Comunque
vadano le cose Domenica 1 Ottobre, il governo di Mariano Rajoy sta facendo di
tutto per dare all’indipendenza della Catalogna quella legittimità che, almeno
in base alla carta costituzionale del regno di Spagna, sembra non avere; anche
se, pur parlando di indissolubilità della nazione, la costituzione nulla dice a
proposito dell’eventuale diritto di altre nazioni – che pure sono parte
integrante del Paese – di separarsene, come appunto chiede con questo
referendum ai propri cittadini la nazione catalana, riconosciuta come tale dallo
Statuto del 1979: “Cataluña, ejerciendo el derecho a la autonomía que la
Constitución reconoce y garantiza a las nacionalidades y regiones que integran
España, manifiesta su voluntad de constituirse en comunidad autónoma [Catalogna, esercitando il diritto
all’autonomia che la Costituzione riconosce e garantisce alle nazionalità e
alle regioni che formano la Spagna, manifesta la sua volontà di costituirsi in
comunità autonoma] recita il secondo capoverso del Preambolo dello statuto
catalano. Che la Catalogna sia riconosciuta come nazione non ci sono dubbi:
oltre al Preambolo ne fanno testo la potestà legislativa e gli articoli 3 e 4
dello Statuto che gli riconoscono rispettivamente una lingua autonoma, e dunque
una cultura propria, e una bandiera. C’è di più: il terzo comma dell’art.56
riconosce alla Generalità Catalana la possibilità di indire un referendum per
la modifica dello Statuto. E il bello è che la Costituzione spagnola non
contempla il referendum, o meglio prevede solo quello consultivo, senza peraltro vere e proprie leggi attuative. È vero
d’altra parte che qui non si tratta di riformare ma di proclamare eventualmente
l’indipendenza.
E allora bisogna risalire al 2006, allorché i catalani si
videro bocciare il nuovo Statuto dal Tribunale Costituzionale, per effetto
della denuncia presentata da alcuni parlamentari del Partito Popolare [di
discendenza franchista] che oggi con Rajoy governa la Spagna. Non c’era la
possibilità dell’autodeterminazione ma diritti sostanzialmente non differenti da
quelli riconosciuti all’Andalusia, la Comunità più povera del Paese e che
riceve un robusto sostegno economico, cioè la maggiore solidarietà
da parte delle Autonomie e delle Regioni più ricche, come appunto la Catalogna
[Il contributo allo Stato calcolato da Artur Mas, allora presidente della
Generalità, era nel 2012 di 16.409 milioni di euro]. Cosa c’era di tanto
rivoluzionario nello Statuto del 2006 bocciato dalla Corte Costituzionale,
rispetto allo Statuto precedente? Una più forte sottolineatura dell’autonomia,
con una maggiore intraprendenza finanziaria e, pur nella sostanziale parità col
castigliano, l’obbligo di apprendere il catalano e di utilizzarlo come lingua
di uso normale e da preferirsi per le amministrazioni pubbliche della Catalogna
e nell’insegnamento. Dalla bocciatura del nuovo Statuto – che pure era stato
approvato a norma di legge dal Parlamento spagnolo, da quello catalano e dal
referendum dei cittadini – i governi di centrosinistra e di centrodestra non
hanno più prestato attenzione alle rivendicazioni catalane. Secondo El País, uno dei più diffusi quotidiani
spagnoli, dichiaratamente unionista, oltre a queste ragioni contingenti, ci
sarebbero poi altri motivi [dieci] avanzati dagli indipendentisti. Il giornale
li elenca e li smonta uno per uno. Mi soffermerò solo sul primo, di carattere
storico, perché tutti gli altri mi sembrano più che altro valutazioni opinabili
sia da parte degli indipendentisti che da quella dei loro avversari. La
rivendicazione storica riguarda la guerra di successione spagnola del XVIII
secolo che per i nazionalisti catalani fu una sfortunata guerra di indipendenza
della Catalogna contro la Spagna. Mentre in quello stesso secolo gli americani
si liberarono dalla corona inglese, la Catalogna fu sottomessa dagli spagnoli,
sostengono gli indipendentisti. In realtà – osserva El País – la guerra fu una lotta tra due candidati alla corona di Spagna: Filippo V di
Borbone appoggiato dalla Francia [in quanto nipote di Luigi XIV re di Francia]
e dalla Castiglia e Carlo d’Austria sostenuto dall’Inghilterra e dalla
Catalogna.
Tutto ciò premesso, la politica messa in campo
dal governo spagnolo, prima per essersi sottratta al confronto con la
Generalità Catalana – persino negli ultimi due anni, dopo la celebrazione del referendum consultivo del 2015 che
avrebbe dovuto rappresentare un campanello d’allarme e che invece ha portato a
pretendere da Artur Mas, allora presidente della Generalità catalana, la multa
di 5 milioni di euro – ora in prossimità della celebrazione del referendum con
una politica che, come registra anche il
New York Times, ha fatto parlare di “regressione democratica”, con l’arresto di 14 funzionari
catalani, chiusura di siti web, mobilitazione della Guardia civile e della
polizia catalana [Mossos] per sequestrare urne e schede e per impedire
l’accesso alle sedi elettorali da parte dei cittadini, sanzioni sino a trecentomila euro per chi presiede ai
seggi e per chi si reca a votare, la chiusura dello spazio aereo su Barcellona,
l’irruzione di questa notte di agenti della Guardia Civile nella sede del
Centro di Telecomunicazioni e Tecnologia delle informazioni di Catalogna per
sospendere i servizi informatici, impedendo ogni informativa sul referendum e l’eventuale voto telematico, la denuncia fatta contro Google
e tante altre misure che limitano fortemente la libertà di espressione. Fin dove si spingerà ancora il governo di Madrid per
fare in modo che Rajoy mantenga la parola data e cioè che i cittadini catalani non
voteranno il referendum?
Personalmente, come ho
già detto in altri post [vedi in proposito “Catalogna al referendum per l'autodeterminazione, Spagna permettendo” e anche “L’Editoriale di El País sulla strage di Barcellona”, cliccando sui titoli per leggere], ritengo anacronistico che si parli di nuovi
stati nazionali in un’Europa che avrebbe bisogno di più unità politica ed
economica, di più democrazia e libertà, ma la questione catalana, per come è
stata gestita dai governi spagnoli, per l’autoritarismo liberticida messo in
mostra dagli eredi del franchismo, sta di fatto trainando la società civile
catalana verso l’indipendenza, aumentando le adesioni a CUP [Candidatura d'Unitat Popular],
la formazione politica che più di ogni altra spinge per la sovranità catalana e
che raccoglie al suo interno militanti ex socialisti del PSAN [Partit
Socialista d'Alliberament Nacional], repubblicani e forze di sinistra anche
estreme. Comunque vadano le cose, sia che domani i catalani riescano a votare, oppure
no, sia che il voto sia soltanto parziale, la democrazia spagnola si sarà
dimostrata incapace di affrontare la questione catalana. Occorreranno nuove
elezioni politiche generali e una nuova maggioranza al governo di Madrid – auspicabilmente formata dal Partito socialista e da Podemos – per
aprire una vero dialogo con la Generalità Catalana.
sergio magaldi
sergio magaldi