Le Confessioni, regia di Roberto Andò, Aprile 2016, Italia-Francia, 100 minuti |
Un film sulle dinamiche del potere, scrive
Alessandra Peluso in rete su "Affari Italiani". C’era davvero bisogno di Le Confessioni
di Roberto Andò per comprenderle? Per sapere che le decisioni che riguardano le
condizioni materiali di esistenza [e non solo] di miliardi di individui sono
prese dai ministri dell’economia di un ipotetico G8, riuniti in terra tedesca
attorno al direttore del Fondo Monetario Internazionale, tale Daniel Roché, interpretato
dall’ottimo Daniel Auteuil? Che a
tali riunioni è bene invitare autorevoli esponenti della società civile per far
finta di garantire l’osservanza dei diritti umani? Nella fattispecie, una
scrittrice di libri per l’infanzia, famosa anche per la sua lotta contro le
disuguaglianze [Connie Nielsen], un
noto cantante [Johan Heldenberg] che
dirige una prestigiosa Ong [Organizzazione
non governativa a scopo umanitario], un monaco certosino dotato di
grande carisma [un Toni Servillo,
grande come sempre].
Se è vero, come lascia chiaramente intendere
il film, che tutta la politica si riduce oggi ad economia [ma non è stato
sempre così? Qualcosa il buon vecchio Marx ce l’ha insegnata!], perché la
narrazione si incentra tutta su un potere di cui non è difficile intuire la
strategia e le mosse, mentre nulla lascia trasparire circa i burattinai che dietro
le quinte dirigono i pupi di volta in volta prescelti per assicurare l’Ordine
[O il Disordine, secondo il punto di vista] Mondiale?
Paolo Mereghetti osserva
giustamente sul Corriere che “Le
Confessioni”di Andò non ci fanno scoprire nulla perché “la sceneggiatura (del
regista e di Angelo Pasquini) finisce per cadere nella trappola di un generico
complottismo moralista, dove non c’è niente da scoprire e la tesi di partenza
(i responsabili dell’economia mondiale sono il male, a priori) toglie forza al
film perché talmente rigida da non permettere alcuna possibile evoluzione”.
La mia impressione è che l’intento
del film – partendo dal presupposto che le decisioni della politica e dell’economia
siano prese a vantaggio di ristrette oligarchie e sempre contro le masse – sia
quello di esorcizzare il potere, mostrando “…Di che lacrime grondi e di che
sangue…” e portandolo a “confessare” se stesso. Ma i segreti che il direttore
del Fondo Monetario e il ministro italiano [Pierfrancesco
Favino, ancora una volta poco convincente interprete di ruoli politici]
confessano al monaco Salus, come pure l’immancabile tentativo di risolvere il
film in un thriller, con la morte inquietante di uno dei protagonisti, non
hanno la forza per accendere la curiosità dello spettatore, anche se
raggiungono lo scopo di spostare l’attenzione sull’enigmatico religioso.
Il film si converte così, da
una lettura scontata delle dinamiche del potere, in una metafisica del reale a
sfondo mistico e magico. Una filosofia che pone l’accento sull’insanabile
contrasto tra esercizio del potere e misticismo naturalistico, dal quale ultimo
soltanto sembra poter venire la speranza e la salvezza. Una lettura anche
accettabile, in fondo, se non fosse che il linguaggio ricorre ad un
vocabolario già ampiamente utilizzato, finendo col proporre una sintesi di maniera e
talora fuorviante. Il clima – come è stato osservato da più parti – è quello di
Toto Modo di Sciascia, portato sullo
schermo da Elio Petri con ben altro vigore. La location e il ritmo troppo
rievocano, senza neppure sfiorare il modello, le eleganti suggestioni di Youth di Paolo Sorrentino. Il monaco
certosino, al di là della bravura di Toni Servillo, è figura costruita tra il
Guglielmo di Baskerville di Il nome della
rosa e i santi Agostino e Francesco e, perché no – come osserva Maurizio
Acerbi su Il Giornale – persino
strizzando l’occhio all’attualità di Papa Francesco. L’ambizione di affidare al
linguaggio degli uccelli il senso ultimo e trascendente della realtà, il
contrasto natura-civiltà, l’apologia del silenzio e della solitudine, fa venire
in mente Uccellacci e Uccellini di
Totò e Pier Paolo Pasolini. Lì, gli uccellacci erano i falchi, qui sono gli
uomini che controllano il potere economico globale. Lì il corvo è
l’intellettuale di sinistra che fallisce nel suo compito e verrà divorato. Qui
non ci sono uccelli cattivi e neppure moralisti velleitari come il corvo di
Pasolini: c’è l’Uirapuru, il passero
“sacro”, il cui canto, come un lungo ed armonico fischio, ha il potere di
silenziare l’intera foresta amazzonica. La lezione è: se non si fa silenzio
dentro di noi e fuori di noi, nessuna impresa è possibile. Ma la solitudine del
passero leopardiano o piuttosto la voce del povero del Salmo 101 sono davvero
veicolo di salvezza, come vorrebbe far credere con l’esempio il monaco Roberto
Salus del film? O non rappresentano la consapevolezza dell’inutilità della
lotta, la preghiera e insieme la speranza rivolta unicamente al Signore
dell’Universo? Recita il Salmo: “Signore, ascolta la mia preghiera, /a te giunga il mio grido di aiuto./
Non nascondermi il tuo volto/nel giorno in cui sono nell’angoscia./Tendi verso
di me l’orecchio,/quando ti invoco, presto, rispondimi! / Svaniscono in fumo i
miei giorni/e come brace ardono le mie ossa./Falciato come erba, inaridisce il
mio cuore;/dimentico di mangiare il mio pane. /A forza di gridare il mio
lamento/mi si attacca la pelle alle ossa./Sono come la civetta del
deserto,/cono come il gufo delle rovine./Resto a vegliare: sono come un
passero/solitario sopra il tetto”.
Nelle
Confessioni di Andò c’è però anche l’Upupa e il misticismo naturalistico si stempera
all’improvviso nella magia. Tutta la tradizione rappresenta questo uccello come
dotato di grande potere, tant’è che il monaco in una sequenza del film si
identifica con lui: scompare di scena mentre parla e nel cielo appare una
grande upupa. Compagno inseparabile di Salomone, questo uccello era capace di
penetrare con lo sguardo tutta la terra come se questa fosse una sfera di
cristallo. È tra i pochi animali ammessi nel paradiso islamico, per Agrippa è
il primo dei sette uccelli planetari, per Paracelso è il Saturno degli uccelli
e conosce il passato, il presente e il futuro, per Giordano Bruno è il volatile
di cui si serve Mercurio per trasmettere i propri messaggi.
E
ancora un altro animale appare nel finale del film: il cane di uno dei potenti. Talora feroce, diviene mansueto grazie al
monaco, prende il nome di Bernardo e segue le orme del religioso che si
allontana in solitudine. Nel simbolismo degli antichi il cane rappresenta il
guardiano della soglia. Di una umanità nuova che si sottrae al disordine erratico
della vita precedente e diviene capace di costruire una civiltà altra e diversa?
È questo il messaggio del film? La mansuetudine, il silenzio e l’ascolto della
natura, la trascendenza e il magismo sono le sole armi da utilizzare contro la
sopraffazione dei diritti umani? Se così è, anche al di là dell’intenzione
degli autori, e a prescindere dalla discutibilità di una tesi pur sempre
rispettabile, resta da osservare che la rappresentazione giunge allo spettatore
poco equilibrata, affastellata com’è di simbolismo rudimentale, misto al semplicismo
realistico della narrazione.
sergio magaldi
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