mercoledì 13 gennaio 2016

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Settima]

Kandinsky, Composizione V







 L'esemplificazione del paradosso insito nel pensiero sapienziale della Qabbalah ebraica, consistente nel tentativo di pervenire a una totale identificazione di pensiero sapienziale e di pensiero teleogico,  si trova forse - come è stato messo in evidenza da Gershom Scholem, Martin Buber, Karl Grozinger e tanti altri - nell'universo letterario di Kafka. Addirittura G.Scholem soleva dire che per capire veramente la Qabbalah bisognerebbe prima aver letto i libri di Franz Kafka.

 Nei romanzi dello scrittore praghese si disegna infatti, contemporaneamente, la speranza teurgica propria della Qabbalah storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del Castello, come l’impossibilità di ottenere il giudizio nel Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio Testamento, neppure il ‘silenzio’ di Dio dipende dalla sua ‘morte’ e la condanna nell’apparente innocenza, così come per Giobbe, non dipende dall’esistenza di un Demiurgo malvagio che Kafka avrebbe in comune con Marcione e i marcioniti, secondo il fortunato ma per me errato giudizio di Remo Cantoni.

 La Qabbalah nell'accennare al progetto divino del mondo, individua nella teurgia lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia e questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e l’agrimensore K. nel Castello; il loro fallimento è il fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice, né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal Chassidismo, dove è il Rebbe, lo Zaddik, ad intercedere per la comunità.

 L’aiuto nel tribunale del Processo come nel villaggio del Castello si rivela illusorio quando non addirittura fuorviante. Eppure, questo pensare l’inadeguatezza della teurgia non si colloca fuori dell’ebraismo e della Qabbalah, e neppure è vissuto da Kafka con angoscia. 'L’angoscia intollerabile' di cui parlò André Gide s’impadronisce piuttosto dei lettori e deve servire ad allontanarli dall’agire frenetico. Il fatto è che lo scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin su…, bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang: “Nella misura in cui si può considerare il castello come sede della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano appunto -in termini teologici- che la grazia divina non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino”. (Cfr.in W.Benjamin, Angelus Novus, tr.it., Milano,1965,p.292).

A sostegno di tale interpretazione basterebbero alcuni pochi aforismi di Kafka contenuti negli “Otto quaderni in ottavo”, a cominciare dal più breve di tutti: Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato.

 L’En Soph, il Nulla che fa disperare i discepoli di Isacco il Cieco perché a Lui si deve guardare ma senza parlarne, diventa in Kafka il Dio che quando pensa a noi è perché in lui affiorano pensieri nichilistici, pensieri di suicidio. C’è di più: chi prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto Il nuovo avvocato (il dottor Bucefalo) per la trasposizione romanzesca del Libro della trasmigrazione delle anime della scuola di Luria, chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della dottrina del ghilghul? Ecco allora la grande comicità di Kafka, messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che il grottesco finisce per essere, fatalmente, la modalità umana, inconsapevole e sapienziale, di vivere il sacro. Ma ci sono altri esempi: la fisiognomica o arte di leggere i segni del viso e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come il Sefer Chokhmat ha-Parzuf ) e costituisce una importante sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il commerciante Block a Josef K., nel romanzo di Kafka, può spesso dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle sue labbra. Il lettore, anche quello meno distratto, non si sognerebbe mai di pensare che si stia parlando di Qabbalah, egli è piuttosto attratto dalla garbata comicità che traspare dal colloquio e dal fondo quasi surreale della narrazione su cui si staglia prepotente e improvvisa una verità di cui il lettore è certamente a conoscenza: la lunghezza dei processi. Ma, per l’ennesimo paradosso, tale lunghezza è un bene più che un male per l’imputato, visto che nei tribunali del Processo i giudizi definitivi e favorevoli sono rari o addirittura inesistenti, a prescindere, naturalmente, dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato.

 Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del ‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto “Davanti alla legge”, ripreso anche nelle ultime pagine del “Processo”, rivive la leggenda del guardiano della soglia: “ Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni. Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno, stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte, tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo, ‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di entrare?’. Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso: ‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te. Ora me ne vado e la chiudo.’ (F.Kafka, Racconti, tr.it., Feltrinelli, VI Ed., Milano, 1965, pp.137-139)

 Il cabbalista fa di tutto per attrarre la Shekinah nel mondo. Lo Zohar assegna simbolicamente alla Shekinah la figura femminile. Al contrario, la donna nella tradizione rabbinica è talora vista come immagine di Lilith. La stessa ambivalenza c'è nelle donne dei romanzi di Kafka, egli, tuttavia, non può fare a meno di notare che da loro deriva spesso un grande aiuto.

 Il primo ‘aiuto’ di Leni, la segretaria dell'avvocato Huld nel Processo, è il gran fracasso con cui attira l’attenzione di Josef K. per sottrarlo alla noia dei discorsi tra lo zio, l’avvocato e il cancelliere capo del tribunale. E’ lei che lo introduce nello studio dell’avvocato ed è ancora lei a suggerirgli la giusta strategia da adottare durante il processo: ‘Non stia a domandare nomi, ma guarisca di questo suo errore, non sia più così ostinato, contro questo tribunale non si può difendersi, bisogna finire per confessare. Alla prossima occasione confessi tutto. Solo quando si è confessata la colpa si ha la possibilità di sfuggire, solo allora. Ma anche questo non è possibile senza aiuto di altri, però non deve preoccuparsi per questo aiuto, penserò io stessa ad aiutarlo.’ (Ibid., p.104). Seguirà poi la scena della seduzione, quando K. è trascinato sul tappeto e Leni gli sussurra: ‘Ora sei mio’. Poco prima, tuttavia, Kafka, che non smette mai di divertirsi, non perde occasione per alludere al ghilghul e al molteplice ‘scambio’ che intercede tra vita animale e vita umana: tra i due si parla di difetti fisici e Leni dice: “ ‘io per esempio ne ho uno, guardi qua’ e stese il medio e l’indice della destra che erano congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange. Nel buio K. non capì subito quello che gli voleva far vedere, ed essa perciò gli guidò la mano perché sentisse la sua. ‘Che scherzo di natura!’ esclamò K., E quando ebbe esaminata tutta la mano aggiunse: ‘Che bella zampetta!’ ” (Ibid. pp.105-106)

 Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’invisibile signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è qualcosa di allegro, di libero’ egli ha come l’impressione di smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze di ascesa vadano in fumo. La verità è che nessun aiuto è efficace né per giungere sino al Signore del Castello né per mitigare la sentenza del Giudice del Tribunale. Ne sa qualcosa il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare subito a morte. Ne sa qualcosa Giobbe nel gridare a Dio il suo dolore: "Signore perché dai importanza all'uomo? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova ? (Giobbe,7, 18)

 In conclusione, dunque, vorrei dire che il pensiero sapienziale della tradizione occidentale, pur nelle continue interferenze col pensiero religioso, appare in grado di rivendicare una propria peculiare elaborazione anche e nonostante la presenza del divino, la cui imperscrutabile lontananza - come nel monoteismo ebraico - e la cui costante presenza - come nel politeismo greco - nulla possono sulla libertà umana e sull'umano sapere.


sergio magaldi

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