dell’uomo, si ricordi degli uomini. L’Uomo con la  U maiuscola, come a volte leggo sui giornali, è una menzogna, una menzogna che serve a coprire tutte le bassezze. Tutti vogliono salvare l’Uomo, nessuno vuole saperne degli  uomini.
 Abel  si strinse nelle spalle, con un gesto di scoraggiamento. Riconosceva la verità delle ultime parole di Silvestre, tante volte lo aveva pensato anche lui, ma non aveva quella fede. Gli domandò:
-      E che possiamo fare, noi? Io? Lei?
-     Vivere tra gli uomini, aiutare gli uomini.
-      E lei che fa per questo?
-  Riparo loro le scarpe, giacché ora non posso fare nient’altro. Lei, Abel, è giovane, è intelligente, ha la testa sulle spalle… Apra gli occhi e veda, e se dopo non avrà ancora capito si chiuda in casa e non esca, finché il mondo le crollerà addosso!
 Silvestre aveva alzato la voce. Le labbra gli tremavano di una commozione a stento contenuta. I due uomini rimasero uno davanti all’altro, occhi negli occhi. C’era tra loro una corrente di comprensione, uno scambio silenzioso di pensieri più eloquenti di ogni parola. Abel mormorò con un sorriso forzato:
-   Dovrà ammettere che quello che sta dicendo è un tantino sovversivo…
Lei crede? Non mi pare. Se questo è sovversivo, tutto è sovversivo […]. Se gli uomini si odieranno, non si potrà fare nulla. Saremo tutti vittime degli odi. Ci uccideremo tutti nelle guerre che non desideriamo e di cui non siamo responsabili. Ci agiteranno davanti agli occhi una bandiera, ci riempiranno le orecchie di parole […]. È per questo che viviamo? Per fare figli e lanciarli nella fornace? Per costruire città e raderle al suolo? Per desderare la pace e avere la guerra?
E l’amore sarà la soluzione di tutto questo? – domandò Abel, sorridendo con una tristezza in cui c’era una punta di ironia.
-   Non lo so. È l’unica cosa che ancora non si è sperimentata…” [pp.320-321]

 Insomma, leggendo Lucernario, si ha come l’impressione che l’avventura letteraria e umana di José Saramago stia per ricominciare… 


sergio magaldi

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