Perfetti sconosciuti, regia di Paolo Genovese, Italia, 2016, 97 minuti |
Facile
comprendere il successo di pubblico di Perfetti
sconosciuti, in programmazione ormai da tre mesi nelle
sale romane. Un film che rispecchia fedelmente il modo di essere e di vivere di
tanta parte della piccola e media borghesia. Sette personaggi [due coppie tra i
quaranta e i cinquanta, una coppia più giovane e un single, Peppe, interpretato
con la consueta efficacia espressiva da Giuseppe
Battiston] riuniti una sera a cena per celebrare il rito del cibo, se non
altro cucinato [a buon diritto la location
è semplice e senza sorprese, del noto e fortunato filone “Metti una sera a
cena…”], tutti pronti a comunicare tra loro con battute della lunghezza di un sms,
tant’è che il discorso più lungo lo fa Rocco [Marco Giallini] a sua moglie Eva [Kasia Smutniak], quando si appartano nel bel mezzo della bufera che
già infuria tra i convitati: "Non trasformare ogni discussione in una lotta di supremazia. Non credo
che sia debole chi è disposto a cedere, anzi, è pure saggio. Le uniche coppie
che vedo durare sono quelle dove uno dei due, non importa chi, riesce a fare un
passo indietro. E invece sta un passo avanti. Io non voglio che finiamo come
Barbie e Ken: tu tutta rifatta e io senza palle".
Mentre la battuta più drammatica e al tempo stesso comica,
perché più di ogni altra suscita il riso del pubblico [ciò che invita a
riflettere], è quella che Lele [Valerio
Mastrandrea], parlando come a se stesso, in realtà pronuncia per tutti, con
l’eccezione della moglie Carlotta [Anna
Foglietta] che non può ascoltarla, perché è appena uscita sbattendo la
porta di casa degli amici che l’hanno ospitata, e di Bianca [Alba Rohrwacher], la sposa recente di
Cosimo [Edoardo Leo], il dongiovanni
tassista, che chiusa in bagno tra i singhiozzi, per un miracolo della
sceneggiatura, mostrerà poco dopo in realtà di averla udita e interpretata a
dovere. “So
frocio solo da du ore e già m'è bastato…”,
era stato il
commento di Lele.
Sono gli stessi personaggi che consumano i
propri fasti nelle foto dei tablet e degli smartphone – talora impreziosite dall’apparizione
su facebook e instagram e scandite dai tanti reciproci “mi piace” – chiamate a immortalare
i momenti topici dell’esistenza: immagini dei paesaggi sublimi delle vacanze, album
di nozze, torte di compleanno, pietanze prelibate a esorcizzare il cattivo
gusto contemporaneo, animali graziosi o fieri, piante esotiche, fiori
multicolori, e persino massime e proverbi in neretto come altrettante perle di
saggezza. Sette personaggi che trovano il loro autore in Paolo Genovese,
coadiuvato da una sceneggiatura pensata e scritta a cinque teste e altrettante
mani, con un cast dignitoso che ha la sua maggiore performance nell’interpretazione di Alba Rohrwacher, come sempre
bravissima.
You will learn at your expense that in the long journey of life you will encounter many masks and few faces. (Luigi Pirandello, Italian Nobel Prize) |
E suo marito, Rocco, il chirurgo estetico, nel ruolo
del saggio che fornisce a tutti pillole di tolleranza e civile convivenza e
che, nel bel mezzo della crisi che ormai investe ognuno dei convitati,
pronuncia, indicando il cellulare, la frase che riassume un’intera filosofia di
vita e che è anche il leitmotiv dell’intero
film: "Qua dentro ci abbiamo messo tutto! Questo qua
ormai è diventata la scatola nera della nostra vita!".
Poi,
il finale imprevedibile solo in apparenza. Che ognuno lo interpreti come crede,
purché se ne parli: finzione o realtà? E se di verità si tratta, come induce a
pensare la santa trinità della logica aristotelica, quale migliore conclusione che
far finta di niente, lasciando che il principio
di realtà prevalga sul principio del
piacere, il calcolo e la convenienza sull'amore e il sogno, l’abitudine e i compromessi sul desiderio e
il bisogno di autenticità?
In definitiva, una delle migliori
rappresentazioni di certa borghesia italiana dell’era della globalizzazione, una
narrazione dell’ovvio e della banalità sublimata e che tuttavia si dipana a
pieno ritmo come in un ottimo thriller. Un film che finisce col compiacere lo
spettatore che si vede ritratto come in uno specchio, ma dove purtroppo non si
percepisce mai “la presa di distanza” degli autori [regia e sceneggiatura].
sergio magaldi
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