Salmen Gradowski scrisse il testo che
segue nel 1944 e lo seppellì nei pressi del Crematorio IV di
AuschwitzII-Birkenau. Il manoscritto fu scoperto nell’estate del 1945. Il termine sonderkommando identificò gli speciali gruppi di
deportati, per la maggior parte ebrei, obbligati a collaborare con
i nazisti all'interno dei campi di
sterminio.
Più d’uno dei nostri
camerati osservava con disdegno e derisione quella qualche decina di ebrei che si
raccoglievano, in attesa dello shabbat [il sabato, giorno festivo
dell’ebraismo, n.d.r.], per recitare la preghiera della sera. Altri li guardavano con
acredine, perché l’atroce realtà, le orribili
tragedie che si svolgevano ogni giorno sotto i nostri occhi non potevano
risvegliare un sentimento di
gratitudine, né incitare a cantare le lodi del Creatore dell’universo,che aveva lasciato che
un popolo di barbari assassinasse e annientasse milioni di innocenti,uomini, donne e
bambini, la cui unica colpa era quella di essere nati ebrei, di avere
riconosciuto l’onnipotenza di questo
Dio, al quale innalzavano le proprie preghiere anche in questo luogo, di aver portato
all’umanità il monoteismo. Per questi motivi subivano il massacro.
E perché mai, allora,
avrebbero dovuto onorarlo? Perché? Perché mai innalzare lodidavanti a questo oceano
di sangue ebreo? Implorare Colui che non vuole ascoltare i pianti e le grida dei bambini
innocenti, no! E costoro si ritiravano, delusi e amareggiati, in collera con
i compagni, che non la pensavano come loro.
Anche altri ebrei, un
tempo religiosi, hanno preso le distanze. Già da un pezzo sono freddi nei confronti
del loro Dio. Sono delusi della via intrapresa. Non riescono a comprenderecome un padre possa
consegnare i propri figli nelle mani di sanguinari assassini, nelle mani di coloro
che lo dileggiano e si prendono gioco di lui. Non vogliono cercare troppe risposte, per timore di
perdere il loro ultimo sostegno, se dovesse svanire il loro estremoconforto. Se ne stanno
in disparte, senza interpellare Dio, né rendergli conto. Vorrebberoancora pregare, aprire
i loro cuori, ma non possono. Non vogliono essere falsi, né versoDio né verso se stessi.Malgrado tutto ciò,
nonostante questo stato d’animo diffuso, c’è un gruppo ostinato dipraticanti, che si dà
da fare per respingere lo sconforto, per far tacere le proteste che ogni giorno colpiscono il
loro cuore e il loro spirito, che vorrebbero il rendiconto, che chiedono il perché. No! Contro
l’evidenza delle cose, persistono nel restare legati ai lacci della fede piingenua. Senza
domandare ragioni, né cercare ragioni. Credono, sono tuttora convinti, e lo dimostrano ogni giorno,
che tutto quanto è fatto e commesso contro di noi è voluto da un potere superiore, il
cui disegno ci rimane impenetrabile. Che noi, con la nostra povera ragione umana, non possiamo
comprendere. Si aggrappano con tutte le loro forze al loro Dio. Sono impregnati di una
fede profonda, anche se vedono, avvertono, hanno il presentimento che stanno affogando
nell’oceano della loro credenza. E forse, forse, nel più profondo del cuore il dubbio li
tormenta, ma essi si tengono saldi, non vogliono perdere il loro ultimo conforto, non vogliono
perdere il loro ultimo sostegno.
Così, in seno a questa
famiglia di cinquecento anime [il Sonderkommando, n.d.r.], credenti, non credenti,
amareggiati o indifferenti, si è creato dall’inizio un piccolo gruppo di uomini sempre più numeroso con
il passar del tempo, che recita tutte le preghiere giornaliere in minyan [gruppo di 10 maschi
adulti, numero minimo per la preghiera comunitaria, n.d.r.].
Capitava sovente che un
camerata non praticante fosse trascinato da questi canti e da queste preghiere. Un suono, il
motivo di un canto tradizionale del venerdì sera giungeva sino a lui e lo strappava alla
tragica atroce realtà. Le agitate onde dei ricordi lo riportavano al mondo di un tempo. Tornava
indietro, nuotava verso gli anni passati. Si rivedeva a casa sua. […] Io rimpiango i miei
fratelli, perché sono miei fratelli, e li rimpiango perché tutta una parte di questa mia esistenza
nell’inferno è legata a loro. Giro lo sguardo verso l’angolo dove se ne stavano raccolti in
preghiera. Un torpore di morte proviene di lì. Nessuno, non c’è più nessuno.
Scomparse le vite,
spenti i canti. Un rimpianto in più, un altro dolore ancora si aggiungealla mia profonda
infelicità. Noi rimpiangiamo i nostri fratelli, perché sono nostri fratelli.
Noi li rimpiangiamo, perché
c’è venuta a mancare, ci manca la luce, ci manca il calore, ci manca la fede, ci manca la
speranza che proveniva dalla loro presenza. Con la loro scomparsa,
se ne è andata l’ultima consolazione.
S. GRADOWSKI, Sonderkommando. Diario
da un crematorio di Auschwitz,
1944, Marsilio, Venezia 2002, pp. 195-201, trad. it. A. SCHAUMANNWOLKOWICZ
Nel
quadro degli scellerati crimini che una parte dell’umanità ha commesso e
continua a commettere nei confronti di un’altra parte di umanità, non c’è
dubbio che il massacro nazista degli ebrei assuma una sua peculiarità e unicità
come tentativo di eliminare una volta per sempre dalla faccia della terra il
popolo eletto del Dio biblico, lo stesso Dio dei cristiani e dei musulmani. Si
aggiunga a questo che la “soluzione finale” della questione ebraica è stata
affrontata con una ferocia e un’organizzazione propagandistica burocratica e
industriale che non ha precedenti nella storia del mondo. Certo, la Shoah ha
ben noti precedenti, dei quali ricorderò soltanto: i numerosi pogrom contro gli
ebrei, ritenuti responsabili persino delle sciagure naturali, a cagione della
loro diversità spirituale, culturale, linguistica e di costume e, purtroppo e
soprattutto, l’accanimento del diritto canonico nel ghettizzare gli ebrei [già il
Sinodo di Elvira del 306 vieta matrimoni e contatti sessuali tra ebrei e
cristiani], come si evince dal grafico di seguito riprodotto [pp. 268-9 del
volume Das Judentum di Hans Küng,
trad.it., Saggi Bur, Miano, 1999]. Tutto ciò, ancorché Vaticano, Papa ed
ecclesiastici cattolici e cristiani abbiano contribuito a nascondere e a
sottrarre alla barbarie antisemita numerose famiglie di ebrei durante la
seconda guerra mondiale.
In
tale contesto, sorprende ancora gli storici che il dibattito teologico sulla Shoah sia iniziato con più di venti anni
di ritardo rispetto agli eventi accaduti a Auschwitz,
Dachau, Bergen Belsen, Chelmo etc.; annichilimento e silenzio di fronte
ad una tragedia di tale portata? Può darsi, ma è più probabile che la causa sia
dovuta al timore di confrontarsi con quello che, non solo per gli ebrei, ma per
tutti i credenti è ritenuto uno degli argomenti fondamentali del discorso
teologico: la teodicea. Questo
termine nasce con il Saggio sulla bontà
di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male [1710] di Leibniz
[1646-1716], rivelando subito la sua natura più propriamente filosofica che
teologica in quanto tale. Non a caso, nel saggio, Leibniz rispondeva alle considerazioni contenute nel Dizionario [1697] di Bayle che a sua
volta riprendeva l’antica polemica dei seguaci di Epicuro contro gli Stoici: “Dio o non vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole, o
non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente: il che non può
essere in Dio. Se può e non vuole è
invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole né può è invidioso e
impotente perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo conviene a Dio, da che
cosa deriva l’esistenza dei mali e perché non li toglie?” [Fr.,374, Usener]
Solo con un
altro filosofo, Hans Jonas
[1903-1993], la questione posta dalla teodicea per rapporto alla Shoah, sembra
avere un chiarimento che in un certo senso è anche la soluzione e la morte
della teodicea classica. Jonas ritiene che dopo Auschwitz non sia più possibile
conciliare tra loro onnipotenza, bontà e misericordia di Dio, e ad essere
sacrificato è l’attributo dell’onnipotenza non quello della bontà, della misericordia
e della partecipazione di Dio alla sofferenza umana. L’argomento trae il suo
fondamento dalla narrazione della creazione dell’uomo e del mondo del noto
cabbalista di Safed Yitzhak Luria [1534 – 1572], detto il leone: la creazione non consiste in
un prolungamento o in una concentrazione di Dio nel mondo, ma in uno Tzimtzùm, cioè in una contrazione, in un ritrarsi di Dio da uno spazio che da quel momento diviene altro da
sé, e rispetto al quale Dio è tutt’altro
che indifferente ma sul quale non può intervenire, pena la fine stessa del
mondo. Perché tutto questo? Jonas rende esplicito in senso filosofico
l’argomento di Luria: se Dio, come totalità, si fosse semplicemente steso,
prolungato o concentrato nel mondo, rendendolo simile a se stesso, per l’uomo e
per la vita, così come la conosciamo non ci sarebbe stato posto, ma è
altrettanto vero che con lo Tzimtzùm,
lasciando nascere l’uomo e il mondo, Dio lasci entrare nello spazio lasciato
libero, anche il male metafisico [la
morte], il male fisico e morale. L’argomento di Luria e di Jonas,
naturalmente, è stato giudicato eretico dalla teologia ebraica e anche dalle
altre due teologie monoteistiche, ma sembra l’unica spiegazione possibile, nel
linguaggio della Qabbalah e della filosofia, per preservare tutti gli attributi
divini con l’esistenza del male, con Auschwitz e con la Shoah.
Diversamente, Emil Ludwig Fackenheim (Halle 1916 – Gerusalemme 2003) che, oltre che filosofo, fu anche rabbino e teologo vede la questione della Shoah e dell’onnipotenza divina nel solco della tradizione teologica ebraica. Il disegno di Dio, anche nel male che colpisce i giusti, come nel caso del sacrificio di Isacco e come soprattutto nelle sventure di Giobbe, se non è immediatamente comprensibile, lo diviene più tardi col divenire della storia umana. Fackenheim ritiene che la fine della diaspora, la voglia di sopravvivere del popolo ebraico alla follia sterminatrice di Hitler e dei suoi aguzzini, sia stata la migliore risposta alla Shoah e che sempre, al silenzio di Dio, debba corrispondere il silenzio dell’uomo e il tiqqun ha’olam, la riparazione del mondo. Un concetto teologico, peraltro anche questo mutuato dalla tradizione cabbalistica e che diventa persino comprensibile in una accezione puramente laica. Scrive Fackenheim [The Holocaust and the State of Israel: Their Relation, in E. Fleischner (cur.), Auschwitz: Beginning of a New Era?, KTAV (1977), pp. 209-210]: "Gli storici vedono una connessione causale tra l'Olocausto e la fondazione dello Stato d'Israele. Il ragionamento è come segue: se non fosse stato per la catastrofe ebraica europea, tutti quei secoli di anelito religioso per Sion, tutti quei decenni di attività sionista secolare, insieme a tutto l'incoraggiamento dato dalla Dichiarazione di Balfour avrebbe prodotto al massimo un ghetto palestinese. Avrebbe certo potuto essere una comunità con stupendi risultati interni, ma piuttosto che una "patria" per ebrei dispersi senza tetto, sarebbe invece stata alla mercé di un qualche governo straniero di dubbia benevolenza. Solo l'Olocausto ha prodotto quella disperata determinazione dei sopravvissuti e di coloro che ci si identificavano; fece finire le incertezze dei leader sionisti... e produsse un momento di respiro dal cinismo politico della comunità internazionale, abbastanza a lungo da sancire legalmente lo Stato Ebraico".
sergio magaldi
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