Nel giorno della
memoria dell’Olocausto, ripropongo di seguito il libro Racconti della Shoà di Fulvio Giannetti. Presentato dal Rabbino
Capo della Comunità ebraica di Roma, dott. Riccardo Di Segni, illustrato da
Georges de Canino e introdotto dal sottoscritto, Racconti della Shoà raccoglie
preziose testimonianze di eventi personalmente vissuti dall’autore durante
l’infanzia o uditi narrare da chi vi prese parte. Di qui l’esigenza, nel
racconto più lungo, di ricordare immaginando di scrivere una Lettera ad Anna
Frank, la giovane ebrea che trascorse gli ultimi anni della sua breve vita
nei campi di sterminio di Auschwitz prima e di Bergen-Belsen poi. Completano la
raccolta: L’eccidio di Caiazzo, per la cui memoria Benedetto Croce fece
incidere una lapide con le sue parole; il ritratto di Lello Perugia,
combattente ebreo nelle formazioni partigiane "Liberty", noto come il
"Cesare" del romanzo La tregua di Primo Levi e del film
omonimo; e infine la storia di Giovanni Palatucci, ‘un giusto tra le nazioni’,
il cui nome – osserva Fulvio Giannetti – "è scritto nel libro di pietre
della memoria e della gratitudine d’Israele affinché tutti sappiano".
PRESENTAZIONE di Riccardo Di Segni
Fulvio Giannetti propone in questo libro una
raccolta dei suoi scritti, che hanno come tema comune le vicende drammatiche
della seconda guerra mondiale, che egli ha vissuto personalmente con occhi di
bambino nella terra dell’alta Ciociaria, in prossimità del fronte di
Montecassino.
Sono stati giorni e mesi terribili nei quali
gli uomini hanno mostrato il peggio di sé, ma anche il meglio. Momenti di
atrocità e di viltà, ma anche di umanità, di coraggio, di eroismo. Le stragi
compiute senza pietà dai soldati tedeschi, le reazioni delle popolazioni
colpite, l’eroismo dei singoli come il commissario Palatucci, le vicende umane
di Lello Perugia (il “Cesare” di Primo Levi ) vengono riproposte in queste
pagine in una ricostruzione semplice, non retorica e piena di sensibilità.
Qualcuno
dice che si parla troppo della seconda guerra mondiale e della shoà. In certi
casi c’è forse un abuso, una improprietà, o una caduta di gusto. Non è così per
le memorie di questo libro. Non è lecito tacere. Anzi, è un imperativo morale
preciso quello di testimoniare. Tra non molti anni la generazione, sempre più
sottile,dei sopravvissuti alla guerra e alla shoà sarà scomparsa. Di loro non
rimarrà che il ricordo lasciato nei racconti scritti, nei filmati e nelle registrazioni.
Inizierà allora un nuovo ciclo di conservazione della memoria con le sue
regole, ma per il momento il dovere è quello di raccogliere, salvare,
trasmettere. I disegni, che accompagnano i racconti sono di un artista, Georges
de Canino, nato dopo gli eventi bellici ma che ha scelto di rivivere la
tragedia immensa della Shoà con i
colori, i segni, e gli strumenti dell’arte, che trasmetterà emozioni e
riflessioni a coloro che vorranno conoscere e sapere.
A questo dovere risponde il nostro Fulvio Giannetti,
e gliene siamo grati, come dobbiamo essere riconoscenti a tutti coloro che
senza il timore di critiche continuano la meritoria opera di recupero.
INTRODUZIONE
di Sergio Magaldi
C’è in questi racconti di Fulvio Giannetti il
tentativo di saldare insieme memoria storica e ricordi personali, fatto e
creazione, testimonianza e sogno, lavoro ingrato che si riparte tra metastoria
e metaletteratura.
Non starò a verificare se l’operazione sia
riuscita e magari sia nato un genere nuovo, diverso persino dal racconto o dal
romanzo storico. Quel che mi preme sottolineare è che Giannetti, dalla materia
trattata, consapevolmente o meno, trae quattro motivi di riflessione, quattro
“ragioni” nuove e diverse di porsi di fronte alla Shoah e, più in generale, di
fronte alla vita.
Perché scrivere una
lettera ad Anna Frank? C’è forse nell’autore il desiderio di compiacere i
lettori? O è magari perché Anna “simboleggia i sei milioni di morti della
Shoah”? Così come Miep Gies nega che sia, per affermare invece che “la vita e
la morte di Anna sono un destino individuale”, anche se “accaduto sei milioni
di volte”. ( Nulla di tutto ciò. E
allora? La realtà è che Fulvio scrive oggi le pagine di un diario che Anna
scrisse allora, quando lui aveva una decina d’anni meno di lei, e non sapeva
ancora né leggere né scrivere, e che il Fulvio che ricorda quelle pagine non
scritte parla con la consapevolezza dell’uomo maturo, dell’uomo che può commuoversi della propria “infanzia
violata”, perché è almeno in grado di ricordarla. Dall’incontro del bambino di
allora con l’uomo di oggi nasce la lettera che ognuno potrebbe scrivere alla
propria compagna di giochi, trovandosi a vivere la medesima esperienza. La
guerra e soprattutto l’identità ebraica.
Un pretesto per
raccontare di sé? In un certo senso lo è, perché il bambino Fulvio non sa nulla
della Prinsengracht 263 di Amsterdam né dell’alloggio segreto, non conosce la
segregazione totale protratta per oltre due anni e bruscamente interrotta un
mattino dalla Gestapo, quasi alla vigilia della Liberazione, né fortunatamente conosce i treni dai
vagoni piombati e i tedeschi che li scortavano, non la fame, la sete e la
vergogna di Westerbork, di Auschwiz e di Bergen-Belsen – campo, quest’ultimo,
di cui pure ha sentito parlare dallo zio sopravvissuto – e l’uomo Fulvio
potrebbe parlarne ma sarebbe lavoro di biografo. Il bambino Fulvio conosce
invece la grotta-rifugio nella valle dell’Iri, dove apprende la morte del
padre, della segregazione non ha che fugace esperienza anche se subisce il
trauma del “sepolto vivo” e della fame conosce abbastanza da ricordarla, nel
suo diario della memoria, quasi come un’ossessione. Certo, i‘suoi’ tedeschi
sono diversi, non meno “orrendi”, ( ma
almeno egli li vede da spettatore. E se è vero che danno fuoco al volto di
Anita che chiede pane, quando ha con loro un incontro “ravvicinato”, ne riceve
in dono persino un’enorme fetta di torta!
Ecco allora il
senso dello scrivere una lettera ad Anna Frank che ogni bambino ebreo e non
ebreo – oggi adulto – potrebbe scrivere commisurando la propria infanzia
violata a quella dell’infelice Anna. Tante virtuali candeline accese per
illuminare le coscienze e aiutarle a riconoscere il demone della guerra,
dell’intolleranza, della violenza e delle persecuzioni.
Perché, se è vero – come scrive Anna Frank –
che in ogni uomo c’è un “pezzetto” di Dio, occorre fare in modo che quel
pezzetto s’impadronisca del “resto” dell’uomo e lo trasformi, altrimenti nulla
potrà davvero cambiare.
In La vita di Cady, uno dei racconti più
riusciti di Anna Frank e che non fa parte del Diario, nel colloquio tra Cady e una donna inferma, vicina di letto
nel sanatorio, si misurano due concezioni, entrambe presenti nell’anima di
Anna, reclusa nell’alloggio segreto. Da una parte la speranza, dall’altra un
pessimismo che trascende anche la sua personale sorte, di cui, pure, il suo
inconscio pare avvertito quasi con rassegnazione. Cady confida a se stessa che
Dio si manifesta nei suoi pensieri e nelle sue parole, giacché Egli “prima
d’inviare gli uomini nel mondo dà a ciascuno di essi un pezzetto di sé. È
questo pezzetto che produce nell’uomo la differenza tra bene e male e che
fornisce una risposta alle sue domande. Quel pezzetto è altrettanto naturale
quanto la crescita dei fiori e il canto degli uccelli”. ( ) Ma
la donna che giace nel letto accanto al suo è oscuramente profetica: “Io non
credo – ella dice – nulla delle voci che dicono che fra qualche mese tutto sarà
finito. Una guerra dura sempre più di quel che credono gli uomini”. (Anzi, conclude la donna, e Anna fa parlare
qui l’altra metà della sua anima, la guerra è la condizione stessa del genere
umano: “Dopo ogni guerra gli uomini dicono: ‘Questo non accadrà mai più, è
stato così terribile, bisogna evitare a qualsiasi prezzo che si ripeta’ e
sempre di nuovo gli uomini devono combattere gli uni contro gli altri, questo
non cambierà mai: finché sulla terra vi saranno degli uomini saranno sempre in
lotta e quando ci sarà la pace cercheranno nuovi pretesti per scontrarsi”. (
L’impunità degli assassini
Il racconto dell’eccidio di Caiazzo è emblematico per ciò
che riguarda la questione dell’impunità degli assassini. Il caso Emden sta lì a
testimoniare l’indifferenza, l’ignavia, la vigliaccheria e soprattutto le
complicità che impedirono, in questo come in migliaia di altri casi, che fosse
resa giustizia. Come pure, testimonia più spesso l’ipocrisia e la retorica di
certi riconoscimenti tardivi e di certe celebrazioni postume.
Io credo, tuttavia, che il problema non sia più, ormai a
distanza da quegli avvenimenti, chiedersi perché tanti assassini siano rimasti
impuniti, quanto piuttosto interrogarsi sul perché l’opinione pubblica ha
sempre ricevuto così scarsa informazione sul fenomeno dell’impunità dei
criminali nazisti. Non sarebbe venuto il momento di raccogliere in un volume
unico, tradotto in tutte le lingue, a disposizione delle scuole, delle
università e delle biblioteche pubbliche – libro bianco della memoria e della
vergogna – i “curricula” dei
criminali nazisti e dei loro giudici, catalogati magari in sequenza alfabetica?
Non certo per spirito di vendetta, quei fatti essendo ormai al di fuori delle
possibili “intercettazioni” della giustizia ordinaria o straordinaria, e
neppure per alimentare in qualche esaltato un privato desiderio di giustizia
sommaria nei confronti di vecchi inermi e prossimi ormai alla resa dei conti.
Per bisogno di sapere, giacché la
conoscenza fu sempre per l’uomo strumento di salvezza e non di perdizione. O si
crede davvero che fu la pietà a mitigare l’animo dei giudici o magari
l’insufficienza delle prove? E sebbene la pietà sia sentimento nobile e divino,
talora incomprensibile ad una coscienza altra e diversa da quella che l’assume,
resta nondimeno necessario il tentativo di darne spiegazione per evitare che
ciascuno operi a modo suo e finisca quasi legittimamente per pensare che il
Piazzale Loreto di Benito Mussolini e di Claretta Petacci sia un Tribunale
d’alta giustizia invece che l’ultimo anello della barbarie. Ed è vero – come
insegna purtroppo la storia italiana passata e recente – che gli atti della
giustizia sommaria, praticata anch’essa talora in nome e per conto del popolo
sovrano, nascondono spesso i disegni di chi teme che le oscure connivenze dei
vinti siano portate alla luce.
Sorprende invece,
almeno che non sia ascrivibile a suprema bontà o a tacita e impalpabile
“riconoscenza”, l’atteggiamento tenuto da Otto Frank, padre di Anna, nel corso
del processo contro Karl Joseph Silberbauer, il capo reparto delle SS che, quel
mattino del 4 Agosto del ’44, fece irruzione nell’alloggio segreto, causando la
deportazione degli otto ebrei clandestini, tra cui Anna. Tornato
tranquillamente a Vienna, sua città natale, nell’aprile del ’45, e in forza
alla polizia viennese, Silberbauer, fu successivamente trattenuto in carcere
per quattordici mesi con l’accusa di maltrattamenti compiuti durante un
interrogatorio. Rientrato in polizia nel 1954, Silberbauer restò indisturbato
sino all’Ottobre del 1963, anche perché mai denunciato da Otto Frank che
depistò sempre la possibilità di accertarne l’identità, parlando piuttosto di
un tale Silberthaler quale protagonista dell’irruzione in Prinsengracht 263.
Furono le ricerche di Simon Wiesenthal (
ad assicurare alla giustizia il poliziotto viennese. Sospeso dal servizio,
Silberbauer tornò tranquillamente al suo posto due anni più tardi, soprattutto
grazie alla testimonianza resa da Otto Frank che parlò di comportamento
corretto durante l’arresto.
Melissa Muller, in una recente biografia di Anna Frank, ha
così ricostruito il dialogo più importante che si svolse quel giorno tra Otto
Frank e Silberbauer:
“Di chi è quella cassa?”, chiede Silberbauer.
“È mia”, risponde Otto, dicendo la verità. In lettere ben
leggibili il coperchio con i rinforzi in ferro riporta la scritta: “Sottotenente
della riserva Otto Frank”.
“Durante la prima guerra mondiale ero ufficiale”.
“Ma…”, Karl Silberbauer è visibilmente a disagio. Quella
cassa non dovrebbe essere lì. Turba la sua routine. “Ma perché non si è
presentato?” Secondo la gerarchia militare Otto Frank è un suo superiore.
Frank, un ebreo.
“Sarebbe andato a Theresienstadt”, puntualizza, come se il
lager di Theresienstadt fosse una casa di cura per convalescenti.
Inquieto,
l’uomo delle SS si guarda intorno, evitando di incontrare lo sguardo di Otto
Frank, che se ne sta lì tranquillo”.
C’è
forse un altro aspetto, in questa vicenda, che meglio chiarisce l’atteggiamento
del padre di Anna Frank. momento di andarsene le consente addirittura di
restare nell’edificio. Sarà il gesto che consentirà a Miep Gies di raccogliere
e nascondere il Diario e gli altri
scritti di Anna.(9)
Gli interrogativi
“metafisici” del combattente Lello
Nel corso
della breve intervista che Lello Perugia, il “Cesare” di Primo Levi, concede a
Fulvio Giannetti emergono tre interrogativi inquietanti, ai quali, umilmente,
l’intervistato non pretende di dare risposta, parendo il suo intento più un
invito alla riflessione che un accertamento della verità.
“Perché i
nazisti volevano far scomparire gli ebrei dalla faccia della terra?”
In risposta
alla sua stessa domanda, Lello osserva che questa volontà fu davvero diabolica
e che, forse, l’intera questione è di natura metafisica, ciò che nelle sue
intenzioni equivale ad affermare l’impossibilità della risposta, anche se egli
si limita a dire che si tratta di una domanda alla quale è difficile
rispondere. E infatti, sull’argomento sono stati scritti trattati che hanno
dato solo spiegazioni parziali. Né potrebbe essere diversamente, le ragioni
ultime dimorando pur sempre nelle profondità dell’inconscio individuale e
collettivo, difficilmente accessibili all’indagine umana. Certo, la volontà del
genocidio non sembra prerogativa esclusiva dell’anima del nazista. Ma poi è
certo che i nazisti avessero un’anima? O non è piuttosto l’anima, d’après James Hillman, un “da farsi”,
una costruzione individuale che procede per tentativi, dubbi e tra mille
difficoltà? Ad ogni buon conto, la volontà del genocidio è stata sempre
presente nella storia e ha centrato talora l’obiettivo, laddove si è trattato
di distruggere o asservire altri popoli, per sostituirsi ad essi nel governo di
territori e quando questi popoli non seppero far valere – avrebbe detto Hegel –
la necessità storica e culturale del loro stesso sussistere o, ciò che è lo
stesso, quando non rientravano più nei piani della cosiddetta Ragione storica.
Insomma, la storia ci mostra esempi molteplici di massacri e distruzioni di
massa, ma neppure un caso assimilabile alla “soluzione finale” progettata dai
nazisti contro gli ebrei, che sono popolo solo agli occhi di Dio, ma che, per
tutto il resto, seppero e sanno perfettamente integrarsi con tutti gli altri
cittadini nei paesi d’appartenenza. A meno che non si affermi che la moderna
idea di genocidio consista proprio nella volontà di cancellare dalla storia i
propri nemici finanziari, coloro che controllano e dirigono i grandi capitali.
Ma anche in tal caso il progetto nazista avrebbe il crisma dell’originalità e
dell’unicità. Solo che questa folle idea non ha trovato mai effettivo riscontro
nella realtà, perché gli ebrei tedeschi ricchi non erano parte di un ipotetico
Capitalismo Ebraico Internazionale, si sentivano bensì parte integrante del
popolo tedesco e della finanza tedesca. E questo vale per gli ebrei ricchi di
ogni altro paese. Che dire poi dello slogan tanto diffuso anche nell’Italia di
quegli anni, e cioè che “gli ebrei sono capitalisti, ma sono anche comunisti”?
Ha ragione
Lello. Possiamo continuare ad esaminare la questione all’infinito, ma è
difficile rispondere esaurientemente e in modo conclusivo.
“Perché Kappler
chiese alla comunità ebraica di Roma proprio
cinquanta chili d’oro?”
Ecco un secondo
interrogativo che Lello definisce metafisico. Lui che si è sempre considerato
un laico, butta lì improvvisamente una questione che potrebbe essere affrontata
solo in una prospettiva religiosa o magari nell’ambito della tradizione
ebraico-cabbalistica. Egli non si sente in grado di dare una risposta, ma
lascia intendere che dietro quel numero, cinquanta,
può nascondersi un significato preciso e magari un mistero sui quali altri e
non lui sono forse in grado indagare. Egli non sa molto di ghematrie, ma ha
sentito parlare dei numeri della tradizione, sa che cinquanta sono le Porte
dell’intelligenza (Binah, la terza
sephirah dell’albero della vita) e che 50 è anche la cifra dell’intera manifestazione (Kol, tutto, formato dalle lettere ebraiche Kaph e Lamed, cioè: [20+30=50] ( e
di Adamah, la terra di Adamo [Aleph,
Daleth, Mem, He: 1+4+40+5= 50]. Non sa o non dice che 50 è anche la cifra di Yam, mare [ Yud, Mem: 10+40=50], simbolo dei segreti
dell’inconscio, e di Mi, chi? [Mem,
Yud: 40+10=50], la possibilità stessa di effettuare domande. Non dice o non sa
che, al negativo, 50 è anche la cifra di Tame,
impuro [Thet, Mem, Aleph: 9+40+1=50] e di Gezabel [Aleph, Yud, Zain, Beth, Lamed: 1+10+7+2+30=50], la regina malvagia, adoratrice di
Baal e della dea Asera, che sterminò i profeti di Dio, ma 100 di loro furono
soccorsi e nascosti in due grotte, 50 e 50, e si salvarono (I Re, 18, 13). E Gezabel finì sbranata
dai cani.
“Perché ci siamo
lasciati massacrare senza combattere?”
Lello considera
metafisico anche questo interrogativo. Solo perché ai suoi occhi appare
inconcepibile essersi lasciati massacrare in sei milioni e senza neppure
opporre resistenza. Lui che, prima di essere deportato ad Auschwitz, i tedeschi
li ha davvero combattuti. Lui che sembra far proprie le parole di sua madre
Emma, che volentieri avrebbe destinato i 50 chili d’oro, da consegnare a
Kappler in cambio di una improbabile salvezza, all’acquisto di armi per
combattere. E anche laddove la ribellione gli appare inutile o impossibile, per
la condizione disumana alla quale i nazisti li hanno ridotti nei campi di
sterminio, non trattiene un moto spontaneo dell’anima nell’attribuire alla
rivolta di Auschwitz del 6 Ottobre del ’44 – che portò alla distruzione di uno
dei forni crematori – il merito di aver rallentato le esecuzioni con il gas.
I giusti tra le
nazioni
Dalla cronaca delle
vicende di Giovanni Palatucci, Fulvio Giannetti trae spunto per invitarci ad
una riflessione sul significato del Noachismo. Non tanto per esaltare il
primato etico di una fede condivisibile da parte di tutte le religioni, o per discutere se si tratti di una
fede soltanto rudimentale dettata da Noè all’epoca del diluvio universale o
magari di una sorta di religione ebraica minore, dagli ebrei elargita
generosamente a tutti i non ebrei.
Non di questo si tratta o non solo di questo.
Nei sei precetti negativi (divieti di bestemmia e idolatria, divieti di natura
sessuale, divieti di disporre della vita e della proprietà altrui, divieto di
crudeltà nei confronti degli animali) e nell’unico precetto positivo
(istituzione dei tribunali di giustizia), di cui si compone il biblico patto noachide, si intravedono,
infatti, i principi del moderno giusnaturalismo, fondamento del liberalismo e
della democrazia.
Dal De jure belli ac pacis di Grozio del
1625, al Contratto sociale di Jean
Jacques Rousseau del 1762, passando attraverso autori come Cartesio, Locke,
Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Hume, tanto per citare i maggiori, nella cultura
occidentale è tutto un fiorire di scritti che per la prima volta rompono col
Diritto canonico, basato
sull’identificazione della legge naturale con la legge divina, dalla quale
discende che se Dio non c’è, non c’è neppure una natura umana creata su cui il
diritto naturale si possa fondare.(
È Grozio a rompere
per primo l’incantesimo, il diritto naturale ha per lui ragion d’essere “anche
se si ammettesse ciò che non si può ammettere senza delitto: che Dio non c’è o
che non si cura degli affari umani”, come scrive nel Prologo (Prg.11) del De Jure.
Il diritto naturale
ha il suo fondamento nella ragione e la ragione trova a sua volta
giustificazione nell’ordine naturale del tutto, nella Legge cosmica che governa
l’universo, secondo la concezione antica degli Stoici, ripresa dall’ebreo
Spinoza:
“Ciascuno esiste
per supremo diritto di natura, e quindi ciascuno per supremo diritto di natura
fa ciò che segue dalla necessità della sua natura; e perciò per supremo diritto
di natura ciascuno giudica quale cosa sia buona, quale cattiva, e provvede alla
sua utilità a suo talento e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e
di distruggere ciò che ha in odio. Or se gli uomini vivessero sotto la guida
della ragione, ciascuno possederebbe questo suo diritto senz’alcun danno per
gli altri.” (
E quando più tardi
il diritto naturale finisce col perdere il carattere di razionalità geometrica
e necessaria, resta nondimeno principio indiscutibile della convivenza umana,
tecnica almeno ragionevole di
coesistenza pacifica.
Se si prescinde dal loro fondamento
mitopoietico e teologico, e si guarda unicamente alla loro sostanza, ci si
accorge che i precetti noachidi, contenuti nel Talmud, sono innanzi tutto norme
di diritto naturale condivisibili da tutte le fedi religiose semplicemente
perché non hanno in se stesse nulla di religioso e persino quel riferirsi al
divieto di bestemmia e di idolatria, lungi dal rappresentare una qualche forma
di “costrizione” teologica esprime piuttosto il principio della tolleranza
religiosa e l’invito alla ragione umana di non abbassarsi ad adorare feticci.
Proprio come i principi del diritto naturale,
i sette principi noachidi si caratterizzano, per così dire, per la loro
elasticità e quindi per la loro capacità di evolversi e al tempo stesso restare
immutabili, come già ricordava l’ebreo Benamozeg al cattolico e discepolo
Pallière.
Così, per esempio, dal divieto di uccidere
discende il precetto positivo di salvare una, cento, mille vite, come fecero
Palatucci e gli altri, a buon diritto
chiamati giusti tra le nazioni.
ANNA FRANK IL 04-08-1944 alle ore 10
sergio magaldi