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L'intreccio tra pensiero
sapienziale, di cui la Massoneria è gelosa custode, e pensiero teologico,
proprio di ogni religione, è quasi inesistente in Qoelet, problematico
in Giobbe, si fa invece serrato in Sapienza e in tutti gli altri
trattati della letteratura sapienziale vetero-testamentaria. Emerge, tuttavia,
un'osservazione fondamentale. Per quanto nei Proverbi, lo
pseudo-Salomone affermi che la sapienza si fondi sul timore di Dio, i detti, i
consigli, le sentenze ricche di saggezza e di umana esperienza contenuti nel
libro sono norma a se stessi e il loro valore prescinde dal riferimento ad ogni
trascendenza perché si iscrivono innanzi tutto nel libro della vita e
prospettano per chiunque voglia appropriarsene un ideale di crescita, un
progressivo distacco dalle passioni e dai pregiudizi, una iniziazione dello
spirito nel crescente dominio di se stessi.
Le massime morali contenute in Sapienza, nei Proverbi, in Siracide o nei Salmi prima di essere norme dettate dal timor di Dio, sono regole sapienziali e sono altresì testimonianza di una tradizione giunta ininterrotta e vivente sino a noi. Sono massime di rispetto o di pietà familiare come: "Lo stolto deride le correzioni del padre, ma chi fa tesoro delle correzioni diventerà più saggio"(Proverbi, XV,5), "Figlio, assisti la vecchiaia di tuo padre e non lo contristare nella sua vita; ed anche se diverrà debole di mente, compatiscilo, non lo disprezzare nella tua vigoria..."(Siracide, III, 14-15). Sono ammonimenti contro l'ira, nella tradizione ebraica la più funesta tra le passioni, insieme alla lussuria: "E' onorevole per l'uomo stare lontano dalle contese, ma tutti gli stolti si immischiano nei litigi"(Proverbi, XX,3) oppure: "Grave è la pietra, pesante la sabbia, ma più pesante dell'una e dell'altra è l'ira dello stolto"(XXVII,3). Sono regole di prudenza e di saggezza:"Come una città aperta e senza mura è l'uomo che non sa frenare il suo spirito nel parlare"(XXV, 28), "Quanto più sei grande, tanto più umiliati in tutte le cose" (Siracide,III,2O), "Non cercare quello che è al di sopra di te, e quello che è al di sopra delle tue forze non lo indagare"(III,22) "Come acque profonde sono i disegni nel cuore dell'uomo e solo all'uomo sapiente è dato trarli a galla"(Proverbi XX, 5-6)
Massime tutte queste per orientare il cammino del giusto, lo zaddiq cui la tradizione ebraica assegna un ruolo fondamentale. Noè – scrive Dante Lattes – è il primo tipo dello zaddiq, del giusto che passa incontaminato fra le tristizie dei contemporanei. La figura dell’uomo giusto, che assumerà poi tanto significato etico e una così vasta funzione redentrice nell’ideologia ebraica, dalla Bibbia al Chassidismo, ha in Noè il suo primo modello (…) Noè è l’uomo; l’uomo senza alcun altro aggettivo; non misurato secondo criteri di razza, di lingua, di nazionalità, di religione (…) e quindi posto ad esempio alle generazioni, per quanto remote e diverse dal suo tempo, o, se si vuole, in modo relativo, secondo il grado di perversione del suo secolo. (Nel solco della Bibbia, Laterza, Bari, 1953, p.39).
Noè è dunque ‘l’uomo giusto e integro tra i suoi
contemporanei e che camminava con Dio’ com’è detto in Genesi, 6,9. Noè
salvato dal diluvio perché ‘speranza del mondo’ come lo definisce il libro
della Sapienza (14,16) e perché fosse il prototipo di una umanità nuova
in sostituzione della precedente che si era macchiata di ogni violenza.
Violenza contro Dio e soprattutto violenza degli uomini tra di loro che la
tradizione ebraica considera ancora più grave dell’altra giacché le colpe
commesse dall’uomo contro Dio possono essere rimesse nel giorno di Kippur,
mentre le colpe dell’uomo contro l’uomo possono essere rimosse solo mediante il
perdono da parte dell’offeso.
Com’è noto, Dio stringe un patto con Noè, lo
benedice insieme ai suoi figli e dà loro alcuni precetti (i cosiddetti precetti
noàchidi) con valore universale, rivolti cioè non solo agli Ebrei, in quanto
già compresi nelle 613 Mitzvoth, ma ai giusti di tutte le nazioni. Il precetti
noàchidi sono 7 di cui 1 positivo (Obbligo della giustizia e dell’istituzione
di giudici e tribunali) e 6 negativi (Divieto di idolatria, bestemmia,
relazioni sessuali illecite, omicidio, furto e di cibarsi di animali vivi).
Più ancora che nei libri sapienziali del Vecchio
Testamento, è nel Pirqè Avòt - "Insegnamenti dei padri"
che il pensiero sapienziale degli Ebrei si identifica strettamente con il
pensiero religioso. Pirqè Avòt raccoglie in sei capitoli le riflessioni
di autori vissuti tra il V secolo av. C. e il II secolo d. C. e si può a buon
diritto considerarlo un trattato sapienziale di morale ebraica o, ciò che è lo
stesso, di morale religiosa. Osserva in proposito Yoseph Colombo:
"E' morale religiosa, come religiose per eccellenza sono tutte le manifestazioni culturali, politiche, spirituali del popolo ebraico. Non bisogna dimenticare che il popolo ebraico è e si ritiene in possesso, fin dai suoi primordi, dell'idea monoteistica e che la tradizione ebraica ritiene di essere venuta in contatto con tale idea per rivelazione divina. Ora, un popolo che ha come cardini del proprio pensiero questi elementi, Dio e rivelazione, è un popolo che, qualunque cosa faccia, dovunque vada, qualunque destino gli sia assegnato, porterà sempre con sé per informarne ogni sua azione un carattere eminentemente religioso. Per cui, pur ammettendo (...) che ci sia stata una speculazione ebraica, anch'essa sarà stata di carattere religioso. Non già che la dottrina morale che può essere rintracciata in questi Pirqè Avòt sia religiosa nel senso che sia eteronoma; essa sostiene non tanto la provenienza divina della legge morale, quanto il carattere divino della legge morale; è religiosa perché è ebraica, e gli Ebrei, anche quando sentono ed esprimono l'autonomia del principio morale e l'universalità ed assolutezza della legge del dovere, questa esprimono in termini religiosi, inserendo la loro concezione morale nella più vasta visione religiosa del mondo e della vita." (Pirque Aboth, Morale di maestri ebrei, trad.it., introd. e commento di Y.Colombo, Carucci, Roma, 1986, pp.XVII-XVIII)
Sorprende allora, pur nell'annunciata identificazione
di pensiero sapienziale e di pensiero religioso, trovare in questa sorta di
rassegna del pensiero rabbinico attraverso i secoli, accenti di una laicità
sconcertante dove, per esempio, gli elementi della trascendenza divina e della
sopravvivenza dell'anima dopo la morte sembrano volutamente accantonati e dove
in luogo del consueto encomio dell'ignoranza, così caro alla maggior parte
delle religioni positive, perché disporrebbe alla purezza di spirito, troviamo
l'invito allo studio e alla frequentazione dei dotti:
"Sia la tua casa - scrive il rabbi Jòçé figlio
di Jo'èzér di Zeredà - un luogo di convegno per i dotti; impòlverati della
polvere dei loro piedi; e bevi con sete le loro parole" (I,4) e il rabbi
Hillel ammonisce:
"Chi cerca fama, perde quel po' che ne ha; ma
chi non accresce il proprio sapere, finisce col non saper più nulla; ché se poi
uno non ha mai studiato, allora è degno di morte" (I,13) e altrove: "
...non dire che studierai quando ne avrai la possibilità, perché potresti non
averla... l'uomo rozzo non si cura del peccato e l'ignorante non può essere
pio..." (II, 5-6)
Lo studio, dunque, e i maestri, ma anche il giusto
atteggiamento perché, come avverte anonimo il V Capitolo del Pirqè Avòt,
"...quattro tipi di persone stanno davanti ai Maestri: v'è la spugna,
l'imbuto, il colatoio, lo staccio. La spugna assorbe tutto, l'imbuto da una
parte si riempie e dall'altra tutto si svuota, il colatoio fa passare il vino
trattenendo le feccie, lo staccio fa passare la farina trattenendo la semola."
(V,16)
D'altra parte, per appropriarsi veramente della Torah,
della Legge, occorrono all'ebreo 48 requisiti (VI, 5) di cui, circa la metà
riguardano lo studio e l'altra metà vanno divisi tra la comprensione del cuore,
l'umiltà, il buon carattere, il rispetto dei maestri, l'amore della giustizia e
di tutte le creature, l'osservanza della vita sobria. Il primo dei 48 requisiti
è naturalmente lo studio e l'ultimo è sorprendentemente la corretta e
necessaria citazione delle fonti. Dire una cosa, citando il nome di chi l'ha
detta, riportare sempre il nome dell'autore è causa di redenzione per il mondo
secondo l'insegnamento contenuto nel libro di Ester: "E disse Ester
al Re, a nome di Mardocheo..." (Ester, II, 22). La frase che Ester
dice al re Assuero si riferisce alla congiura ordita contro di lui e di cui la
ragazza era stata informata da Mardocheo, suo padre adottivo. Aver citato
fedelmente l'autore della preziosa notizia valse a Mardocheo la salvezza e fu
motivo di un editto di Assuero a favore degli Ebrei.
Va da sé, d'altra parte, che questa morale rabbinica
si ispiri ai libri sapienziali del Vecchio Testamento, come appare in
tutta evidenza nelle parole di rabbi Ben Zòma':
"Chi è veramente sapiente? Chi impara da ogni uomo;
secondo quanto è stato detto (Salmi,114, 99): 'da tutti coloro che mi
insegnarono io mi sono istruito'. Chi è veramente prode? Chi vince le sue
tentazioni, secondo quanto è stato detto (Proverbi, 16, 32): "E'
meglio il longanime del prode e chi domina il suo carattere di chi espugna una
città". Chi è veramente ricco? Chi si contenta della sua parte, secondo
quanto è stato detto: (Salmi, 128, 2): "Beato te e felice te,
quando potrai mangiare della fatica delle tue mani"..."(IV,1)
In alcuni aforismi echeggia persino la lezione di Qoelet:
"Sii molto umile davanti a chicchessia, perché, tanto, l'unica speranza
umana sono i vermi", osserva rabbi Levitàç (IV, 4) e 'Aqàbjàh ben
Mahalal'él risponde a suo modo alla triplice e fatidica domanda della
tradizione esoterica: "Rifletti a tre cose e tu non avrai mai a commetter
peccato: Sappi donde tu sei venuto, verso dove tu vada e dinanzi a Chi tu sarai
per render conto completamente delle tue azioni. Donde sei venuto? Da una
goccia putrida. Dove vai? Verso un luogo di polvere, vermi e lombrichi. Dinanzi
a chi sarai tu per render conto delle tue azioni? Davanti al Re dei Re, il
Santo, benedetto Egli sia" (III, 1) [Segue]
sergio magaldi