martedì 24 marzo 2015

SUITE FRANCESE ovvero l'amore tra nemici

Suite Française, regia di Saul Dibb, Gran Bretagna, Francia, Canadà, 2015, 107 minuti



 Il successo di pubblico che sta accompagnando l’uscita di Suite Française, in Italia e in Europa, non trova riscontro nell’accoglienza riservata al film dalla critica e se ne comprende il motivo.

 Il regista inglese Saul Dibb, coadiuvato nella sceneggiatura da Matt Charman, trasferisce sullo schermo il romanzo incompiuto di Irène Némirovsky, ebrea ucraina, trapiantata a Parigi e morta a Auschwitz nel 1942. Il manoscritto, ritrovato da Denise, una delle figlie della scrittrice, fu pubblicato in 38 lingue con gran successo una diecina di anni fa. Nelle intenzioni della Némirovsky, Suite Française nasceva come una grande sinfonia composta di cinque movimenti, a cominciare dal primo, molto mosso, dal titolo “Tempesta di Giugno”, che raccontava l’esodo dei francesi da Parigi occupata dai nazisti, per continuare con il secondo, andante dolce, e con gli altri tre intitolati rispettivamente “Prigionia”, “Battaglie” e “La Pace”, sui quali Irène Némirovsky fece appena in tempo a tracciare qualche appunto prima di essere deportata dai nazisti.

 I primi due capitoli del suo incompiuto “romanzo sinfonico”, Irène Némirovsky li scrive ritirandosi in provincia, dopo l’occupazione nazista di Parigi. Vive con il marito, e le figlie Denise ed Elisabeth, in un albergo di Issy-l’Evêque, dove sono acquartierati gli ufficiali della Wehrmacht. Poi affitterà una casa propria, ma avrà l’obbligo di ospitare i soldati tedeschi. L’eco di questa  pericolosa “convivenza” si avvertirà nel libro e, naturalmente, nel film di Saul Dibb, ancorché la sua esistenza trascorra relativamente tranquilla sino ai primi di Giugno del 1941, quando una nuova legge del regime collaborazionista della Francia di Pétain, obbliga lei e suo marito a portare la stella gialla degli ebrei, nonostante l’esibizione alle autorità di cerificati di battesimo perfettamente in regola. Già l’undici Luglio, la scrittrice sembra intuire la sorte che l’attende. Scrive: 

“[…]in mezzo a un oceano di foglie morte, bagnate dalla tempesta della notte precedente, come se stessi seduta su una zattera con le gambe incrociate[…]Sto scrivendo molto, immagino che saranno opere postume, però almeno mi fanno passare il tempo”.

 Fatalmente profetica, sarà arrestata solo due giorni più tardi. Inutilmente suo marito, Michel Epstein, che fa l’interprete per i soldati tedeschi, cercherà di salvarla. Non servirà, né una lettera firmata dai sottufficiali nazisti ospitati in casa:

 “Camerati! Abbiamo vissuto per qualche tempo con la famiglia Epstein e abbiamo avuto modo di conoscerla come una famiglia assai premurosa. Vi preghiamo pertanto di riservarle un trattamento adeguato. Heil Hitler!”

e neppure il ripudio dell’origine ebraica sua e della moglie:

 “(Irène) è una donna che, pur essendo di origine ebraica, non ha – come dimostrano tutti i suoi libri – alcuna simpatia né per il giudaismo né per il regime bolscevico... mia moglie è diventata una rinomata scrittrice. In nessuno dei suoi libri (che del resto non sono stati messi al bando dalle autorità d’occupazione) troverà una parola contro la Germania, e benché sia di razza ebraica mia moglie scrive degli ebrei senza alcuna simpatia. I nonni di mia moglie, così come i miei, erano di religione israelita; i nostri genitori non professavano alcuna religione; quanto a noi, siamo cattolici come le nostre bambine, che sono nate a Parigi e sono francesi”.

 A nulla varranno tutti gli sforzi di Michel, il ripudio e le buone maniere. Deportata ad Auschwitz il 17 Luglio del 1942, Irène sopravviverà per un solo mese. Più tardi, la stessa sorte toccherà a suo marito.

 Nelle intenzioni della Némirovsky, c’era inizialmente forse un altro auspicio per la propria sorte personale, almeno a giudicare dalle mille pagine che si proponeva di scrivere per un libro che doveva concludersi con la pace e che – come dichiara la scrittrice – :

 in sé deve dare l'impressione di essere semplicemente un episodio... com'è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque... ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico... collegamenti delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so. L'importante – i rapporti fra le diverse parti dell'opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall'altra dell'armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile.







 Il punto è proprio questo. Il film che ha un certo ritmo all’inizio e nel finale, ne è del tutto privo nella parte centrale, nonostante la grande interpretazione dei suoi protagonisti che vivono sotto lo stesso tetto, nel paese di Bussy, presso Parigi: la giovane e bella Lucille Angellier [Michelle Williams], moglie di Gaston, un ricco possidente, ora al fronte, che ha sposato più per volontà del padre che per amore, sua suocera [Kristin Scott-Thomas], una donna autoritaria e addirittura implacabile con i suoi mezzadri ma che, al momento opportuno, saprà rischiare la vita per aiutare la resistenza francese e salvare una piccola ebrea, e l’ufficiale tedesco Bruno Von Frank [Matthias Schoenaerts] che il comando tedesco sistema temporaneamente nella splendida dimora degli Angellier. Un nazista speciale e discreto che ama la musica e che per amore pare disposto a ingannare non tanto Hitler, quanto almeno i suoi intermediari.

 Il fatto è che Saul Dibb, più che collegare tra loro le parti di una vicenda storica – come auspicava la scrittrice, quasi profetizzando lo sbocco cinematografico del suo romanzo – si propone il racconto di un amore impossibile, per di più non nuovo né originale, trattandosi di un sentimento sbocciato tra un uomo e una donna che la società e gli eventi rendono nemici implacabili: Lucile e Bruno, uniti dall’amore per la musica, da nozze poco felici per entrambi e dal desiderio di bellezza e di felicità, divisi irrimediabilmente dalla guerra che la barbarie nazista ha portato in Europa, programmando lo sterminio del popolo ebraico. Insomma, il regista si è ispirato solo al movimento in andante dolce, con qualche accenno al primo movimento molto mosso [“Tempesta di Giugno”], con il risultato di raccontare l’ennesima storia d’amore nel bel mezzo della guerra, confezionando a parere di alcuni addetti ai lavori, una sorta di soap opera dove tutto diventa prevedibile e scontato e in ogni caso, soprattutto a giudizio della critica francese, non riuscendo a cogliere lo spirito del romanzo, impresa peraltro sempre ardua quando si tratta di portare un libro sullo schermo.

 Si comprende invece il favore accordato dal pubblico, condotto volentieri a rinfrescare una memoria storica, ancora fortunatamente presente nella coscienza collettiva, senza badare agli stereotipi di cui il film è intessuto. Anche se la vicenda amorosa stempera agli occhi dello spettatore l’immane tragedia abbattutasi nell’Europa del secolo scorso e rischia di essere un alibi sull’ineluttabilità della guerra e sulle sue miserie, come negli episodi che il film racconta di cittadini francesi che, per vendetta personale, denunciano ai nazisti i loro concittadini. Insomma una sorta di “romanzo” popolare con tanto di amore romantico sublimato dallo spartito di Suite Francese, una musica composta dal tenente tedesco e donata “per sempre” alla donna di cui è innamorato.

 Certo, un film che nel complesso si lascia vedere e che forse ha la sua nota più bella e originale nel tratteggiare la figura di Lucile: una donna fragile e in apparenza arrendevole, capace ancora di innamorarsi e di credere che il suo amore giustifichi l’isolamento dal mondo cui appartiene, ma poi risoluta, pur continuando ad amare il suo ufficiale, nel comprendere qual è il suo ruolo in mezzo agli altri che lottano per la libertà.


sergio magaldi

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