José Saramago, Lucernario, trad.it. di Rita Desti, UEF, Milano, Novembre 2013, pp.325 |
Nel Novembre dello scorso anno, la Feltrinelli
ha pubblicato nell’Universale Economica il libro che può a buon diritto
considerarsi il primo e l’ultimo di José Saramago [1922-2010], premio Nobel per
la letteratura.
Nel 1953 lo scrittore inviò ad una casa
editrice il manoscritto di CLARABÓIA [Lucernario] per proporne la
stampa, senza ricevere in cambio alcuna risposta. Solo 41 anni più tardi
[1994], gli giunse dalla stessa casa editrice la proposta di pubblicazione.
Saramago dichiarò di non volerlo dare alle stampe, lui vivente, con la
motivazione che ciò che aveva narrato in quel romanzo giovanile poteva ormai
essere raccontato in altro modo. In realtà, la delusione provata allora [non
aver ricevuto neppure una risposta qualsiasi dall’editore] ebbe la sua parte
nella decisione dello scrittore, tant’è che dal silenzio della casa editrice
passarono vent’anni prima che Saramago tornasse a scrivere un romanzo.
Il libro esce dunque postumo, e il lettore
avrà una sorpresa duplice. Da una parte, gli sembrerà che il romanzo non
appartenga a Saramago, tanta è la diversità dello stile che caratterizza la narrazione dello scrittore più maturo
[Vedi in questo blog i post dedicati ad alcuni suoi romanzi, clicca sui titoli
per leggere: Votare scheda bianca in democrazia è reato? del 3 Maggio
2012, L'impermanenza alla maniera di Saramago del 20 Luglio 2012 e La morte è una donna che non risponde alle lettere del 31 Luglio 2012].
Dall’altra, il medesimo lettore troverà nel racconto e nello stile narrativo
un’incredibile contemporaneità. Insomma, se da una parte gli mancherà quella
prosa complessa e originale che tra ironia, sarcasmo e riflessione, descrive
uomini, donne e situazioni reali, proiettandole in una dimensione che sa di
surreale distacco e quasi di trascendenza, dall’altra sarà gratificato da una
prosa semplice e lineare che coglie i personaggi nel loro ambiente quotidiano e alla luce di
una immanenza che rende prevedibili i loro comportamenti. Senza che tutto ciò
rappresenti una rottura di continuità tra il primo e il secondo Saramago,
perché l’apparente fattualità narrativa dell’uno finirà con l’affluire
nell’eloquente, lucida, ironica e talora paradossale espressione metafisica del
secondo.
Lisbona, piazza del Rossio |
Sei famiglie raccolte nell’edificio illuminato dal lucernario, ciascuna con una storia diversa, tutte accomunate dall’esigenza di sopravvivere in una dimensione in cui l’indigenza e l’incomprensione amplificano il malessere fisico ed esistenziale. C’è Justina, una donna dalla “figura lunga e macilenta” che vive nel ricordo della piccola figlia morta, e suo marito Caetano “che aveva fama di essere un uomo rozzo, con quel corpaccione gonfio e i modi grossolani. Non aveva ancora quarant’anni e pareva più vecchio, con quel volto flaccido, gli occhi sporgenti e il labbro umido sempre penzolante. Nessuno capiva come e perché due esseri tanto diversi si fossero sposati. È pur vero che nessuno ricordava di averli mai visti insieme per la strada. E, altrettanto, nessuno comprendeva come da due esseri nient’affatto buoni (gli occhi di Justina erano belli e non buoni) fosse potuta nascere una figlia aggraziata quanto lo era la piccola Matilde. Si sarebbe detto che la Natura si era sbagliata e che, poi, scoprendo l’errore, lo aveva corretto facendo sparire la bambina.” [p.28].
Ed ecco altre famiglie testimoniare, agli
occhi del giovane Saramago, lo squallore del legame coniugale: Anselmo e
Rosalía che vivono nella reciproca indifferenza, unicamente in funzione della
loro figlia, la bella Claudinha. La quale, cercando una scorciatoia per
togliersi dall’indigenza, farà tacere gli scrupoli morali e i tabù familiari,
sull’esempio di un’altra inquilina dello stabile, Lídia, la mantenuta di un
funzionario, vittima a sua volta di una madre cinica e poco affettuosa. E ci
sono i coniugi Carmen ed Emilio, con il figlio Henriquinho, che si odiano
apertamente e meditano reciprocamente la fuga per sottrarsi ad una convivenza
divenuta insostenibile. Pure, in questa cruda rappresentazione del matrimonio,
c’è la speranza rappresentata dal calzolaio-filosofo Silvestre e da sua moglie
Mariana, una coppia che, nella consapevolezza degli strali del tempo, sembra
aver trovato le ragioni di un’esistenza degna ancora di essere vissuta insieme:
“Silvestre era tanto orgoglioso del proprio corpo quanto Mariana distaccata da
ciò che la Natura le aveva dato. Nessuno dei due si faceva illusioni sull’altro
e sapevano bene che il fuoco della gioventù era spento per sempre, ma si
amavano teneramente, proprio come trent’anni prima, quando si erano sposati.
Oggi il loro amore era forse più grande, perché non si nutriva più di
perfezioni reali o immaginate.” [p.18].
Nella sesta famiglia che occupa l’edificio,
convivono quattro donne: le giovani sorelle Adriana e Isaura e le anziane sorelle Cândida e Amelia, entrambe vedove,
rispettivamente madre e zia delle due ragazze. Anche qui l’indigenza è di casa
e l’unico passatempo è l’ascolto della musica sinfonica dalla radio. Tra le
mura dell’abitazione è forse custodito un segreto che riguarda le più giovani e
la zia Amelia cercherà di scoprirlo tradendo la fiducia e violando la vita
privata delle nipoti.
E infine nel caseggiato c’è Abel, l’irrequieto
impiegato che ha preso in affitto una stanza nell’appartamento di Sivestre e
Mariana. Ritratto autobiografico del giovane Saramago, Abel rappresenta
l’incertezza e insieme la speranza dell’avvenire. Il suo dialogo costante con
il calzolaio-filosofo ci fa partecipi dei sentimenti che agitavano l’animo
dello scrittore, allora trentenne e futuro militante del Partito Comunista
clandestino, nell’era di Salazar.
“-
Ascolti, Abel! Quando sentirà
parlare dell’uomo, si ricordi degli uomini. L’Uomo con la U maiuscola, come a volte leggo sui giornali,
è una menzogna, una menzogna che serve a coprire tutte le bassezze. Tutti
vogliono salvare l’Uomo, nessuno vuole saperne degli uomini.
Abel si
strinse nelle spalle, con un gesto di scoraggiamento. Riconosceva la verità
delle ultime parole di Silvestre, tante volte lo aveva pensato anche lui, ma
non aveva quella fede. Gli domandò:
- E che possiamo
fare, noi? Io? Lei?
- Vivere tra gli
uomini, aiutare gli uomini.
- E lei che fa
per questo?
- Riparo loro le
scarpe, giacché ora non posso fare nient’altro. Lei, Abel, è giovane, è
intelligente, ha la testa sulle spalle… Apra gli occhi e veda, e se dopo non
avrà ancora capito si chiuda in casa e non esca, finché il mondo le crollerà
addosso!
Silvestre aveva alzato la voce. Le labbra gli
tremavano di una commozione a stento contenuta. I due uomini rimasero uno
davanti all’altro, occhi negli occhi. C’era tra loro una corrente di
comprensione, uno scambio silenzioso di pensieri più eloquenti di ogni parola.
Abel mormorò con un sorriso forzato:
- Dovrà ammettere
che quello che sta dicendo è un tantino sovversivo…
- Lei crede? Non
mi pare. Se questo è sovversivo, tutto è sovversivo […]. Se gli uomini si
odieranno, non si potrà fare nulla. Saremo tutti vittime degli odi. Ci
uccideremo tutti nelle guerre che non desideriamo e di cui non siamo
responsabili. Ci agiteranno davanti agli occhi una bandiera, ci riempiranno le
orecchie di parole […]. È per questo che viviamo? Per fare figli e lanciarli
nella fornace? Per costruire città e raderle al suolo? Per desderare la pace e
avere la guerra?
- E l’amore sarà
la soluzione di tutto questo? – domandò Abel, sorridendo con una tristezza in
cui c’era una punta di ironia.
- Non lo
so. È l’unica cosa che ancora non si è sperimentata…” [pp.320-321]
Insomma,
leggendo Lucernario, si ha come l’impressione che l’avventura letteraria
e umana di José Saramago stia per ricominciare…
sergio
magaldi
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