Suite Française, regia di Saul Dibb, Gran Bretagna, Francia, Canadà, 2015, 107 minuti |
Il
successo di pubblico che sta accompagnando l’uscita di Suite Française,
in Italia e in Europa, non trova riscontro nell’accoglienza riservata al film
dalla critica e se ne comprende il motivo.
Il regista inglese Saul Dibb, coadiuvato nella
sceneggiatura da Matt Charman, trasferisce sullo schermo il romanzo incompiuto
di Irène Némirovsky, ebrea ucraina, trapiantata a Parigi e morta a Auschwitz
nel 1942. Il manoscritto, ritrovato da Denise, una delle figlie della
scrittrice, fu pubblicato in 38 lingue con gran successo una diecina di anni
fa. Nelle intenzioni della Némirovsky, Suite Française nasceva come una
grande sinfonia composta di cinque movimenti, a cominciare dal primo, molto
mosso, dal titolo “Tempesta di Giugno”, che raccontava l’esodo dei francesi
da Parigi occupata dai nazisti, per continuare con il secondo, andante dolce,
e con gli altri tre intitolati rispettivamente “Prigionia”, “Battaglie” e “La
Pace”, sui quali Irène Némirovsky fece appena in tempo a tracciare qualche
appunto prima di essere deportata dai nazisti.
I primi due
capitoli del suo incompiuto “romanzo sinfonico”, Irène Némirovsky li scrive
ritirandosi in provincia, dopo l’occupazione nazista di Parigi. Vive con il
marito, e le figlie Denise ed Elisabeth, in un albergo di Issy-l’Evêque, dove
sono acquartierati gli ufficiali della Wehrmacht. Poi affitterà una casa
propria, ma avrà l’obbligo di ospitare i soldati tedeschi. L’eco di questa pericolosa “convivenza” si avvertirà nel
libro e, naturalmente, nel film di Saul Dibb, ancorché la sua esistenza
trascorra relativamente tranquilla sino ai primi di Giugno del 1941, quando una
nuova legge del regime collaborazionista della Francia di Pétain, obbliga lei e
suo marito a portare la stella gialla degli ebrei, nonostante l’esibizione alle
autorità di cerificati di battesimo perfettamente in regola. Già l’undici
Luglio, la scrittrice sembra intuire la sorte che l’attende. Scrive:
“[…]in mezzo a un oceano di foglie morte,
bagnate dalla tempesta della notte precedente, come se stessi seduta su una
zattera con le gambe incrociate[…]Sto scrivendo molto, immagino che saranno
opere postume, però almeno mi fanno passare il tempo”.
Fatalmente
profetica, sarà arrestata solo due giorni più tardi. Inutilmente suo marito,
Michel Epstein, che fa l’interprete per i soldati tedeschi, cercherà di
salvarla. Non servirà, né una lettera firmata dai sottufficiali nazisti
ospitati in casa:
“Camerati!
Abbiamo vissuto per qualche tempo con la famiglia Epstein e abbiamo avuto modo
di conoscerla come una famiglia assai premurosa. Vi preghiamo pertanto di
riservarle un trattamento adeguato. Heil Hitler!”
e neppure il
ripudio dell’origine ebraica sua e della moglie:
“(Irène)
è una donna che, pur essendo di origine ebraica, non ha – come dimostrano tutti
i suoi libri – alcuna simpatia né per il giudaismo né per il regime bolscevico... mia moglie è diventata una
rinomata scrittrice. In nessuno dei suoi libri (che del resto non sono stati
messi al bando dalle autorità d’occupazione) troverà una parola contro la
Germania, e benché sia di razza ebraica mia moglie scrive degli ebrei senza
alcuna simpatia. I nonni di mia moglie, così come i miei, erano di religione
israelita; i nostri genitori non professavano alcuna religione; quanto a noi,
siamo cattolici come le nostre bambine, che sono nate a Parigi e sono
francesi”.
A nulla varranno
tutti gli sforzi di Michel, il ripudio e le buone maniere. Deportata ad
Auschwitz il 17 Luglio del 1942, Irène sopravviverà per un solo mese. Più
tardi, la stessa sorte toccherà a suo marito.
Nelle intenzioni della Némirovsky, c’era
inizialmente forse un altro auspicio per la propria sorte personale, almeno a
giudicare dalle mille pagine che si proponeva di scrivere per un libro che
doveva concludersi con la pace e che – come dichiara la scrittrice – :
“in sé
deve dare l'impressione di essere semplicemente un episodio... com'è in realtà
la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque... ma dovrei
dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico... collegamenti
delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa
di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so. L'importante
– i rapporti fra le diverse parti dell'opera. Se conoscessi meglio la musica,
credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al
cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e
dall'altra dell'armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno
stile.”
Il fatto è che Saul Dibb, più che collegare
tra loro le parti di una vicenda storica – come auspicava la scrittrice, quasi
profetizzando lo sbocco cinematografico del suo romanzo – si propone il
racconto di un amore impossibile, per di più non nuovo né originale,
trattandosi di un sentimento sbocciato tra un uomo e una donna che la società e
gli eventi rendono nemici implacabili: Lucile e Bruno, uniti dall’amore per la
musica, da nozze poco felici per entrambi e dal desiderio di bellezza e di
felicità, divisi irrimediabilmente dalla guerra che la barbarie nazista ha
portato in Europa, programmando lo sterminio del popolo ebraico. Insomma, il
regista si è ispirato solo al movimento in andante dolce, con qualche
accenno al primo movimento molto mosso [“Tempesta di Giugno”], con il
risultato di raccontare l’ennesima storia d’amore nel bel mezzo della guerra,
confezionando a parere di alcuni addetti ai lavori, una sorta di soap opera
dove tutto diventa prevedibile e scontato e in ogni caso, soprattutto a
giudizio della critica francese, non riuscendo a cogliere lo spirito del
romanzo, impresa peraltro sempre ardua quando si tratta di portare un libro
sullo schermo.
Si comprende invece il favore accordato dal
pubblico, condotto volentieri a rinfrescare una memoria storica, ancora
fortunatamente presente nella coscienza collettiva, senza badare agli
stereotipi di cui il film è intessuto. Anche se la vicenda amorosa stempera
agli occhi dello spettatore l’immane tragedia abbattutasi nell’Europa del
secolo scorso e rischia di essere un alibi sull’ineluttabilità della guerra e
sulle sue miserie, come negli episodi che il film racconta di cittadini
francesi che, per vendetta personale, denunciano ai nazisti i loro
concittadini. Insomma una sorta di “romanzo” popolare con tanto di amore
romantico sublimato dallo spartito di Suite Francese, una musica
composta dal tenente tedesco e donata “per sempre” alla donna di cui è
innamorato.
Certo, un film che nel complesso si lascia
vedere e che forse ha la sua nota più bella e originale nel tratteggiare la
figura di Lucile: una donna fragile e in apparenza arrendevole, capace ancora
di innamorarsi e di credere che il suo amore giustifichi l’isolamento dal mondo
cui appartiene, ma poi risoluta, pur continuando ad amare il suo ufficiale, nel
comprendere qual è il suo ruolo in mezzo agli altri che lottano per la libertà.
sergio
magaldi
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