lunedì 16 gennaio 2017

IL TRADIMENTO delle élite, secondo Rampini




 Nel suo libro più recente [Il Tradimento. Globalizzazione e Immigrazione. Le menzogne delle élite, Mondadori, Strade Blu, Novembre 2016, pp.198], Federico Rampini entra nel merito delle questioni più “calde” dell’attualità politica ed economica. “Nulla di nuovo sotto il sole”, per la verità, neppure nella tesi di fondo che sorregge la narrazione e dà il titolo al libro, perché il cosiddetto tradimento delle élite, ancorché ingigantito dai potenti riflettori di cui dispone la nostra epoca, non è fatto né nuovo né originale e dunque, a mio giudizio, non soltanto e non espressamente riconducibile al fenomeno della globalizzazione e dell’immigrazione di massa. Pure, le pagine introduttive del libro hanno il pregio di ricapitolare in sintesi rapida e brillante quanto è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi. Insomma, laddove Rampini fa il punto sull’ultimo e forse più grave [in ordine di tempo] “tradimento” delle élite, appare convincente:

“II mondo sembra impazzito. Stagnazione economi­ca. Guerre civili e conflitti religiosi. Terrorismo. E, in­sieme, la spettacolare impotenza dell'Occidente a go­vernare questi shock, o anche soltanto a proteggersi.
 Senza una guida, abbandonate dai loro leader sem­pre più insignificanti e irrilevanti, le opinioni pubbli­che occidentali cercano rifugio in soluzioni estreme. La vittoria di Brexit nel referendum in Gran Bretagna che ha sancito l'uscita dall'Unione europea. I messag­gi radicali di Donald Trump e Bernie Sanders che nel corso della campagna elettorale americana del 2016 hanno avuto un seguito inatteso, insperato, imprevi­sto fino a un anno prima. Le derive autoritarie in Po­lonia e Ungheria. Che si tratti di fenomeni durevoli o transitori, passeggeri o irreversibili, tutti hanno un ele­mento in comune: alla paura si risponde con la fuga in­dietro, verso il recupero di identità nazionali. Si cerca di alzare il ponte levatoio. Di isolarsi da tutto il male che viene da «là fuori».
 È una reazione comprensibile.
 È normale cercare di proteggersi dall'inaudita violen­za di attentati terroristici di matrice islamista sul suolo europeo: un'escalation che dopo «Charlie Hebdo» ha colpito ancora Parigi nel novembre 2015, Bruxelles nel marzo 2016, Nizza nel luglio 2016. L'America non è immune.
 Ed è normale cercare una via d'uscita dalla stagna­zione economica ultradecennale, che ha reso i figli più poveri dei genitori.
 Immigrazione e globalizzazione, sono i due feno­meni sotto accusa.
 Il grande tradimento delle élite spinge alla ricer­ca di soluzioni nuove... oppure antichissime. Quel tradimento è reale. Per élite intendo un ceto privile­giato che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitali­sti, banchieri, top manager nella sfera dell'economia. Più coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la diffusione di paradigmi ideologici, l'egemonia culturale: intellettuali, pensa­tori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono den­tro anch'io.
 Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della globalizzazione, abbiamo teo­rizzato e propagandato i benefici delle frontiere aper­te: e questi per la maggior parte non si sono realizzati. Quando abbiamo continuato a recitare un'astratta re­torica europeista mentre per milioni di persone l'euro e l'austerity erano sinonimi di un grande fallimento.
 Il tradimento delle élite si è consumato quando ab­biamo difeso a oltranza ogni forma di immigrazione, senza vedere l'enorme minaccia che stava maturan­do dentro il mondo islamico, un'ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori.”

 Con il consueto e impeccabile stile giornalistico, tra aneddoti del vissuto personale, osservazioni più o meno condivisibili e una certa ostentata soddisfazione per la recente acquisizione della cittadinanza americana [tanto maggiore per chi come lui cominciò la sua attività giornalistica su “La Città Futura”, settimanale della Federazione Giovanile Comunista],



Rampini si muove tra Italia e Usa, neppure dimenticando la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping. Se “L’America non è il paradiso terrestre”, l’Italia sembra più vicina all’inferno: negli USA, “pur tra tanti squilibri, la ricchezza ha ripreso a circolare, l’economia si è rimessa in movimento”, in Italia è allarmante la disoccupazione giovanile, il sistema pensionistico è a rischio, perché “gli assegni ai pensionati vengono pagati via via che dai lavoratori attivi si prelevano i contributi. È un flusso di cassa, da chi lavora a chi sta in pensione. Se si ferma il flusso, lo Stato deve metterci del suo: e ha già debiti  oltre il 120 per cento del Pil. Come si può pensare che questo sistema regga, e che continui a pagare i pensionati prossimi venturi, se il mondo del lavoro sarà fatto di giovani che guadagnano fra gli 800 e i 1500 euro al mese?” [pp.88-89]. Le ragioni della crisi italiana sono molteplici, ma tutte riconducibili ad una classe dirigente imbelle e cialtrona che continua a incoraggiare e  proteggere il corporativismo: dall’eccessiva tolleranza nei confronti del comportamento dei dipendenti pubblici al nepotismo imprenditoriale, giornalistico e universitario, dalla mancanza di politiche sociali per ridurre le disuguaglianze alla corruzione, alle raccomandazioni e ai tanti favoritismi [pp.90-93].
 L’analisi di Rampini, talora ineccepibile, perché racconta ciò che è sotto gli occhi di tutti, non esclude tuttavia qualche elemento di incorerenza. A cominciare dalla globalizzazione – da lui ritenuta lo strumento principale del tradimento delle élite – che sarebbe agli sgoccioli [Globalizzazione addio, si intitola il V capitolo del suo libro], non solo per via di una crescente autocritica, un po’ ovunque nel mondo, delle stesse élite, e  per l’affermarsi della glocalizzazione – così il sociologo Zygmunt Bauman chiama il fenomeno dell’adattamento del globalismo economico alle realtà locali – ma soprattutto per le prese di posizione di Trump contro l’immigrazione di massa e la delocalizzazione delle imprese. A seguire con l’affermazione che la Cina non ha alcun interesse a interrompere un fenomeno che l’ha portata ad essere la più grande potenza economica del mondo e che le nuove regole del mercato per fronteggiare lo strapotere cinese, in gran parte determinato dalla globalizzazione, stentano a decollare. Il Tpp [Trans Pacific Partnership] o accordo di libero scambio siglato lo scorso ottobre dagli Usa con 11 paesi dell’area del Pacifico, non sembra infatti sufficiente a interrompere e neppure a limitare lo sviluppo cinese, in mancanza dell’approvazione del Ttip [Transatlantic Trade and Investment Partnership] tra USA e Unione Europea [UE], di cui si parla ormai da oltre tre anni. Ma il Ttip – mi chiedo – tra paesi che rappresentano la metà del Pil mondiale, è davvero in grado di modificare le attuali storture del mercato globale o non si rivelerebbe addirittura dannoso, come più di uno studio dimostra, per i diritti dei produttori e dei consumatori, soprattutto europei e in particolare italiani, considerata la produzione ancora eccellente del “made in Italy”? Senza neppure considerare le ripercussioni sul piano politico e in ultima analisi sul ruolo della democrazia. Perché se è vero, come sostiene Rampini, che la democrazia è in crisi ovunque nel mondo occidentale per la crescente proletarizzazione della classe media, che senso ha lanciare un appello, alla fine del libro, per “Salvare la democrazia”, in un mondo che ha liquidato la classe di riferimento delle istituzioni democratiche, e i cui valori sono determinati unicamente dalla guerra dei Pil, gestite dalle élite, con scarsa attenzione al benessere sociale della collettività e alla volontà dei cittadini?


sergio magaldi   

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